giovedì 30 marzo 2017

Luigi Natoli: Il cavaliere dal cuor sanguinante.. - Tratto da: Il paggio della regina Bianca


Allora squillarono più alto le trombe, e improvvisamente, fra gli applausi della moltitudine, entrò nell’arena il re, sfolgorante nelle armi, con la visiera alzata, la sciarpa tricolore alla cintura, la lancia sulla coscia.
Il suo cavallo veniva col passo largo, battendo le zampe con superbo fragore, facendo ondeggiare la gualdrappa purpurea, guarnita di ricami d’oro, e squassando la criniera arricciata, e ornata di nappe di seta.
Il re era bello. La giovinezza e la maestà si fondevano sul suo volto; l’ardire e il desiderio di gloria brillavano nei suoi occhi.
Entrando nell’arena, i suoi occhi corsero alla loggia reale, dove la regina lo seguiva trepidando e commossa di piacere, di gioia, di orgoglio, di amore.
Preceduto dagli araldi, seguito da scudieri, Martino cavalcò di trotto per l’arena, percotendo l’arma di messer Sancho de Lihori, che s’era mostrato il migliore cavaliere, e pareva dovesse essere il trionfatore del torneo.
Era una distinzione onorifica che il re concedeva al prode catalano, da lui elevato alla dignità di grande almirante, e riserbato ad altri e più lucrosi benefizi.
Per tutto il teatro corse un palpito di trepidazione, quando i due cavalieri, abbassate le lance, corsero l’uno contro l’altro. L’incontro parve terribile; le lance, arrestatesi violentemente alla goletta, si spezzarono, senza che nessuno dei due cavalieri avesse dato segno di vacillare. Essi parvero fusi in un pezzo coi loro cavalli.
Spezzarono così tre lance per uno; ma alla terza, messer Sancho de Lihori si piegò alquanto indietro sull’arcione, senza per questo uscire dagli arcioni. Bastava.
Da abile cortigiano, egli smontò dal cavallo, e inginocchiatosi dinanzi al re, gli porse la sua spada.
Allora da tutta quella folla si levò una vera tempesta di applausi e di evviva al re.
Quello spettacolo empiva di maraviglia il paggio Esteban; e la sua attenzione in quel momento era attirata da quello stendardo nero e da quel palvese lugubre, che finora erano rimasti soli, intatti, tristi, come fossero stati un segno di morte. Egli e mastro Cecco di Naro, nell’entusiasmo generale, erano i soli che guardavano quello stendardo, sebbene l’uno con una intenzione diversa dall’altro. Mastro Cecco era accigliato, e sotto l’aspetto torbido, nascondeva la sua inquietitudine; Esteban era soltanto stupito, non sapendo spiegarsi che cosa significasse; ma ecco a un tratto balzar fuori sull’arena un nuovo cavaliere, e portando alla bocca un corno, soffiandovi forte, alla maniera antica.
Tutti si voltarono.
Il cavaliere lasciato cadere il corno al suo fianco, abbassò rapidamente la visiera, e alzò in aria la lancia.
Nere le piume ondeggiavano sul cimiero; nera la veste, nera una grande sciarpa che gli cingeva i fianchi: la bordatura e la gualdrappa del suo cavallo erano anch’esse nere. Soltanto sullo scudo aveva il cuor sanguinante attraversato dalla banda nera.
Lo scudiero che gli portava dietro le lance di ricambio, era anch’esso vestito di nero.
Un fremito di stupore e quasi di terrore percorse le logge e le gradinate. Quell’apparizione aveva qualcosa di fantastico, di misterioso, di superumano.
Esteban rabbrividì: Giaimo aggrottò le sopracciglia e non trovò la facezia; Tarsia sentì il cuore batterle con violenza; la Regina Bianca impallidì.
Solo mastro Cecco di Naro mandò un sospiro di soddisfazione:
- Finalmente!
A quel primo senso di stupore, tenne dietro quasi subito un movimento di curiosità:
- Chi è? chi è?
Ma non trovarono altra risposta che quella dipinta sotto il palvese: il cavaliere dal cuor sanguinante...
 
