mercoledì 28 giugno 2017

Gli eroi di Luigi Natoli: Antonio Duro, il messinese che nel 1473 bruciò le galere dei turchi e garantì la vittoria a Pietro Mocenigo, capitan generale della Serenissima. Tratto da: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.


Il magnifico Pietro Mocenigo per rintuzzare le armi di Maometto II, scorreva le isole e le coste della signoria turca; alla barbarie musulmana opponeva barbarie cristiana; ma né l’uno né l’altro accennavano di venire a giornata; e stavano i popoli dall’una e dall’altra parte in grandi apprensioni; i cristiani più dei turchi, perché sapevano gli armamenti che faceva il Sultano in Gallipoli. 
Strane e paurose voci venivano dall’Oriente; si accennavano disegni di terribile grandezza, invasione di tutto un popolo tratto dalle più barbare regioni dell’Asia e rovesciato per tutta l’Europa; un fiero sconvolgimento che avrebbe allagato di sangue il mondo, cancellato le nazioni, piantato la mezzaluna sui frantumi della Croce. E si parlava delle abitudini orribili di quei barbari, che si cibavan di carni umane e beveano nei teschi umano sangue... Onde il terrore invadeva gli animi a ogni evento favorevole alle armi di Maometto, in quelle guerre di rappresaglie e di depredazioni. 
Una sera Pietro Mocenigo stava sulla capitana col sopracomito Coriolano Cippino, col provveditore e alcuni ufficiali: divisavano un ardito colpo di mano per la vegnente notte; quando la sentinella di prua si accorse di un piccolo battello, che sciava silenziosamente tra i fianchi della Capitana e della Padrona. Diede l’allarme e puntò l’arco verso il rematore; questi con un vigoroso colpo di remo si tolse al bersaglio, e sostando, levato il alto il berretto, gridò:
- Viva San Marco!
Tosto si affacciarono al parapetto della Capitana marinari e soldati; il capitan generale con la spada in mano, si fece innanzi: 
- Chi grida: Viva San Marco?
- Per la croce di Dio, magnifico Signore, non son né cane, né rinnegato; fuggo anzi la terra degli infedeli... Comandate che levino quegli archi, che certamente nessun onore ne verrebbe ad ammazzare un cristiano; e fatemi piuttosto calare una corda che ho gran voglia di parlarvi...
- Come ti chiami?
- Antonio Duro...


... Pietro Mocenigo e i marinari contemplavano quel giovane vigoroso e bello, che narrava quella fuga miracolosa con la più grande semplicità, come se nulla fosse stato. Quando finì di parlare, un mormorio di ammirazione sorse dalla bocca di tutti...

... Io ho un fratellino, signor Pietro, e una sorella, che al mondo non hanno altri che me; a quest’ora, chi sa!... andranno limosinando... poveretti loro!... Bene; se la Serenissima promette di soccorrere questo fratellino e questa sorellina che mi ho; io, da canto mio, prometto di andar solo a bruciar tutte le navi e l’arsenale degli infedeli!...

...corrono i turchi, neri e spaventati, tra le fiamme, urtandosi, rovesciandosi l’un su l’altro; e per fuggire l’incendio buttansi a nuoto nel mare, e intanto scoppiano le casse della polvere con orrendo fragore; il fuoco si appicca ad ogni parte; le galee incolumi fuggono le vampe; e fra le acque, tra i fuggiaschi che nuotano, in mezzo a una moltitudine di spettatori allibiti dallo spavento, che si affollano sul molo e sui ponti delle galere salve, le sei navi turche fiammeggiano crepitando, e i galeotti incatenati al remo, ululano per la orribile morte, ed urlan gli spettatori dal lido e dalle navi. Ma ecco; fra le galee che ardono, guizza una barchetta. Ritto sulla poppa, un uomo con la miccia sulla sinistra e un remo nella destra. I riflessi dell’incendio lo illuminano; coi capelli sparsi all’aura, il viso sfavillante, pare un nume sterminatore, l’apportatore degli incendii...

... Io son cristiano e Siciliano, tu infedele e saracino; fra noi non può essere amicizia. Avevo deciso di rovesciar la tua potenza, e liberare la cristianità dalle tue ruberie, a mandarti all’inferno te e i tuoi! Pazienza! L’impresa è andata a vuoto... Sei galere son poca cosa...
Il Gran Signore guardò sbalordito l’audace siciliano; tacevano intorno i valorosi, che si sentivano piccini innanzi a quella grandezza d’animo straordinaria... 

Luigi Natoli: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue. 
Prezzo di copertina € 21,00 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 



martedì 27 giugno 2017

Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Ricostruito e restaurato secondo l'unica versione originale pubblicata in appendice al Giornale di Sicilia dal 31 gennaio 1914


Non facevo opera rivoluzionaria; o almeno direttamente, non combattevo il governo né la monarchia. La politica era bandita dai miei discorsi; ma effettivamente con la mia dottrina di perfezionamento, di purificazione e di elevazione dell’uomo fino a Dio, abolivo fra l’uomo e Dio ogni potere intermedio, che appariva inutile e contrario alla legge suprema: – e l’uomo diventava padrone del grande segreto dei segreti cui si riferivano le leggende poste sopra le due colonne della porta del tempio “Arcanum magnum”, a destra; “Gemma secreta rum” a sinistra.
Io sono più e oltre quello che può indicare il mio titolo e il mio nome; e voi dovete conoscermi per le mie qualità e per quello che io opero; non già per quelle lettere dell’alfabeto che possono comporre un nome qualsiasi. 
Io son chi sono: uomini di poca fede, perché cercate ancora di sapere l’esser mio?

Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. 
Pagine 802 - Prezzo di copertina € 25,00
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice con lo sconto del 20% al sito www.ibuonicuginieditori.it 




Luigi Natoli si aggiunge alla Collana de "Gli introvabili" con "Il numero 570 - Scene drammatiche in due atti".

