lunedì 23 ottobre 2017

Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure



Io posseggo dell’oro, posseggo dei diamanti, ma disprezzo tutto ciò, perché la mia ricchezza è nell’impero che esercito su gli esseri superiori all’uomo. 

 Io non so dove sono nato, come non so veramente qual sia il mio nome proprio. Le memorie della mia fanciullezza sono remote; non posso misurarne il tempo.

Io apparivo un personaggio misterioso: Saint-Germain, Saint-Martin, tutte le altre figure di avventurieri, di imbroglioni, di ciarlatani, di filosofi, di ermetisti, di fondatori di ordini e di sette sbiadivano e sparivano dinanzi alla mia persona.


Perché non avrei potuto essere l’Aspettato? Perché non avrei potuto veramente infondere uno spirito nuovo nella libera muratoria, e farne un grande strumento per sollevare il mondo? Stringere in un fascio quel milione d’uomini sparsi nel mondo, dominarli, guidarli secondo la mia volontà; ecco un sogno superbo, che cominciava a tentarmi e a trarre un uomo nuovo dentro me stesso



Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. 
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914. 
Pagine 882 - Prezzo di copertina € 25,00
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it  

Luigi Natoli: La prigione del Pozzetto. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.


La prigione detta del Pozzetto era la peggiore di tutti: si trovava nella torricella del mastio, a occidente; alta dal suolo circa sessantaquattro braccia, illuminata da un finestrino con triplice inferriata, aperto a meno di tre palmi dal pavimento nudo e limaccioso, nella parete spessa otto palmi. Angusta, umida, semioscura; non aveva porta: vi si entrava dall’alto, per una botola che si apriva esternamente, donde, occorrendo, si calava una scala. Il prigioniero vi era stato calato con una corda; forse per questo, la prigione aveva nome Pozzetto: nessuna fibra, per forte che fosse, avrebbe potuto durare a lungo in quella sepoltura, che la pietà religiosa del sant’uffizio e del papa dava ai prigionieri. Non v’era che un mucchio di paglia per giaciglio, gittata in un angolo, sotto un grosso anello di ferro infisso nella parete per incatenarvi il prigioniero.


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure.
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914.
Pagine 882 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 

Luigi Natoli: La fortezza di S. Leo. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.


San Leo s’adagiava sulla cresta di Montefeltro, colle staccato dalle giogaie dell’Appennino, cinto di valli, arduo a salire, e da una parte tagliato a picco. Sulla vetta più alta, a oriente del borgo, da cui è separata da un pendìo sparso di macchie e di cespugli, si alza la fortezza, che dal lato opposto domina la rupe a picco. Da questo lato, che non ha salita, e dove bisognerebbe aver ali per giungere, la fortezza appare come un insieme di fabbricati massicci, addossati gli uni sugli altri; ma dalla parte del borgo, essa si presenta in un aspetto guerresco, con due grandi torri circolari di qua e di là dalla cortina merlata, e il mastio massiccio in mezzo, difeso da torricelle quadrangolari.
La fortezza o castello era come l’acropoli del vecchio borgo, che, più a valle, era difeso anche da muraglia e da altri fortilizi a tramontana e a occidente, prime sentinelle in difesa dell’inespugnabile castello.
La prigione dell’ “eretico” era nel mastio; era una cella larga tre passi, o poco più, con la volta alta una statura d’uomo e mezza; e una finestretta a quattro palmi dal suolo. Il prigioniero poteva quindi affacciarvisi comodamente e guardare lo spazio libero ed ampio. L’occhio scendeva giù fra le macchie, errava sui tetti e per le strade del borgo sottostante, si fermava a guardare il duomo e l’alta torre; poi scorreva oltre, guardava i due fortilizi, dei quali sapeva già il nome: il Palazzetto e il Casino; e vedeva indi come un taglio, come una grande fenditura, che isolava il monte. Indovinava che in fondo vi correva il fiume: più oltre ne vedeva fra poggi e boscaglie luccicare l’argento delle acque.
E più lontano ancora poggi e colli si succedevano come in uno scenario, degradando in tinte più azzurrine e più sfumate; e sull’orizzonte si disegnava di qua la Carpegna, di là, più in fondo la linea degli Appennini.
L’occhio non poteva scorgere che meno della metà dell’orizzonte; ma quanti desideri tormentosi! Fra quei colli, sopra un monte era S. Marino, la piccola repubblica; più oltre, a occidente, lo stato di Toscana; alle sue spalle l’Adriatico. Erano la libertà e la salvezza!...


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure.
Nell'unica versione originale pubblicata a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914
pagine 881 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

martedì 17 ottobre 2017

Luigi Natoli: Le idee politiche di Giovanni Castaldi. Tratto da: I morti tornano...