 
Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca
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Luigi Natoli: La giostra del re Martino - Tratto da: Il paggio della regina Bianca


Lo spettacolo era magnifico. La gradinata popolare sembrava un mare agitato. Era come una massa compatta, scura, che non stava un minuto ferma; qualcuno improvvisamente si alzava, faceva un gesto, che nessuno capiva, ma bastevole per destare la curiosità; altri si alzavano, il movimento si propagava, tutta una parte si levava in piedi, guardando, con un sussurrio di domande, di supposizioni, di scherni.
Ma a un tratto si sentì uno squillo di tromba; due araldi, a cavallo, uscirono sull’arena, la percorsero di trotto; vennero dinanzi al padiglione reale, e s’inchinarono, agitando i berretti piumati.
Venivano a prendere l’assentimento reale; ritornarono indi dinanzi al padiglione riservato ai cavalieri giostranti, sul quale era stesa una tenda.
A un nuovo squillo di tromba, la tenda si aprì, e uscirono i quattro giudici del campo, i quali, percorso il giro dell’arena, vennero a collocarsi sotto il padiglione reale, seguiti da scudieri e serventi, paggi e guardie.
Squillaron nuovamente le trombe, e uscirono i sei cavalieri tenitori del torneo, a cavallo, vestiti in tutta armatura, con le visiere alzate, la lancia appoggiata al piede. Ognuno di essi era seguito da due scudieri, che portavano lance di ricambio e lo scudo.
Erano, come aveva annunciato Simone, messer Sancio de Lihori, messer Gilberto Talamanca, Galcerando di Santa Pau, Giovanni Cabrera figlio di messer Bernardo, Artale de Luna, parente del re, Berengario de Bages.
Ognuno di loro aveva il proprio colore nella veste, nelle piume e nello scudo, corrispondente al colore del palvese attaccato alla antenna e allo stendardo che vi svolazzava sopra; e sullo scudo, oltre all’arme, era il motto o impresa che ciascun cavaliere aveva adottato; la ricerca del motto, dalla forma e dalla ricchezza della bardatura del cavallo e del vestito degli scudieri, formava per se stessa una gara, che aveva anch’essa un premio.
I sei cavalieri mantenitori percorsero l’arringo, fino al padiglione reale, e fatto il debito saluto ritornarono innanzi al proprio padiglione dove si schierarono.
Dall’altro lato del padiglione, opposti agli stendardi e ai palvesi dei mantenitori, v’erano gli stendardi e i palvesi dei cavalieri che avevano raccolto la sfida.
Il primo stendardo sventolava sopra un’antenna più alta delle altre, in cima alla quale si librava un’aquila dorata, con in petto le armi di Aragona. Lo stendardo era rosso e giallo; ma una grande sciarpa vi ondeggiava sopra, e portava tre colori simbolici: il bianco, il rosso e il verde.
Erano i tre colori che aveva adottato re Martino: (15) ed erano ripetuti da una banda che attraversava il palvese, sul quale stava scritto il motto: Esperando y vinciendo.
V’era poi lo stendardo di messer Sancio de Lihori, celestre, con un leone portante un giglio d’oro nella zampa; lo stesso era dipinto sul palvese, col motto: Fuerte y puro.
Lo stendardo di messer Gilberto Talamanca era partito di bianco e azzurro; il suo motto era: Istoi a onde mereezo; veniva poi lo stendardo di Galcerando di Santapau, rosso, con le tre sbarre d’argento per traverso; quello di Giovanni Cabrera giallo, con lo scudo orlato a scacchi bianchi e neri, e la capra nera nel campo d’oro; quello di Artale de Luna formato a scacchi gialli e neri, con una mezzaluna rovesciata nella parte superiore; quello di Berengario de Bages, con due cuori incatenati nel fondo verde. E ciascuno col suo motto.
Dall’altra parte dello stendardo reale vi erano quelli dei cavalieri che raccoglievano la sfida: Antonio Sclafani, conte di Adernò, con lo stendardo azzurro, e nel mezzo lo scudo partito di bianco e nero, con le due gru apposte; Giovanni Abatellis, stendardo bianco, e lo scudo partito con un grifo a destra, il sole raggiante a sinistra; Antonio di Santo Stefano, signor della Ginestra, stendardo rosso con lo scudo d’argento e la croce nera; Berlinghieri Ventimiglia, stendardo bianco, con lo scudo partito di rosso e d’oro e la banda a scacchi bianchi e azzurri, che fu già arme gloriosa dei re normanni; Corrado Lancia, stendardo verde e leon nero dalla lingua rossa, rampante nello scudo d’oro e Riccardo Filingeri, stendardo rosso e azzurro, con lo scudo azzurro dalla croce d’argento sparsa di campanelli azzurri. Anch’essi avevano il loro motto.
L’ultimo era lo stendardo nero, misterioso, col palvese dal cuore sanguinante attraversato dalla banda nera, e il motto oscuro, del quale nessuno poteva intendere il senso riposto....
 