Un inedito assoluto e mai pubblicato di Luigi Natoli impreziosisce la Collana de "Gli Introvabili" edita I Buoni Cugini editori: un dramma teatrale rimasto conservato per più di cento anni ed ora riportato alla luce con orgoglio dalla nostra casa editrice, che pubblicherà sempre nella stessa collana tutte le opere teatrali del grande scrittore palermitano. 
"Il numero 570" è un dramma teatrale in due atti ambientato nella Prima guerra mondiale; protagonista è Giovanni Venturi, un galeotto "Voi non sapete che significhi non essere più un uomo, ma un numero..." dove Luigi Natoli con somma bravura evidenzia le crudeltà e le efferatezze compiute dagli Austriaci "Tu non li conosci, figlia mia; non li conosci!.... (cannonate) Ah! queste cannonate!... Che strazio!... (riprende il discorso) Tu non li conosci figliuola mia!... Io sì... Ero giovinetta come te, quando questi paesi erano ancora soggetti a loro.... e ci commettevano orrori.... Per nulla, per uno sguardo, per una foggia di cappello, per una fisima buttavano in carcere, processavano, bastonavano.... Ho veduto io, a Belluno, i gendarmi austriaci afferrare le ragazze, le spose; spogliarle in mezzo alle piazze, e bastonarle fieramente.... E non valevan le grida, i pianti, le preghiere!... Quei manigoldi sghignazzavano, davan più forte, dicendo: – “Prendi, porca taliana!” – Ah! quello spettacolo l’ho ancora negli occhi... quelle grida, quelle ingiurie mi rintronano ancora nelle orecchie!... E son passati degli anni!... Qualche giovinetta fu per morirne... a un’altra per lo spasimo e lo spavento, si distorsero gli occhi; una sposa, che era incinta, si sconciò sotto i colpi... Ecco chi sono gli Austriaci!....." ed esalta il coraggio del soldato italiano "Ogni popolo ha una sua maniera di agire. La nostra è diversa da quella dei Tedeschi, degli Austriaci e degli Ungheresi, che son rimasti barbari... Non dobbiamo dimenticar mai chi siamo: venticinque secoli di grandezza civile ci hanno dato un diploma di nobiltà, che dobbiamo mantener puro. Noi siamo soldati d’Italia, non predoni d’Austria!....." i valori della famiglia e della patria, l'amore e la lotta per la libertà, elementi  sempre presenti nelle sue opere.
Il dramma teatrale è seguito da un elogio al soldato italiano - Milizia eroica; questa orazione fu recitata il 24 maggio 1917 alla presenza di S.L. il ministro L. Bianchi, delle autorità politiche, civili e militari, dei Deputati della provincia, delle associazioni, delle scuole, del popolo, dinanzi alla lapide murata accanto alla porta della Caserma Miale di Foggia, in memoria dei prodi del 14° Fanteria caduti nel primo anno di guerra: "Io vorrei che ogni da ogni parte d’Italia giungesse ai nostri soldati una parola di fede e d’augurio, che dicesse loro tutta la nostra ammirazione, tutta la nostra immutabile fiducia in essi: – “Oggi si compiono due anni di guerra, o soldati d’Italia; e voi, come nel primo giorno, siete accesi della stessa fede e dello stesso entusiasmo; e più saldi, più tenaci, più forti ancora, temprati a tutti i disagi, a tutte le avversità, a tutti i pericoli; pensosi e giocondi, sprezzanti della vita propria, ma curanti dell’altrui; feroci e magnanimi, ma sempre illuminati di una gentile umanità, che vi abbellisce anche nell’orgasmo dell’ira o nello spasimo della morte. Benedetti voi, o soldati, popol nostro; nostra forza, nostro orgoglio! Benedetti quelli che combattono, quelli che cadono, quelli che sopravvivranno!” – Queste parole e altre simiglianti vorrei che oggi da ogni parte giungessero a quanti per mare, per terra, pel cielo, vegliano, combattono, lasciano brandelli di carne; perché desser loro un segno di quella concordia e fusione di spiriti, di quella unica volontà di vincere, che è come l’alba di quel magnifico domani che i fati temprano al fuoco sull’immensa incudine stesa da Trento a Trieste. 
Oggi è celebrazione di eroismi".
Noi editori siamo orgogliosi di offrire al pubblico "Il numero 570", un inedito assoluto che fa sentire Luigi Natoli  un autore sempre vivo che ha ancora tanto da dare ai suoi lettori.

I Buoni Cugini editori.

Luigi Natoli: Il numero 570 - Scene drammatiche in due atti. Milizia eroica. 
Pagine 100 - Prezzo di copertina € 12,00 
La copertina, di Niccolò Pizzorno, ritrae una scena del dramma. 
Disponibile in libreria e in tutti i siti di vendita online. 
Disponibile dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 





lunedì 19 giugno 2017

Luigi Natoli: Il palazzo reale di Messina - Tratto da: I cavalieri della Stella ovvero La caduta di Messina.


