mercoledì 29 giugno 2016

Luigi Natoli e la Palermo nel 1515: Squarcialupo


La città di Palermo nel 1515, sebbene nella periferia avesse preso la forma che su per giù conservò intatta, entro la cerchia delle mura esterne fino al 1860, non aveva internamente la distribuzione topografica che venne assumendo nel corso del secolo, e che nel 600 ebbe compiutezza e stabilità. Questa cerchia – in qualche punto visibile ancora – è riconoscibile in quella serie di stradoni che la costeggiavano e ne furono la via di circonvallazione: la quale partendo dalla spiaggia, per le odierne via Lincoln, Tukery, Alberto Amedeo, e piegando per le vie Volturno e Cavour va a finire là dove era il Castello a mare. Internamente non c'era ancora la via Maqueda; e la parte più antica della città nel mezzo, era la vera Panormus e conservava la sua cinta di mura antiche e le sue porte e le sue torri, come una città dentro la città, oramai inutili, qua e là rotte e tramutate in abitazioni. La strada che negli atti ufficiali e nella cronaca aveva nome di via Marmorea giungeva fino alla chiesa di Sant'Antonio, all'angolo della recente via Roma, dove era una torre, che gli eruditi di quel tempo attribuivano a un nipote di Noè, e una porta, che una volta dava sul mare, e i musulmani chiamarono infatti Porta di mare. Ma il mare che in tempi remoti giungeva fino a questo punto, vasta insenatura, chiusa a oriente da uno sprone – ancora visibile – sulla cui estremità sorse poi la chiesa della Catena, si era a poco a poco ritirato, o era stato disseccato: si era ristretto poi in quell'area che formò appresso la piazza Marittima, oggi Marina, e finalmente si restrinse nella Cala.
Nel 1515 su tutta questa nuova aria correvano strade e stradette, sorgevano chiese e palazzi, che furono anni dopo abbattuti o tagliati, quando distrutta la torre e la porta, il vicerè don Garsia de Toledo volle che si prolungasse la via Marmorea fino alla chiesa di Porto Salvo; e le diede il suo nome.
La via Marmorea dunque era né più né meno che l'attuale via Vittorio Emanuele. E se si pensa, che essa era la via principale dell'antica Panormus, si deve riconoscere come una delle più antiche strade cittadine del mondo, rimasta quasi intatta là dove fu tracciata forse dai Fenici, certo ai tempi greco-romani.
Era fiancheggiata di palazzi magnifici, che conservavano l'aspetto di castelli con merli e torri, e di ricche botteghe; lastricata di pietre, levigate; bella e sontuosa, destava la maraviglia dei forestieri.
Quasi parallelamente a essa correvano altre due strade, di qua e di là, lungo le mura antiche: specie di boulevards; che finivano anch'esse col congiungersi, a Sant'Antonio, con la via Marmorea. Una di queste strade, partendo dall'alto, – dove ora è la Caserma, costeggiando l'episcopio e la cattedrale, percorreva la strada, che anche allora si chiamava del Celso; la quale si continuava con norme di via di porto Oscura, San Teodoro degli Scannati, S. Antonio, ininterrottamente. Tre porte, antiche anch'esse, mettevano in comunicazione questa strada, anzi questa parte della città, con quartieri che erano sorti nelle bassure, dove in tempi remoti si prolungava la palude del Papireto: ed erano la porta di Sant'Agata, – presso la chiesa omonima, la porta degli Schiavi – in via Celso – e la porta Oscura, – a Bab as Sapa degli arabi – detta Oscura forse perché vi si giungeva per un andito lunghetto e buio. Essa dalla piazza delle Vergini, metteva sul principio della odierna Piazza Nuova; e chi scende dalla via Maqueda nella piazza, guardi nelle botteghe a destra, e fatti pochi passi vedrà dentro una di esse un mezzo arco sepolto fra le costruzioni posteriori. È quel che resta della porta.
Ora siccome il suo sbocco rimaneva più in basso dal livello della piazza delle Vergini, una specie di scalinata percorreva gran parte dell'andito, sul quale si apriva qualche stanza o stamberga, che forse un tempo serviva di alloggio alle guardie. Una, in alto, scavata nel tufo, male intonacata, nera di fuligine, si era trasformata in bottega e in abitazione....
Luigi Natoli - Squarcialupo.
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Luigi Natoli e il Carnevale del 1563 - Il capitan Terrore