 
 
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Luigi Natoli: Esteban, il paggio - Tratto da: Il paggio della regina Bianca


Era un ragazzo – così pareva dall’aspetto – un ragazzo bruno, dai capelli nerissimi, tagliati sulla nuca, dagli occhi di giavazzo sotto le lunghe ciglia, d’un aspetto piuttosto malinconico come di chi ha un segreto rimpianto. Il suo corpo agile e svelto, aveva un non so che di indefinito, quasi femineo nella piccolezza dell’ossatura e nella pienezza delle curve.
- Esteban, – aggiunse la regina – è già vissuto in Sicilia per qualche tempo…
Queste parole avevano fatto balenare una luce sul volto del paggio; raggio di sole che rallegra un prato giocondo di fiori, o lampo che discopre gli orrori di una notte tenebrosa. Le due espressioni si alternarono in quell’attimo e si confusero.
Le damigelle guardavano con curiosità quel paggio, la cui bellezza strana e quasi selvaggia aveva un fascino speciale; e si domandavano tra sé, come quando e perché egli era stato in Sicilia.
La loro curiosità frenata davanti alla regina, ebbe libero sfogo quando, avendo un valletto sollevata una tenda, annunciato il re, la regina le congedò. Allora uscendo nell’anticamera, si lasciarono trasportare dalle congetture tra le fantasticherie più remote, e come videro uscire Esteban e sedersi in anticamera, presso una finestra, lo circondarono per appagare la loro curiosità e anche per vederlo meglio.
Ma Esteban non parve commuoversi nel vedersi attorno quelle giovani donne graziose e desiderabili; si sarebbe detto anzi che lo infastidivano.
 
 
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mercoledì 29 marzo 2017

Luigi Natoli: Al termine di una battaglia... Tratto da: Alla guerra!