Il palazzo reale di Messina sorge­va presso a poco nell'area dove oggi si trova l'edificio della Dogana e dei ma­gazzini generali; e segnava il principio di quella magnifica e lunga fila di palaz­zi, edificati lungo il porto dal vicerè Emanuele Filiberto di Savoia nel 1622, e rifatta dopo il terremoto del 1783, della quale i Messinesi sono giustamente or­gogliosi.
Una piazza piuttosto ampia si apriva dinanzi al palazzo; chiusa da una parte da un cancello di ferro con sedi­li intorno e un palchetto, sul quale in certe occasioni prendeva posto il magi­strato della città. Lì presso c'era l'ar­senale.
Anticamente il palazzo era una roc­caforte massiccia, costruita dai Norman­ni per difesa della riviera, ed era noto col nome di “Castello a mare”: rovine dell'antica fortezza erano visibili fino al secolo scorso. Era munito di sei torri, tre delle quali dal lato del mare, tre da quello del­la terra.
Le prime trasformazioni, per ridurlo a sede del governo e accogliervi i tribuna­li, le prigioni, cominciarono nel 1563, es­sendo vicerè di Sicilia, don Garcia de Toledo.
I viceré e i presidenti del regno che seguirono ne continuarono la trasforma­zione o la devastazione, fino a Emanuele Filiberto, che nel 1623 fu l'ultimo dei devastatori, ma ebbe la scusante di dover accordare l'architettura del palazzo con quella della Palazzata.
Tutte queste opere non gli avevan però tolto l'aspetto massiccio di fortezza; ed esso conservava nel secolo XVII e fino a quando non fu distrutto, le sue torri quadrate.
In mezzo alla piazza si elevava la statua bronzea di don Giovanni d'Au­stria, modellata dal Calamech in onore del vincitore di Lepanto poco dopo il 1570; quella stessa che, distrutto più tardi il palazzo reale, fu trasportata nella piaz­zetta dell'Annunziata dove si trova tuttavia.
Delle strade si dilungavano di qua e di là della piazza: la strada nuova o d'Austria, attraversata dalla strada della Giudecca o Cardines, e quella della Dar­sena o dei Catalani, che sboccavano sul­la piazza del duomo, quella dei Verdi che s'adunava nella chiesa della Candelora, la grande strada dei Banchi.
Dalla parte opposta, oltre il lato orientale del Palazzo si distendeva il quartiere di Terranova, abbattuto poi, un ventennio dopo, per la costruzione della Cittadella.
Quando don Gregorio giunse sulla piazza nella quale alcuni carpentieri si affrettavano al lume delle fiaccole a riz­zare lo steccato pel “giuoco del toro” al­zando gli occhi vide le finestre dell'ap­partamento di don Luigi dell'Hoyo illu­minate, ed entrando nel primo cortile, vi­de nell'oscurità errar delle ombre e lucci­car armi...


Luigi Natoli: I cavalieri della Stella ovvero La caduta di Messina
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 26,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: La Setta segreta cospira per l'indipendenza dallo straniero e la repubblica - Tratto da: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.



Non aveva nessun dubbio che quel­la fosse la Setta, la quale aveva in quei giorni esteso di più le sue ramificazioni oltre il numero dei settanta, premendo ai suoi capi di avere il maggior numero possibile di seguaci. La nobiltà messinese, avversario da combattere po­tente. Aveva per sè la ricchezza, la coltu­ra, la tradizione; vagheggiava anche ­– ma non palesemente ­– ideali di una più larga autonomia, e forse anche di indi­pendenza dalla monarchia spagnola; aveva infine nel suo grembo un organismo potente, non ignoto al governo, ma quasi invulnerabile: una società segreta, una specie di carboneria e di frammassoneria, di settanta membri, chiamata appunto per questo numero, la Setta, della quale soltanto i capi conoscevano lo scopo, ma i cui membri erano fedeli, arditi, capaci di tutto, e contavano grandi aderenze nel patriziato e nelle maestranze. Giovanni Alfonso Borrelli, il grande scienziato che insegnava le dot­trine galileiane nello studio di Messina aveva fondata o riordinata questa asso­ciazione segreta; specie di carboneria o di massoneria che aveva finalità politi­che, l'indipendenza dallo straniero e la repubblica.

Per la prima volta, dopo secoli di di­scordia e di sorde rivalità, i cittadini di Messina comprendevano che soltanto dall'unione delle maggiori città poteva il regno acquistare la forza per liberarsi dal giogo straniero, o, almeno, per garantire i propri diritti e non lasciarsi spogliare dall'ingordo padrone; comprendevano che, come ai tempi del Vespro, Messina e Palermo dovevano gittare in un rogo le loro rivalità, i loro rancori, per sentirsi veramente sorelle, difenditrici e protettri­ci di tutta l'isola.
Messi segreti erano stati spediti dal­la Setta, ai maggiori cittadini di Palermo, per stringere un nuovo patto di amistà, per la comune difesa. Palermo non doveva dimenticare ciò che aveva patito dopo la rivoluzione del 1647, e i suoi cittadini più illustri, co­me Francesco Barone, Simone Rau, An­tonino Giudice, Giuseppe La Montagna, gittati nelle galere o nelle segrete più or­rende, o mandati a morte; i monumenti più antichi e venerandi per memorie, smantellati per farne bastioni a offesa della città; gli accresciuti balzelli, la mi­seria crescente... Si ricordava Trapani in tumulto, e i supplizi che vi erano seguiti; si vaticinavan altri e più crudeli supplizi nelle maggiori città, solo che avessero osato levar la voce...
Tutte queste cose i messi della Setta avevano detto, e le loro parole non eran rimaste infruttuose; Palermo le aveva raccolte, e già si parlava di un pegno di amicizia che oltre alle navi cariche di frumento giunte in quei dì, la vecchia ca­pitale normanna avrebbe mandato a Messina. Occorreva per non lasciar intiepi­dire gli animi, e per tener vivo quel ri­sveglio di sentimenti, era necessario mandare e tenere a Palermo degli emis­sari adatti.
La scelta cadde sopra don Pietro Fa­raona e Paolo Moleti, due cittadini colpi­ti di bando dopo i tumulti del 13 aprile, ai quali, per consiglio di don Tommaso de Gotho, fu aggiunto Antonello.
Don Annibale sussultò di gioia; vol­le guardare in volto il giovane, per goder­sela, supponendo che quell'incarico, per quanto patriottico, non gli sarebbe pia­ciuto gran che. E difatto Antonello era rimasto scon­certato, e non sapeva frenare il malcontento per quell'incarico che lo allontana­va da Messina, dove riteneva in quei giorni necessaria la sua presenza.
Intanto l'adunanza passava ad altri argomenti, che attirarono ancor più l'at­tenzione di don Annibale. Parlava don Tommaso Caffaro, ar­dentissimo Malvizzo e uno dei più reputati e autorevoli della Setta. Cominciò col ricordare le condizioni di Messina, e co­me la venuta e la dimora del viceré, piut­tosto che pacificare gli animi, si fosse tra­mutata in una nuova tirannia.
- Egli, dice il Caffaro, concita­tamente, ha calpestato anche quelle prerogative senatorie, che perfino quel mostro di don Luigi de l'Hoyo aveva ri­spettato; ricordatevi, amici e compagni, che coloro i quali osarono protestare n'ebbero la morte; ricordatevi che dinan­zi alla chiesa di S. Girolamo, pochi mesi or sono, fu esposto a ludibrio e sfida, il capo del cavaliere Cavatore, assassinato dal viceré per avere difeso la dignità del Senato; e che ivi, il giorno stesso, un gio­vinetto sedicenne, Antonino Scoppa, la­sciò la vita sulla forca, per essere stato il primo a levar la voce; ricordatevi che questo giovinetto morì legando a noi, te­stamento indestruttibile e sacro, le sue ul­time parole: “Muoio contento e glorioso per avere difeso la patria mia”. Saremo noi sordi? ci lasceremo vincere di ma­gnanimità da questo giovinetto popola­no, che gitta la sua vita ancor tenera, per la dignità della sua Messina?... E intanto che i nostri buoni cittadini vengono immolati, il principe di Ligay, questo viceré sanguinario e balordo, tie­ne ricevimenti e balli, e dà mano ai nostri avversari, che sono gli avversari di Messina!
“Ora è tempo di agire. È tempo di uscire dalla nostra aspettazione. Da Ro­ma ci giungono altre voci ed altre sollecitazioni. Non vi dico di tenerci alle parole di don Giacinto Ferrari, e ai patti firmati con lui per avere gli aiuti di sua maestà cristianissima, di altre parole, di altre sollecitazioni, che ci vengono da uomini della cui serietà nessuno dubita.
“L'ambasciatore duca di Estrées, è disposto verso di noi; ma occorre che noi ci moviamo; e per muoversi bisogna ap­profittare dell'amicizia di Palermo, dei malumori di Trapani, delle assicurazioni di Catania...