Quel giorno era l’ultimo giovedì di carnevale, e la città era in festa più degli altri anni, perché Sua Eccellenza il Vicerè, che era il duca di Medinaceli, maritava le due figlie, e già si erano avuti cinque giorni di festeggiamenti; quel pomeriggio doveva aver luogo in Piazza Marina il grandioso spettacolo della caccia intrecciata con una rappresentazione e con una giostra.
Allora la fantasia e il tripudio si sbizzarrivano oltre che con maschere isolate, con vere mascherate complesse, raffiguranti avvenimenti storici. Una si componeva di quattro o cinque personaggi forniti di una scala e un tamburo. Dove pareva loro che fosse il caso, si fermavano e al rullo del tamburo, appoggiavano la scala a una finestra a cui si affacciassero donne ridenti e un uomo si arrampicava. Che dico un uomo? una specie d’uomo coperto da una finta faccia rossa come un gambero cotto, con certe labbra da asino, grossi zigomi anch’essi animaleschi, coperto il capo da un elmo o da qualcosa che arieggiava l’elmo impennacchiato di fiori di canna, armato di una spada di legno, il quale braveggiava strepitando buffonescamente e facendo sbellicar dalle risa la folla che lo seguiva e le persone affacciate. A un tratto precipitava senza però farsi nulla di male, perché gli altri compari gli tenevano una coperta sotto. E qui nuove risa, nuovi schiamazzi e gettito di pezzetti di carta tagliata minutamente, che dicevano “pittiddi”, forse dal francese “petit”, e chiamati ora coriandoli.
Quella maschera aveva un’origine storica, della quale si era perduto il significato: doveva rappresentare il vecchio Bernardo Cabrera che dava l’assalto allo Steri per impadronirsi della giovane e bella vedova regina Bianca, della quale si era innamorato. Ora si chiamava la mascherata del “Maestro di campo”, come dire del Generale. Si sa che la regina Bianca, sorpresa nella notte dagli armati di Bernardo, fuggì seminuda, e che Bernardo trovando vuoto il letto, si arrabbiò ma poi involtandosi nelle coperte ancora tiepide, esclamò: – “Non importa che la pernice sia fuggita, il nido è ancora caldo”.
Il popolo s’era vendicato, mettendolo in burletta, ma nel corso di un secolo e mezzo la memoria del fatto si era contaminata.
In altro punto, dove era una piazza levavano da terra un castello di legno dipinto a conci, con merli, tra i quali apparivano schierati Mori o Turchi, armati di spade e lance, che, gridando, le agitavano al sole. Contro di loro erano Cristiani. La folla degli spettatori, enorme e fluttuante, aspettava schiamazzando. Era il “gioco del Castello”, che forse rievocava i fasti della conquista normanna, forse la presa di Palermo o d’altra città, verità storica alteratasi romanticamente, o intrecciatasi con altre imprese. Cominciava col mandare gli ambasciatori, seguiva con le varie fasi del combattimento; e finiva con la presa e col trionfo dei Cristiani e con un balletto generale.
Una carrozza saliva pel Cassaro. Chi immagina le carrozze d’allora simili a quelle che si vedevano un trent’anni fa, o come quelle che fanno pompa di sé nel Museo nostro, s’inganna. Erano grandi come queste, a forma di casse aperte ai lati, con sedili. Non avevano molti ornamenti, solo una frangia di seta in cima allo sportello; non vetri, non fanali, non molle; il cocchiere sedeva su una gualdrappa ornata dello stemma della padrona. Dico padrona perché in quel tempo le carrozze, erano adoperate soltanto dalle signore....
Luigi Natoli - Il capitan Terrore
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martedì 21 giugno 2016

Luigi Natoli e la marcia notturna dei soldati francesi


Altri soldati, presi dal contagio s’eran messi a canticchiar anche loro. La cadenza dei passi segnava il ritmo. S’erano accordati, senza volerlo, per istinto, in un coro sommesso, che pareva venisse di sotterra; pareva la voce della terra dolente, che presentiva l’orrore del sangue; la voce della madre che accompagna il figlio lontano, sul quale incombe la minaccia della morte; la voce della gran pace umana lacerata dallo scoppio delle granate e dalle punte della baionette: ed era anche la voce del paese nativo coi suoi ricordi, con le sue care e tenere ricordanze: la chiesa, il campanile alto ad aguglia, la piazza con la farmacia e la mairie, l’officina del maniscalco e del carradore, la scuola, e più in là il mulino; il vecchio mulino dalla enorme ruota, su la quale precipitava spumeggiando l’acqua; e più in là, nell’aperta campagna, l’opificio, con gli alti camini fumanti. V’era in quel canto come l’eco del suono delle campane all’alba e alla sera; l’eco del martello picchiante sull’incudine; del fischio della sirena…
E tenere visioni si ridestavano in fondo alle anime. Chi è là? una vecchietta rugosa, sotto la cuffia dalle bianche ali delle donne di Normandia, o quella graziosa e singolare delle donne di Arles. Ella caccia con la verghetta le oche, che si dimenano sulle zampe gialle, crocchiando… Mamma Ghita?... No, non è Mamma Ghita, è invece un volto roseo di giovanetta, ombreggiato da un largo cappello di paglia infiorato di rosolacci. Ella ride… Forse no, ora non ride più: domanda al portalettere se ha una cartolina illustrata di lui…
Una commozione di tenero rimpianto penetra in quei cuori, mentre le mani stringono le armi omicide.
- Silenzio! – ordinò l’ufficiale.
Anche lui pensava; la visione aveva uno sfondo diverso; ma il sentimento che destava era forse il medesimo.
Luigi Natoli - Alla guerra! - Copertina e illustrazioni interne di Niccolò Pizzorno.
Un inedito di Luigi Natoli - Per la prima volta in libro edito I Buoni Cugini Editori.
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In ricordo di Luigi Natoli