Guardò intorno; il campo era sparso di feriti e di morti, quelli gemevano, chiamavano, cercavano sollevarsi o si trascinavano; gli altri giacevano immobili, a mucchi, negli atteggiamenti più spaventevoli: mucchi informi, nei quali non si distinguevan più le persone, ma di fra un confuso aggrovigliamento di gambe e di busti apparivan volti esterrefatti dallo spavento, deformati dallo spasimo, o dolorosamente sereni; mani abbandonate o adugianti la terra, o levate in alto come per afferrare qualche cosa, o coi pugni chiusi in atto di minaccia; e sangue, sangue dalle orribili ferite, sangue per terra, in pozze, in rigagnoli torpidi e bruni; e dispersi da per tutto fucili, sciabole, berretti, zaini; e una enorme quantità di bossoli vuoti, un tappeto metallico, rilucente fra il sangue, tra l’erbe, nel terriccio smosso, sconvolto dalle bombe e dalle granate. Più in là, dietro, fra gli alberi stroncati, divelti, le case scoperchiate, abbattute, fumanti. Dei cavalli sventrati giacevano fra gli uomini, altri, con la sella vuota, galoppavano pel campo, come presi da follia; pattuglie di lancieri o di cavalleggieri correvano per ogni verso; e intanto per tutto il campo era un affaccendarsi di militi della Croce Rossa, di medici militari; un passar continuo di lettighe, barelle, automobili.
Dei sottufficiali frugavano i morti, per toglierne le medaglie di riconoscimento, le carte, il denaro, tutto ciò che possedevano; avvolgevano ogni cosa dentro buste; vi mettevano un segno, e riponevano le buste dentro una cassa. Dei soldati separavano i morti; ponevano i tedeschi da una parte, i francesi dall’altra. Qua e là dei soldati, dei sottufficiali, con una stola buttata sul collo, il capo nudo, si chinavano sui feriti, o con pio gesto benedicevano i morti; erano preti, che deposto il fucile, riprendevano il loro ufficio di pace, e invocavano il perdono di Dio su quella carne umana macellata; nella quale non vedevan più francesi o tedeschi; ma uomini della stessa carne, creature di un Dio padre comune.
Benoist guardava.
A pochi passi da lui c’era un gruppo di tedeschi, uccisi dalle baionette, ventri, colli, petti squarciati; volti sfigurati; v’era tra essi un ufficiale, che stringeva ancora un mozzicone di sciabola; aveva il capo appoggiato sul dorso di un soldato, e rivolto verso Benoist; gli occhi sbarrati, fra il sangue che colava sul viso; una espressione di sgomento e di ferocia sulla bocca dischiusa; aveva una larga ferita al capo, un’altra al petto. Pareva guardasse Benoist, e gli dicesse:
- Tu m’hai ucciso.
Benoist si sentiva stringere il cuore. Quanti caduti! quando sangue!... e quanta pietà!
Tramontava. Tra i vapori che sorgevano dalla terra, e il vagare del fumo nerastro degli incendi il sole rosseggiava come una fiamma viva; e diffondeva intorno una luce nella quale le case, gli alberi, i colli lontani parevan coprirsi di un’onda di sangue; pareva che quell’onda dilagasse da per tutto, dal cielo alla terra, e uomini e cose ne fossero come travolti. E nulla appariva agli occhi di Benoist così terrificante, come lo spettacolo di quel campo immenso di rovine e di morte, illuminato dal tramonto sanguigno: ora la guerra gli si rivelava in tutta la sua spaventevole e tragica grandezza. Il sole calava, e dalla terra, col fuggire della luce, si levava un lamento, un singhiozzare lugubre e lungo, che si diffondeva per tutto lo spazio visibile, ed empiva l’aria, come se le migliaia di anime strappate dalla violenza del ferro e del fuoco, errassero a salutare i corpi martoriati e abbandonati.
 
 


Luigi Natoli: Alla guerra!
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Luigi Natoli: Inizia la vita da campo del professore Benoist - Tratto da: Alla guerra!


Per Benoist cominciava da quel punto la vera vita da campo: fino allora non aveva fatto che viaggiare, sulle strade ferrate o a piedi; la battaglia era stata lontana e salvo il rombo del cannone, cupo e lungo come un tuono remoto e prolungato dagli echi, e il passaggio di qualche treno di feriti, non aveva veduto altro. La vista dei feriti, pallidi, con le teste o le braccia coperte di bende insanguinate e il loro numero, che pareva infinito, avevano ridestato le sue antiche idee umanitarie, la sua avversione per la guerra; la sua pietà umana, il suo ardore per la pace e per la fratellanza.
Ora lì, nell’aspettazione di quel momento, anche Benoist pareva pervaso da quella febbre operosa di preparativi. In verità non era così sicuro e svelto come altri ufficiali; e doveva fare uno sforzo di memoria per ricordarsi quel poco da lui imparato nel suo breve tirocinio per sostenere gli esami di ufficiale di complemento. I suoi occhi di pensatore, velati dalle lenti non avevano la percezione rapida e lo scintillìo di un proposito eroico; ma egli si aiutava imitando gli ufficiali più esperti. Qualche volta, trasportato dal suo abito mentale, dimenticava i doveri della gerarchia, e vedendo nei soldati nient’altro che operai, e in sè un compagno, dava una mano, come un soldato semplice. E questo suo gesto gli procurava le simpatie entusiastiche dei suoi soldati, e un elogio del comandante, che percorrendo il battaglione, e visto Benoist all’opera, sclamò:
- Bravo! ecco un vero cuor di soldato!...
L’elogio fece arrossire Benoist, che in quel momento pensava a tutt’altro che ad avere un cuor di soldato.
 