Luigi Natoli: I cavalieri della Stella o La caduta di Messina.
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 26,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it



giovedì 15 giugno 2017

Luigi Natoli: Cagliostro medico. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure. Interamente ricostruito dalle puntate pubblicate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914


Le malattie son dentro; s’annidano nelle viscere, nel sangue, nei nervi, in tutto quello che è celato ai nostri occhi, e di cui non possiamo avere la visione precisa. Ma l’anima di chi è ammalato vede e sa dove il corpo è ammalato e di che; bisogna dunque, più che l’invisibile del corpo, leggere nell’anima, domandare all’anima la sede delle sofferenze, ricercare nel suo muto linguaggio la rivelazione di ciò che è celato ai nostri sensi limitati. 
Questo io facevo. Mi bastava guardare fisso negli occhi l’ammalato perché una luce si facesse nella mia mente, e io vedessi il suo male, e acquistassi la sicurezza di vincerlo. Questa sicurezza passava dal mio spirito in quello dell’ammalato: egli se ne andava con la medicina da me somministrata, pienamente certo di guarire. 
Ho detto che io somministravo le medicine; di fatto io non davo le ricette scritte; poiché queste costituivano già un segreto, non era conveniente né utile metterle in mano di uno speziale, che avrebbe potuto servirsene per fabbricare specifici a suo benefizio: i quali, oltre al danno materiale, me ne avrebbero recato uno morale molto maggiore, giacchè somministrati a caso, senza conoscer veramente la natura del male, cui io adottavo la medicina, avrebbero con l’insuccesso e anche, forse, con la morte, messo in discredito i miei rimedi e me. Io mi provvedevo delle erbe, degli estratti, delle polveri, di tutto ciò che era necessario; fabbrica­vo da me, coi processi alchimici l’olio di zucchero; componevo le me­dicine, in forma di beveraggi o di pillole, la cui formula, per ciò, rimaneva un mio segreto.
Il che per altro ne aumentava il valore. Se la gente avesse saputo che, per esempio, in quelle pillole mira­colose c’entrava della polvere di radici di cicoria, di indivia, di calcitropia,  o anice o aloe, o altre cose così semplici e di niun costo, avrebbe perduto la fede nella mia medicina, e l’avrebbe disprezzata. Il mistero del segreto invece le dava maggior credito e mi permetteva di farla pagare ai ricchi un prezzo veramente favoloso. I ricchi pagavano pei veramente poveri, ai quali som­ministravo gratuitamente i medicinali.
A nessuno domandavo un compen­so per le mie visite. Naturalmente i veri poveri rimuneravano la mia gene­rosità con benedizioni sincere; i bor­ghesi, per la natural albagia spagnola, non volendo parere ingrati o pitocchi, mi ricambiavano con regali  di polli, salsicce, formaggi, vini, stoffe, sicchè non spendevo più nulla per il mio vitto quotidiano; i ricchi, i signori, si di­sobbligavano magnificamente con regali di gioielli e di argenteria.
Nella preparazione dei medicinali non mi facevo aiutare da nessuno, sal­vo che un po’ da Lorenza. Io li preparavo di notte.
Io non avevo bisogno di interrogare gli ammalati per capire qual fosse la loro malattia; se rivolgevo qualche domanda era per seguir l’usanza dei medici, e per dare una soddisfazione agli ammalati stessi: ma in verità mi bastava guardarli fissi, perché la natura delle loro sofferenze mi si rivelava come in un libro. Era una specie di divinazione, che stupiva anche me stesso. Così non sentivo il bisogno di ricorrere a medicine: invocavo l’ispirazione del cielo, imponevo le mani sul capo dell’ammalato, gli dicevo: 
- Va tu sei guarito. 
Come avvenisse non so; il fatto è che se ne andavano veramente guariti. Ciò aveva del miracoloso; il popolo diceva che io ero un santo o un mago. Ma un mago non invoca Dio, e non compie opere di carità. Io oltre a guarire i poveri, davo loro dei soccorsi di danaro; dunque ero un santo!... 
Voi non potete immaginare la folla che assediava la mia casa; empiva l’ingresso, la corte, il vestibolo, il salone. Centinaia di sventurati privi d’ogni soccorso. Io li ascoltavo a uno a uno, senza perdere una parola; entravo nel laboratorio per un istante e ne ritornavo con una quantità di medicine, che dispensavo, dando a ciascuno la sua e ripetendogli quel che egli aveva riferito del suo male. La mia memoria era veramente prodigiosa. 
Donde e come nascesse non so, ma ero animato da uno spirito di carità straordinario. A una povera donna, venuta a implorare il mio soccorso, perché aveva il marito in prigione per debiti, diedi il denaro per liberarlo. Questo e altri fatti simili e la mia generosità verso gli ammalati poveri, rialzarono la mia figura e davano un prestigio d’evangelo alle mie parole; cosicchè il mio apostolato per diffondere la massoneria egiziana, ed essere riconosciuto come il Gran Cofto, trovava un terreno favorevole.




Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. Interamente ricostruito dalle puntate pubblicate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1914
Pagine 802 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

Luigi Natoli: La prigione di S. Leo. Tratto da: Cagliostro e le sue avventure.


San Leo s’adagiava sulla cresta di Montefeltro, colle staccato dalle giogaie dell’Appennino, cinto di valli, arduo a salire, e da una parte tagliato a picco. Sulla vetta più alta, a oriente del borgo, da cui è separata da un pendìo sparso di macchie e di cespugli, si alza la fortezza, che dal lato opposto domina la rupe a picco. Da questo lato, che non ha salita, e dove bisognerebbe aver ali per giungere, la fortezza appare come un insieme di fabbricati massicci, addossati gli uni sugli altri; ma dalla parte del borgo, essa si presenta in un aspetto guerresco, con due grandi torri circolari di qua e di là dalla cortina merlata, e il mastio massiccio in mezzo, difeso da torricelle quadrangolari.
La fortezza o castello era come l’acropoli del vecchio borgo, che, più a valle, era difeso anche da muraglia e da altri fortilizi a tramontana e a occidente, prime sentinelle in difesa dell’inespugnabile castello.
La prigione dell’ “eretico” era nel mastio; era una cella larga tre passi, o poco più, con la volta alta una statura d’uomo e mezza; e una finestretta a quattro palmi dal suolo. Il prigioniero poteva quindi affacciarvisi comodamente e guardare lo spazio libero ed ampio. L’occhio scendeva giù fra le macchie, errava sui tetti e per le strade del borgo sottostante, si fermava a guardare il duomo e l’alta torre; poi scorreva oltre, guardava i due fortilizi, dei quali sapeva già il nome: il Palazzetto e il Casino; e vedeva indi come un taglio, come una grande fenditura, che isolava il monte. Indovinava che in fondo vi correva il fiume: più oltre ne vedeva fra poggi e boscaglie luccicare l’argento delle acque.
E più lontano ancora poggi e colli si succedevano come in uno scenario, degradando in tinte più azzurrine e più sfumate; e sull’orizzonte si disegnava di qua la Carpegna, di là, più in fondo la linea degli Appennini.
L’occhio non poteva scorgere che meno della metà dell’orizzonte; ma quanti desideri tormentosi! Fra quei colli, sopra un monte era S. Marino, la piccola repubblica; più oltre, a occidente, lo stato di Toscana; alle sue spalle l’Adriatico. Erano la libertà e la salvezza!...


Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure. 
Pagine 802 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

martedì 13 giugno 2017

Luigi Natoli in un inedito assoluto: Il numero 570. Dramma teatrale in due atti.


Con emozione e orgoglio proponiamo alla collettività Il numero 570 di Luigi Natoli. La nostra emozione è presto spiegata perché Il numero 570  è un dramma teatrale in due atti assolutamente inedito, mai dato alle stampe sia in forma di libro o libretto, sia in appendice al Giornale di Sicilia, come soleva fare il grande scrittore palermitano. Per noi editori è un'emozione immensa dare la vita a questo manoscritto pubblicandolo, perché ci fa sentire Luigi Natoli vivo come se oggi fosse in mezzo a noi, come uno scrittore contemporaneo, ma che molto ha da dire e insegnare. Non a caso, però, oltre a "Emozione" abbiamo usato il termine "orgoglio", da intendersi come senso di dignità, onore e fierezza di essere italiani. Sono proprio questi i sentimenti che animano ogni pagina, parola e sillaba di queste scene drammatiche. È l'Italia della prima guerra mondiale che anela la libertà delle sue province dall'impero austriaco; è la voglia di riscatto del proprio onore che anima un popolo disposto a combattere contro l'oppressore perché orgoglioso di essere italiano, quanto trasuda da questo breve ma intenso lavoro teatrale del grande patriota Luigi Natoli.
La scena si svolge sul fronte, durante la prima guerra mondiale e contrappone la barbarie degli austriaci alla fierezza dei soldati italiani che sapranno portare pace e giustizia in una terra martoriata dalla guerra, ma è anche la tragedia di un uomo, popolano, che saprà riacquisire il suo onore perduto sacrificandolo sull'altare della patria e della famiglia.
Un dramma teatrale che ci farà sentire più uniti e più italiani di sempre.

Completa il libro, l'elogio orazione Milizia eroica recitato da Luigi Natoli in memoria dei prodi del 14° fanteria caduti nel primo anno di guerra.
Prezzo di copertina € 12,00 - Pagine 100
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lunedì 12 giugno 2017

Luigi Natoli e i suoi eroi: Tullio Spada e i cadetti della "Calata dei Musici". Tratto da: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.