- Quel “picciotto” vuol darci qualche altro boccone amaro! – disse don Giuseppe, dopo che Giovanni se ne fu andato: e si sprofondò nell’ampio seggiolone di cuoio nero, presso la tavola, dal quale non appariva che il volto scialbo e diafano incorniciato dalle barbette grigie, e le mani bianche, nodose, con le vene gonfie, appoggiate sui braccioli.
Per lui tutti i figli erano “picciotti”, anche se ammogliati, ma Giovanni, che gli era, quasi, rimasto in casa (abitava un quartierino contiguo, ma soltanto la notte: il giorno lo passava lui e Rosalia, nella casa paterna), Giovanni era più “picciotto” degli altri, forse perché lo giudicava ancora un po’ sventato. I bocconi amari, ai quali don Giuseppe alludeva, erano stati due, ma il primo, una vera sventatezza. Giovanni aveva tredici anni nel 1822. Aveva saputo che in un pomeriggio di gennaio s’avevano a fucilare nove cittadini, condannati per carboneria e cospirazione: e invece di andarsene all’Oratorio era corso a vedere quell’orrore. Ne era tornato con la febbre, e ne aveva avuto per più giorni. Don Giuseppe era andato in collera:
- Ben gli stia! Gli servirà per lezione per l’avvenire.
La lezione aveva avuto l’effetto contrario di quello previsto da don Giuseppe; perché da quel giorno, la visione di quei nove disgraziati  uccisi barbaramente, e fra essi un giovane ancora imberbe, del quale si recitavano dei sonetti, avevano acceso nell’animo di Giovanni odio contro i Borboni. Con gli anni l’odio si era fortificato: la storia greca e la romana gli avevano circondato di gloria Armodio e Bruto; e all’Università, conosciuti Dante e Alfieri, gli si erano dischiusi orizzonti più vasti. Ed era entrato nella Carboneria, affiliatovi da un compagno, Andrea Pardo, col quale aveva stretto vincoli di fraterna amicizia. Don Giuseppe, non aveva né avrebbe mai sospettato che un suo figlio potesse essere intinto di quella pece. Se ne accorse sbalordito, anzi atterrito, quando Giovanni, accusato di scienza e di connivenza con l’infelice tentativo carbonaro del 1831, (4) fu arrestato. Questa don Giuseppe non l’aveva potuto giudicare una sventatezza da ragazzo. Era un delitto. E ne aveva preso una malattia. E c’era voluta la buona reputazione di fedeltà e di devozione al Re, che egli godeva nel Ministero, le sue relazioni, l’intervento dei signori della prima nobiltà, per sottrarre Giovanni a una condanna. 
Nessuno toglieva dalla testa a don Giuseppe che l’Università gli aveva sviato il figlio. C’era qualche professore bacato da certe idee...; e facevan leggere troppi libri! Il buon uomo si rammaricava qualche volta d’aver ceduto alle insistenze di sua madre, che voleva un uomo di legge in famiglia. 
- In casa nostra – diceva la nonna Angelina – sono stati sempre avvocati: tu non hai voluto continuare la tradizione: che almeno la riprenda uno dei tuoi figli. 
Sì, stava bene: sarebbe forse stato meglio avviarci Nenè o Leopoldo, che erano più tranquilli. Ma avevano l’ingegno di Giovanni? E per riuscire ci vuole ingegno. Un avvocato senza ingegno va a finire “paglietta”. Giovanni, invece... E poi se non voleva esercitare l’avvocatura, poteva diventar magistrato, la toga era mezza nobiltà. Aveva quelle ideacce? Sarebbero passate con gli anni. I giovani hanno sempre qualche grillo: e se Leopoldo e Nenè non ne avevano avuti, e non ne aveva avuti neppure lui, don Giuseppe, non era una ragione che non dovesse averne Giovanni. Quel che importava era che Giovanni diventasse un bravo avvocato. Così donna Angelina aveva vinto. 
- E poi – aggiungeva – lascialo sposare, e vedrai che i grilli gli passeranno. 
Qualche anno dopo la laurea, infatti, Giovanni prese moglie. E pareva che non pensasse ad altro che alla professione; ma eccoti il colera a ridestare le antiche apprensioni di don Giuseppe, rinnovare le querimonie contro l’Università; e renderlo stizzoso per la paura. Che bisogno c’era di parlare male del Governo? di tirarsi addosso la polizia? Un processo? E poi, che c’entra il Governo col colera?
- Eh? Che cosa c’entra? O non lo hai sentito che è stato proprio il Governo a far togliere il cordone e ordinare che si desse pratica alle navi di Napoli?...Va, va! bisogna esser ciechi: Giovanni ha ragione...


Luigi Natoli: I morti tornano... 
Pagine 363 - Con le illustrazioni di Niccolò Pizzorno - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it


I morti tornano... è incluso nella Trilogia dei Romanzi di Luigi Natoli sul risorgimento siciliano, che comprende anche Braccio di Ferro avventure di un carbonaro (1820) e Chi l'uccise? (1848) 
Pagine 880 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it