 
 
 
Luigi Natoli: Alla guerra!
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venerdì 24 marzo 2017

Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891

In occasione dell'Esposizione Nazionale tenutasi a Palermo nel 1891, Luigi Natoli scriveva una guida della città capoluogo di Sicilia. Il libretto era stato concepito in funzione dei tanti visitatori che l'evento avrebbe portato a Palermo con l'intenzione di accogliere i viaggiatori fin dal loro arrivo in città, fornendo tutte le "indicazioni utili" per il soggiorno, già dalle prime pagine, a iniziare per l'appunto dagli alberghi, e poi di seguito i caffè, le trattorie, i mezzi di trasporto, dentisti, farmacie e tanto altro, senza trascurare nulla, latrine comprese.
Ma il grande Luigi Natoli non poteva far a meno di guidare i visitatori nella sua adorata Palermo, con l'immenso amore da sempre riservato a questa città. Descriveva, infatti, la storia millenaria, la complessa topografia e tutte le meraviglie artistiche e architettoniche con smisurata cultura, ricchezza di particolari e rigore narrativo, non senza polemiche ove era giusto farle.
 
Il volume è disponibile presso tutti i siti di vendita online, su Amazon, al catalogo prodotti della casa editrice e a Palermo nelle librerie indicate nel sito www.ibuonicuginieditori.it
Prezzo di copertina € 19,00 - Sconto 15%
Copertina di Niccolò Pizzorno
 

Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891: Palermo nella storia


Nel 254 i consoli A. Attilio e Gn. Cornelio la cinsero d’assedio. Entrati col navilio nel porto e sbarcate le truppe tirarono una trincea  dalla parte di terra dalla costa esterna, al porto; dal mare al mare, secondo l’espressione di Diodoro, e oppugnarono la Città. Prima cadde la Neapoli, poi la Paleapoli. Nel 250, tornandovi Asdrubale con forte esercito e cento elefanti per riprenderla ai romani, vi fu sconfitto dal console Metello fra le mura della Neapoli e l’Oreto. Dice Polibio che i Romani furono validamente aiutati dagli artigiani di Palermo; il che fa supporre che non fossero tutti gli abitanti di stirpe fenicia, ma che vi fosse anche un elemento italico. Qualche anno appresso venne Amilcare Barca e attendò alle falde dell’Ercta (Monte Pellegrino); assediò inutilmente la città. A memoria del fatto alcuni terreni sul declive del Monte conservano ancora il nome di Barca.
Classificate le città in federate, libere e immuni e decumane, Palermo fu annoverata fra le seconde. I pretori fissarono dimora in Siracusa, ma avevan obbligo, a intervalli, di tener curia a anche in Palermo. Sebbene la vita della città è assorbita da Roma, pure essa appare dagli scritti come degna di nota. Cicerone la dice nelle Verrine ragguardevole; Strabone la chiama Colonia Augusta. Si resse a repubblica, come appare dalle lapidi, che recano la leggenda Res publica Panhormitarum (secondo l’antica ortografia).
Sorto il cristianesimo, è fama che vi fosse predicato da Filippo, inviatovi da San Pietro; certo la chiesa di Sicilia, divenuta fiorente e ricca, fin dal IV secolo – come dalle lettere di S. Leone Magno – dipese dal Vescovo di Roma. Palermo fu uno dei centri della Chiesa siciliana, insieme con Siracusa. Dopo la divisione dell’impero, Palermo soggiacque al dominio di Costantinopoli,  ma continuò a reggersi a municipio. Al tempo delle invasioni barbariche, fu nel 440 la città presa da Genserico re dei Vandali, che vi fondò regno di breve durata. Ma stretto dagli armamenti e da Marcellino, e dovendo passare in Africa, abbandonolla a Odoacre, al quale fu tolta da Teodorico. I Goti la tennero fino al 535; nel quale anno fu assediata e presa da Belisario. Ritornò quindi al dominio bizantino, sotto al quale durò fino all’830, allor quando fu assediata dagli Arabi. La città si difese valorosamente e disperatamente per un anno; di 70 mila che erano gli abitanti, alla resa ne sopravvivevano 3 mila appena. Da prima la colonia musulmana di Palermo fu indipendente, poi soggetta al principato degli Aghlabiti e al califfato dei Fatimiti d’Africa. Tuttavia in mezzo secolo potè svilupparsi e ingrandirsi siffattamente da destar le meraviglie del monaco Teodosio, qui tradotto prigioniero da Siracusa nell’878. Sotto gli Arabi, come sotto i Bisantini e nella giurisdizione ecclesiastica, Palermo fu capo dell’isola; raggiunse la somma di 350 mila abitanti; fu paragonata a Cordova e al Cairo. Ma le discordie scoppiate fra i principi musulmani e l’elemento cristiano sovversivo, resero possibile la venuta di Giorgio Maniace, inviato dall’Imperatore Michele Paflagone; e più tardi quella dei venturieri normanni che avevano già fondato le signorie delle Puglie...
 
Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891
Una guida completa per il turista, pubblicata in occasione dell'Esposizione Nazionale 1891.
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mercoledì 22 marzo 2017

Luigi Natoli: Squarcialupo.


 
 
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%

Luigi Natoli: Squarcialupo. Romanzo storico siciliano.


Buio profondo nella strada. E non un'anima viva: solo due cani che si udivano ringhiare invisibili, sotto la pioggia minuta e uguale che cadeva silenziosamente dalle prime ore della sera. Una porta si schiuse lentamente, lasciando travedere una luce rossiccia, e una testa si sporse fuori: guardò a destra, guardò a sinistra, poi in alto, dove l'alta torre di un vecchio palazzo si perdeva nelle tenebre: infine rientrò e richiuse.
Dentro v'erano cinque uomini, seduti intorno a una tavola, illuminata dalla luce rossastra oscillante di una lucerna di terra cotta. Un boccale stava fra loro. Un'altra tavola, tra panche e scranne si trovava alla parete opposta, in quella stanza, non troppo grande, fuliginosa, che sapeva di vino e di unto. In fondo si vedevano incerti nella penombra, un banco con altri boccali, e dietro il banco due botti. Era una taverna.
A quell'ora, essendo già suonata da un pezzo l'ora del coprifuoco, nessuno avrebbe dovuto trovarcisi: ma quei cinque avventori avevano qualche cosa di singolare che aveva obbligato il tavernaio a lasciarli stare nella taverna, contentandosi di chiudere la porta.
Quei cinque uomini erano armati di spada e pugnali; ma più delle armi che tutti per altro portavano, incuteva soggezione l'aspetto. Erano bravacci, avanzi forse di quelle soldatesche spagnole che pochi anni innanzi, ritornati dall'Africa, avevano suscitato in Palermo una sommossa con tante uccisioni che la fecero dire un piccolo Vespro.
Avevano certamente qualche ragione per trattenersi in quella taverna oltre l’ora consentita dai bandi: e il tavernaio non aveva osato mandarli via, oltre che per non subire prepotenze, anche perché di convegni simili questo non era il primo....
 
Luigi Natoli: Squarcialupo.
Pagine 684 - Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15%
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lunedì 13 marzo 2017

Luigi Natoli: Vicende politiche di Palermo. Tratto da: Guida di palermo e suoi dintorni 1891

Luigi Natoli apre il volume della Guida di Palermo e suoi dintorni 1891con la storia di Palermo dalle origini all'ingresso di Giuseppe Garibaldi il 27 maggio 1860. Una narrazione chiara e dettagliata, come è uso dell'autore in tutte le sue opere.
 