Quel giorno sebben festivo, non era uno di quelli assegnati per la visita, e Tullio doveva contentarsi di veder la sua Rosalia da lontano, scambiar con lei qualche sorriso, qualche gesto furtivo, e dirsi con gli occhi tutte le parole tenere che le bocche non potevan pronunziare. La gente, che aspettava la processione, non gli badava: qualche amico passando, e dato uno sguardo, barattava una parola, salutava, e tirava innanzi per non essere di troppo; ma due cadetti di cavalleria, che si eran già fermati anch’essi in quei paraggi a poca distanza da Tullio, e avevan sorpreso qualche segno telegrafico delle dita, cominciarono fra loro a ridere e a far delle smorfie canzonatorie, che fecero più volte aggrondar le sopracciglia e arrossir Tullio per la stizza.
Erano allora i cadetti giovani di famiglie civili o signorili, che entravano volontari nella milizia per far carriera. Non eran semplici soldati, ma non eran neppure ufficiali, qualche cosa come gli allievi delle nostre accademie militari. Vagheggini, eleganti, approfittavano della loro condizione privilegiata, ed erano spesso insolenti, prepotenti e rissosi.
Quei due cadetti indossavano una bella uniforme turchina gallonata d’argento, con le piccole falde rivoltate indietro ad angolo, coi calzoni di pelle bianca aderenti alla coscia, e gli stivali alla scudiera lucidi come specchi. Stavano piantati con le gambe larghe, la sinistra sull’elsa della sciabola, l’alto kepy di cuoio, largo di fondo, e stretto di testa, calato sull’orecchio destro, con un’aria brava, provocante, che cominciava a far fremere Tullio Spada, e a mettergli nelle mani un tal pizzicore, che egli dovea fare uno sforzo per raffrenare i suoi nervi, e non farne qualcuna delle sue. Soprattutto lo forzava alla prudenza, il timore di spaventar Rosalia.
Ma i due cadetti, presero quella prudenza per paura, e divenuti più coraggiosi ed insolenti, si avvicinarono ancor più a Tullio, sghignazzando. Anzi, uno di essi alzati gli occhi al balcone di Rosalia, spinse la sua sguaiataggine sino al punto di rifare un gesto del giovane.
Non ci volle altro.
Senza dire una parola, serrando le mascelle, ma con certi occhi che schizzavan vampe, Tullio Spada, si avvicinò ai due cadetti; e buttato via il bastone che gli era di impaccio, li acciuffò pel petto uno da destra, uno da sinistra, squassandoli con così violenta rapidità che quelli non ebbero né il tempo, né il modo di scansare l’assalto e difendersi.
Rosalia mandò un grido di spavento; al suo grido fecero eco quello di sua madre e suo padre, il signor Anselmo, che stupìto e spaventato si mise a gridare:
- Tullio! Tullio!...
Quelle grida, gli urli dei cadetti, lo sbatacchìo delle sciabole sul selciato, fecero voltar la gente, che non si era accorta di nulla, tanto il gesto di Tullio era stato subitaneo. Ma alla vista confusa di quei tre corpi che si agitavano scompostamente, non sapendo che fosse, le donne, levando alti strilli, scapparon di qua e di là, gli uomini indietreggiarono, intorno a Tullio ed ai cadetti, si fece largo e apparve allora agli occhi di tutti uno spettacolo così singolare, che la paura si mutò in stupore.
I due cadetti, rossi in viso, col capo nudo, (che i kepy dopo aver dondolato un po’, eran caduti) con le uniformi sbottonate, sgualcite, facevano sforzi per liberarsi dalle mani di Tullio Spada; ma quelle mani parevan due morse di acciaio, e le braccie due leve possenti che sbattevano i malcapitati in alto, in basso, a destra e a sinistra come due burattini. Sbuffando, sacramentando, non potendo liberarsi da quelle mani indiavolate, i cadetti cercavano di sguainare le sciabole; ma Tullio Spada compì un gesto, che suscitò la meraviglia di tutta la folla.
Con un gesto, che pareva non gli costasse alcuno sforzo, così acciuffati come li aveva, sollevò i due cadetti in alto, uno a destra, l’altro a sinistra; li sollevò oltre la sua testa; li tenne così un attimo, quasi per godersela a vederli buttar le gambe in aria; e, come fossero stati i piatti di una gran cassa, li battè, uno contro l’altro, una volta, due volte, tre volte…
Pareva battesse due pantofole per spolverarle. La folla dapprima sbalordita alla forza prodigiosa di quei muscoli e di quei nervi, ruppe in grida di entusiasmo, come a uno spettacolo.


Luigi Natoli: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro.
Prezzo di copertina € 22,00 - pagine 342 - Copertina e illustrazioni interne di Niccolò Pizzorno.
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

Luigi Natoli e i suoi eroi: Andrea Chiaramonte. Tratto da: Il paggio della regina Bianca.


Re Martino sorrise a fior di labbra. Dinanzi agli occhi suoi si rinnovava la visione della tragedia chiaramontana.

Egli stava col padre a una finestra dello Steri; la piazza Marina era gremita di popolo che gli arcieri e i picchieri catalani a stento frenavano, perché non invadesse il palco sul quale il boia, appoggiato alla scure larga e luccicante aspettava le vittime.

Poi dalle prigioni del palazzo uscì il corteo. I confrati col cappuccio, le guardie, il carro; e nel carro, diritti, fieri, Andrea Chiaramonte e Antonio delle Favare suo segretario.

Il carro giunse ai piedi del palco. Andrea Chiaramonte, sebbene avesse le braccia legate dietro le reni, balzò svelto dal carro, senza bisogno d’aiuto, e montò la scala del palco, senza dar segno di commozione.

Guardò il suo palazzo: i suoi occhi si fissarono sulla finestra e cercaron gli occhi del duca e del re. Martino sentiva ancora il lampo di quegli occhi, che esprimevano una minaccia lontana; e ne provava un turbamento indefinibile....