Le origini di Palermo sono involte nella oscurità dei tempi; quello che si sa con certezza è che fu uno dei numerosi empori dei Fenici, popolo navigatore e commerciante. Quando, nell’ottavo secolo a.c. i Fenici cominciarono ad abbandonare le loro colonie, si ridussero ad abitare in Palermo, Solunto e Mozia. Forse da allora cominciò l’ingrandimento della città, e data quella parte che i Greci chiamarono Neapoli, a differenza della città antica, Paleopoli, che era la vera e propria Palermo. Il primo nome della quale, secondo alcune monete e congetture del Gesenius, del Movers e del Bartelèmy, fu Mahhanat, quasi campo fortificato; secondo altre monete, e l’opinione più accreditata, fu Tsits, Sis, che equivale a fiore. Ma è possibile che le due diciture si riferiscano alle due parti della città, l’antica e la nuova. Il nome di Panormo, poi Palermo, venne dai Greci, che così la dissero per l’ampiezza e la sicurtà del suo porto. Su di essa, la potente e gelosa Cartagine che aveva comune l’origine, stese le sue mire; pare che da prima le due città abbiano stretto una lega; ma progredendo i Greci dalle coste orientali, e cominciata la lotta fra le schiatte elleniche e le fenicie, Palermo soggiacque alla preponderanza cartaginese, e diventò centro e base delle operazioni di guerra. E durante la guerra contro Imera, nel porto di Palermo si ricoverò il navilio cartaginese forte di 200 triremi e 300 onerarie – secondo Diodoro; e di qui nel 480 a.C. mosse Amilcare contro Ierone. Imilcone se ne fece base nella guerra contro Dionisio tiranno di Siracusa. Nel 276, Pirro re d’Epiro, chiamato dai Siracusani, la tolse ai Cartaginesi ma per poco. Abbandonata da costoro la Sicilia, vi vennero i Romani che ingaggiavano il gran duello contro i Cartaginesi...
 
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mercoledì 1 marzo 2017

Luigi Natoli: Il primo duello di Fabrizio di Torralba


A ventidue ore meno qualche minuto Fabrizio di Torralba giungeva al bastione di Porta di Castro. Questa porta secentesca a bugna, d’una bella tinta dorata non esiste più; il bastione c’è ancora, ma sguarnito da un pezzo: esso circonda il torrione meridionale del Palazzo reale, dominante la porta, e gira sulla piazza ora detta dell’Indipendenza. Allora si chiamava di santa Teresa, pel convento dei Teresiani che sorgeva a uno dei lati. Un corpo avanzato, munito di feritoie, faceva come una trincea a questo lato del bastione, che si prolungava poi per quanto era lungo il Palazzo reale, e ne sosteneva il giardino, e svoltava a Porta Nuova, di cui primamente era la difesa.
Fabrizio giunse primo, e aspettò al canto del corpo avanzato: ma qualche minuto dopo giunse il tenente di Roccasparta. Si salutarono con un freddo cenno del capo; e ritrattisi più in fondo, snudarono le armi e si misero in guardia. Allora, due che volevano sbudellarsi  non si perdevano dietro regole e formule cavalleresche: la cavalleria era in questo, nell’aver coraggio a battersi lealmente. Aver testimoni non era indispensabile, e tanto meno medici; i testimoni qualche volta si conducevano. Quando il duello aveva una certa solennità, era preceduto da un cartello di sfida, redatto secondo le formule e il cerimoniale dell’epoca: ma quando la sfida correva così, come era corsa tra Fabrizio e il tenente, non c’era bisogno di nulla.
Il tenente era in uniforme, aveva in capo la lucerna alta col fregio dorato, ed era armato della spada d’ordinanza, larga e lunga; Fabrizio toltosi il mantello e il nicchio, era in giamberga e armato di spadino, che pareva un gingillo al paragone della spada avversaria: ma il gingillo era una vecchia lama di Toledo di eccellente tempra.
Il cavaliere di Roccasparta si mise in guardia con aria spavalda, da uomo avvezzo a quel giuoco, stimando di mandare dopo due o tre movimenti lo spadino in aria, dare una sculacciata al temerario giovincello, e mandarlo a casa. Fabrizio era alle sue prime armi.
Scese in guardia, senza spacconeria, vigilante, cercando di leggere negli occhi e nella mano dell’avversario le azioni che avrebbe sviluppato. Alle prime mosse Fabrizio capì che il tenente cercava di disarmarlo, e allora mutò giuoco: s’era fin qui limitato a seguire l’azione del tenente, per conoscerne la portata; ora passava alle iniziative, e attaccò con una serie di azioni rapide e travolgenti, che costrinsero il Roccasparta ad indietreggiare.
Con una fulminea cavazione, lo spadino s’insinuò e colpì all’omero il tenente.
- È una! – disse Fabrizio, rimettendosi subito in guardia.
- È nulla! – rispose il tenente, assalendo con un fendente che avrebbe spaccato in due Fabrizio, se questi non avesse con un salto di fianco scansato il colpo e nel tempo stesso affondato una stoccata, che, pur alleviata in qualche modo, colpì al viso. Un mezzo pollice più in qua sarebbe penetrata nella bocca.
- E due!...
Il tenente abbassò la spada. Il sangue gli colava copioso dalla faccia e dall’omero.
- Basta! – disse – vi faccio i miei complimenti.
Fabrizio gli si avvicinò, gli porse la mano:
- Senza rancore! – rispose. – E lasciate ora che vi soccorra.
 
 
 
Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba
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Copertina di Niccolò Pizzorno, in cui viene riprodotto il primo duello di Fabrizio di Torralba



Luigi Natoli: Fabrizio di Torralba e i suoi duelli



Strana vita la sua, che l’obbligava a stare con una spada in pugno. E tuttavia egli riconosceva che non era un attaccabrighe: vivace sì, e insofferente di prepotenze e ingiustizie; e se si batteva gli era appunto per questo. Facendo l’esame della sua vita si trovava già con una ventina di duelli sulla coscienza. Gli ultimi sostenuti a Parigi non avrebbero potuto essere più buffi, salvo uno, con quel capitano Verger che aveva creduto di offrirsi come un successore di Montlimar e aveva suscitato lo sdegno di Rosalia. Fabrizio aveva trovato ingiuriose quelle proposte, il capitano gli aveva detto che non aveva bisogno di lezioni; Fabrizio aveva rimbeccato, ne era corsa una sfida, si erano battuti, il capitano aveva ricevuto un colpo alla testa che lo aveva tenuto per un mese a letto: Fabrizio un colpo al braccio e se l’era cavata in quindici giorni.
Ma gli altri duelli? Li passava in rassegna. Una volta si era battuto perché aveva riso al vedere un moscardino con un enorme colletto che gl’imprigionava il mento, e così largo che il capo gli si moveva dentro come la testa di una tartaruga nel guscio. Il moscardino si era fatto rosso come un gambero, lo aveva investito con un “che c’è da ridere imbecille?” al che egli aveva risposto: “rido perché ho trovato uno più imbecille di me”. Il moscardino aveva alzato il bastone a spirale. Fabrizio gli aveva buttato in faccia il vino di un bicchiere, sciupandogli la cravatta, la camicia e il panciotto di seta bianca. E naturalmente si erano battuti. Povero bellimbusto!... ci aveva rimessa un’orecchia, portata via da un colpo di sciabola.
Un’altra volta, per un cane. Un signore batteva spietatamente un cane, che non voleva seguirlo perché aveva la testa a una graziosa cagnetta. Egli aveva fermato il braccio di quel signore, dicendogli: – “Oibò! Non è da animo gentile battere così le bestie!” – Quel signore gli si era voltato rabbiosamente: egli, col suo sorriso beffardo, si era scusato: – “non sapevo che foste idrofobo”. – Quello a sentirsi preso per cane lo aveva sfidato lì per lì. Si erano battuti; e Fabrizio lo aveva ferito nella mano, perché si ricordasse di non picchiare più le bestie a quel modo inumano.
Un altro duello aveva avuto per difendere un commediante che non godeva le simpatie di una parte del pubblico della Comedie Francaise. Uno spettatore lo interrompeva durante la recita con sghignazzamenti e rifacendogli caricatamente il verso. Fabrizio gli aveva osservato puntamente che non c’era carità a tormentare quel pover’uomo, e quello a rispondergli che se non gli piaceva se ne andasse. Fabrizio aveva ribadito: – “Me ne andrò con voi, signore, per avere il piacere d’insegnarvi la buona creanza”. L’altro, fattosi più arrogante, s’era subito alzato per dare uno schiaffo, che era rimasto in aria perché Fabrizio, più lesto, gli aveva fermato la mano, ripiegandogli il braccio, e costringendolo a schiaffeggiarsi da sé. Erano stati separati, ma il domani si erano battuti: l’avversario, confuso dal giuoco rapido e insostenibile di Fabrizio, gli aveva voltato le spalle, e il ferro di questo lo aveva colpito in una natica. – È il solo posto dove vi si possa colpire!” – gli aveva detto Fabrizio, andandosene.
 
 
 
Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba
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