Andrea Chiaramonte, difensore della libertà del Regno...
Composti i dissensi in Aragona per opera di Martino, che in premio ebbe il titolo di duca di Montblanc, Maria fu da Cagliari trasportata a Barcellona, e poi nel castello di Montblanc, in attesa delle nozze, che avvenivano nel 1390 appena uscito il figlio Martino dalla pubertà. Di queste nozze dava avviso ai principi e in Sicilia, promettendo il suo non lontano arrivo. Ad agevolarlo, il destino s’incaricava di sgomberargli il terreno. Morivano infatti il conte di Geraci e Artale Alagona, e non molto dopo Manfredi Chiaramonte; il vicariato passava ai figli Antonio Ventimiglia, Blasco Alagona, Andrea Chiaramonte, e degli antichi vicari rimaneva il Peralta. Dinanzi alla minaccia dell’invasione, il 10 luglio 1391, i vicari radunarono a convegno i principali baroni nella chiesa di S. Pietro a Castronovo; giurarono alleanza per procurare l’onore e il servizio della regina Maria, la sua restituzione nel regno, e per respingere qualsiasi principe ed esercito straniero. Uno strambotto popolare serba la memoria del convegno, che cominciato con tanto fervore, finiva dimenticando i patti.
Astuto, raggiratore, fine politico, il duca di Montblanc mandava lettere a questo e a quel barone, in segretezza, con profferte di amicizia, lusinghe, persuasioni: inviava Galdo di Queralt e Berengario Crujllas abili negoziatori e guadagnava consensi fra i borghesi agiati; seminava la corruzione nel baronaggio, e ne fomentava l’egoistico tornaconto. Disgregando il baronaggio, il duca non temeva più una resistenza pericolosa, perché il popolo non lo impensieriva: che non c’era popolo, ma torme di servi nei feudi, e masse senza più coscienza nelle città, che si tenevano estranee alle mene dei baroni.
Raccolto l’esercito composto di milizie proprie e bande feudali, di nobili, di mercenari, di hildaghi spiantati, di masnadieri, di ladroni assolti da pene, e postolo sotto gli ordini del valoroso Bernardo Cabrera, avendo già distribuite ai principali cavalieri le alte cariche del Regno, uffici e privilegi, il duca di Montblanc, col figlio e con la nuora salpò da Port Fangos nei primi di marzo: il 22 approdò a Favignana, ed ivi ricevette l’omaggio di Guglielmo Peralta, Antonio Ventimiglia, del conte di Cammarata e di Enrico Rosso: a Trapani gli fecero onore molti dei baroni convenuti a Castronovo, dei quali congiunse le milizie feudali alle sue.
Solo non vi si recò Andrea Chiaramonte, che rimase a Palermo, dove l’umore non era favorevole ai due Martini.
La domenica delle palme l’esercito catalano si schierò sotto le mura della città, che, chiuse le porte, rifiutò d’arrendersi, onde il duca pose l’assedio dalla parte di mezzogiorno. Tra il reciproco bombardarsi, il duca dava il guasto alle campagne e avvenivano conflitti con danno dell’una e dell’altra parte. Nella generale defezione, quella resistenza pareva l’ultima difesa dell’indipendenza del Regno. Gli altri Vicari s’erano dati allo straniero: Andrea Chiaramonte rimaneva solo. Dopo un mese di assedio, crescendo la fame, l’arcivescovo di Palermo e uno dei Giudici andarono a pattuire la resa: Andrea fu assolto e tenuto buono e fedele vassallo: gli altri ebbero l’indulto. Così stabilito, Andrea il 17 di maggio presentavasi ai Reali, e ne era bene accolto. Ma il domani, ripresentatosi con l’arcivescovo per spiegare la sua condotta, il Duca perfidamente lo fece arrestare. Si imbastirono accuse che erano calunnie, e intanto si prese possesso della città, dove i Reali entrarono il 21, tra la freddezza del popolo. Il Duca nominò Bernardo Cabrera Grande Ammiraglio, e Guglielmo Raimondo Moncada, in premio d’aver venduta la patria, Grande Giustiziere.
Andrea fu sottoposto a giudizio, condannato a morte, e decapitato il 1 giugno 1392 nella piazza Marina, dinanzi al suo palazzo, donde il duca di Montblanc assisteva. La famiglia fu dispersa: i beni confiscati. I Chiaramonte scomparvero dalla storia.


Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
Prezzo di copertina € 23,00 - pagine 702
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

martedì 6 giugno 2017

Luigi Natoli: Atenione, un uomo dal quale Spartaco avrebbe dovuto imparare...


Atenione era un un bell’uomo, nativo di Cilicia, ridotto in servitù per cagione di guerra; aveva riputazione di conoscere le virtù delle erbe, leggere negli astri e trarre gli auspici dai segni animali, dalle piante, dai fenomeni meteorologici. Poiché era anche abile nei conteggi, Caio Cecilio, lo abbiamo veduto, ne aveva fatto un attore, il che gli dava una certa libertà, per lo meno una condizione di privilegio. Ma egli non ne abusava; era verso gli altri schiavi umano, e quando poteva, risparmiava loro i castighi. Gli schiavi gli volevano bene, e lo avevano in conto di medico, consigliere, aruspice; sicchè automaticamente egli, mentre era l’intendente di Caio Cecilio, era diventato il capo ed il pastore di quella mandra.
Atenione aveva assistito alla flagellazione senza dar segno di riprovazione o di sdegno ma chiudendo nel profondo petto uno spirito di ribellione. Prima che cessasse il supplizio, era andato in casa e aveva preso del vino generoso e dell’olio; poi nell’orto aveva raccolto foglie di centaurea minore, di cavolo e ramoscelli di cipresso; e così provvisto aveva raggiunto i servi nell’ergastolo.
Intorno a lui si erano accalcati gli altri servi, e cominciarono a parlare ed a ricordare altri supplizi, e di servi morti sotto le verghe, e di impiccati e di crocifissi. Ognuno aveva la sua storia: si rifacevano dal giorno in cui erano caduti in schiavitù; chi per debiti, chi perché prigioniero di guerra, chi perché sorpreso dai pirati e venduto. Ma v’era chi, essendo nato da schiavi, in casa, un “verna” e perciò servo fin dalla nascita, aveva più storie da raccontare. E da tutte quelle storie affiorava un rancore gonfio del desiderio di vendetta contro i padroni inumani. Ognuno ricordava la sua condizione di quando era libero in patria: erano mercanti, artieri, maestri di scuola, capitani di milizie di terra o di naviglio; uomini che avevano esercitato uffici pubblici; avevano fatto leggi, avevano amministrato giustizia; qualcuno aveva anche posseduto schiavi, e protestava che non era stato così inumano e crudele come quei cavalieri romani, nuovi arricchiti. Fra quei discorsi serpeggiava uno spirito di ribellione, ma nessuno osava di approfittarne, come se qualcosa di più forte soffocava sotto il suo peso ogni energia...
 
Luigi Natoli: Gli Schiavi.
Pagine 390 - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

Luigi Natoli: Lo stemma dei Cagliostro



Voi mi contestate il titolo di conte, come quello di marchese o altro che io abbia assunto nella mia vita avventurosa; e avete creduto a una usurpazione, come se il cognome di Balsamo che ho avuto per diritto di nascita, non fosse per sé stesso degno di qualunque altro titolo di nobiltà, anche di quello di principe.
Ora è bene sappiate che tanto dal lato paterno quanto dal materno io vengo da illustri casati. I Balsamo sono nobili in Messina. Nicola Balsamo nel 1449 era signore di Agosta; Giacomo Balsamo, ai tempi di Ferdinando il Cattolico, nel 1517 fu capitano di Milazzo e di patti, ed ebbe in feudo Mirto; Antonio nel 1537 fu signore di Taormina; nel 1613 Pietro Balsamo, marchese di Limina, fu Stratigò di Messina, ed ebbe il principato di Castellaci. Giuseppe suo figlio fu barone di Cattafì, e Giambattista altro suo figlio, fu protonotaro del regno. Furono signori di Castellana, Piragò e Pumo. Fra’ Govanni Balsamo fu gran priore di Malta in Messina. Un ramo di questa famiglia si trapiantò a Termini presso Palermo; ed è casato di signori; ed è probabilmente da questo ramo che vennero i Balsamo di Palermo. Così mi affermava mia madre, e così potei io stesso sperimentare più tardi.
Quale sia la discendenza del ramo di Termini, non è necessario dire, per non infastidirvi con una filastrocca di nomi: ma notate bene, che mio padre si chiamava Pietro, ed io ebbi il nome di Giuseppe; nomi tutti e due che si riscontrano nella genealogia dei Balsamo, di Messina e di Termini.
Quanto ai Bracconieri, basta dire che Simone Bracconieri nel 1439 era barone di Piscopo e castellano di Castroreale. Ma dal lato materno, cioè da quello della illustre casa dei Martello, i Bracconieri possono stare a pari della prima nobiltà del mondo. I Martello discendono dalla regia stirpe carolingia. Un nepote del Re Carlo Martello si stabilì in Pisa, e vi creò la famiglia dei Martello. Parecchi secoli dopo, e propriamente nel secolo XV uno di questi Martello, fuggendo da Pisa con molte altre famiglie, venne in Palermo e fu il capostipite dei Martello in Sicilia.
Lo stemma dunque che un disegna­tore ha voluto incidere sotto uno dei miei ritratti che corrono in mio onore, mi appartiene di buon diritto.
Io l’ho ritagliato e incollato su que­sto foglio perchè voi lo conosciate (*).

(*) Nota dell'autore: Questo stemma fu trovato e pubblicato da A. Sala nella rivista araldica – 1903.
Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure.
Pagine 882 - Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
Nella foto: Lo stemma dei Cagliostro,

Luigi Natoli e le origini del conte di Cagliostro


Per restringere la mia parentela, e perchè sappiate che il titolo di Caglio­stro non è meno mio di qualunque al­tro, voglio farvi un breve albero ge­nealogico della mia famiglia.
Anche nella Bibbia e nei Vangeli si comincia con l’albero genealogico. Io non risalgo ad Abramo e Noè, la pa­rentela dei quali per altro non respin­go; ma scendo a tempi assai più vicini.
Carlo Matteo Martello ebbe due fi­glie, una, Maria andò sposa di don Giu­seppe Bracconieri, morto nel 1754; l’altra, Vincenza, si maritò in don Giuseppe Cagliostro di Novara Sicula, e fu la mia buona madrina.
Dal matrimonio di Maria col Brac­conieri nacquero quattro figli, due ma­schi Antonino e Matteo, miei zii, e due femine; Felicia Bracconieri, mia madre, che andò in moglie a don Pie­tro Balsamo, e Maria che fu sposata al signor Filippo Abate di Termini.
Dicono che il mio nonno paterno Antonino Balsamo fosse un libraio molto noto in Palermo. Non so, e non mi importa saperlo. Mio padre era un mercante.
Le nozze di Felicia Bracconieri e di Pietro Balsamo furono feconde di due figliuoli: Giovanna Giuseppa Maria, mia sorella, che poi – a quanto ne ho saputo – si è sposata con un Giovan Battista Capotummino, ed io.
Io nacqui a Palermo, il 2 giugno 1743 nella casa paterna, in un vicolo che allora prendeva il nome da una ce­lebre taverna detta della Perciata, nelle vicinanze dell’ospedale dei frati Benfratelli. Fui battezzato sei giorni dopo alla Cattedrale dal parroco don Diego Mezzopane e fui tenuto a battesimo da don Giovan Battista Barone e dalla zia Vincenza Cagliostro che, non potendo venire personalmente, si fece rappre­sentare per procura.
Nel battesimo ebbi imposti i nomi di Giuseppe, Giovan Battista, Vincen­zo, Pietro, Antonino e Matteo.
Troppi nomi per un uomo solo. I miei mi chiamarono sempre col primo.
Se nel corso della mia vita io assun­si cognomi diversi non c’è dunque da stupirsi. Dal momento che era piaciuto ai miei parenti di caricarmi di tutti quei nomi che io non domandavo, per­chè mai non potevo io concedermi di mia volontà quelli che mi piacevano?
Questi particolari sulla mia nascita risulterebbero dalla fede di battesimo, che fu domandata in occasione del mio matrimonio; ma io ho sempre dato uno scarsissimo valore a questo docu­mento insignificante per la vita di un uomo.
Per un pezzo io stesso credetti di essere nato a Termini o a Messina o a Malta; ma poi mi son persuaso che, per quanto la fede di battesimo assicuri il luogo e la data della mia nascita, è da sciocchi cercare quando o dove la mia personalità abbia avuto origine. Io l’ignoro. Io sono stato sempre e la mia patria è il mondo.

 
Luigi Natoli: Cagliostro e le sue avventure
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