"Se non è immodestia dirlo, coloro che mi hanno seguito attraverso i diciotto o venti romanzi, da me pubblicati su questo giornale, sanno per prova che un certo interesse so trovarlo". - Luigi Natoli
 
I Buoni Cugini Editori ricordano Luigi Natoli, nel giorno del suo onomastico, con questa sua breve ma netta presentazione.  

giovedì 16 giugno 2016

Luigi Natoli e la festa di S. Giacomo apostolo a Messina (25 luglio) - tratto da I cavalieri della Stella.


Cassandra, libera di ogni sogge­zione, lasciandosi trasportare dalla gio­vinezza, cominciò a parlare della prossi­ma cavalcata dei Cavalieri della Stella, che avrebbe avuto luogo il domani.
Per antica consuetudine, il 25 di lu­glio, festa di S. Giacomo Apostolo, si apriva in Messina una gran fiera, che durava fino al 15 agosto, giorno dell'Assunta, e fe­sta solenne della città. La franchigia, che per privilegi reali, godeva Messina in quei giorni, faceva ac­correre mercadanti, industriali, artefici da ogni parte, allettati dalla esenzione di do­gane e di dazi, e di una folla straordinaria di compratori adescati dall'idea del ri­sparmio e della bontà delle compere. La franchigia si estendeva anche alla espor­tazione dei drappi di seta, fiorentissima e rinomata industria in Messina; onde i mercatanti d'Italia venivano a farvi lar­ghe provviste, per l'eccellenza dei tessuti e il vantaggio dell'acquisto. Per questo la fiera di Messina era di­ventata famosa e aveva acquistata im­portanza di grande avvenimento cittadi­no, al quale la città partecipava in forma ufficiale e con la massima pompa.
La mattina del 25 luglio si apriva so­lennemente la fiera, con una grande ca­valcata, in testa alla quale procedeva un giovinetto di famiglia nobilissima, regal­mente vestito, montato sul più bel caval­lo che si trovasse, riccamente bardato. Agitava egli nelle mani uno stendardo, segno della conceduta franchigia. Dietro a lui seguivano i Cavalieri della Stella, nella loro più ricca divisa, accompagnati dai valletti, poi i senatori, nelle loro ric­che toghe, gli ufficiali della città, le milizie.
Era uno spettacolo magnifico per la ricchezza d'ori e di sete, per numero di in­tervenuti, per grandiosità d’insieme, che per le vie principali, donde sarebbe pas­sata la cavalcata, traeva il popolo avido di svaghi e di divertimenti, e orgoglioso della sua ricchezza e dei suoi privilegi. A questo, che era lo spettacolo ini­ziale seguivan poi altri pubblici diverti­menti, fino a che non giungevano i memorabili giorni delle feste dell'Assun­ta, le più grandiose che si celebrassero nell'isola, rivali, per singolarità e dovizia del famoso “festino” di S. Rosalia in Palermo. E feste pubbliche, alternandosi con le private, e i ricevimenti nei palazzi si­gnorili con le serenate a mare, in quelle notti estive bellissime del Bosforo d'Ita­lia, tenevan la città in una febbrile agi­tazione, eccitavan desideri, la gittavano nel mare dei piaceri, tra i quali pareva annegassero i travagli della vita e le asprezze della povertà del regno.
Naturalmente la fiera, le previsioni sulle mercanzie e sul traffico, le feste, le novità dell'anno, i preparativi di nuovi vestiti, il divisar trattenimenti o svaghi, tutto ciò formava ogni anno il soggetto delle conversazioni di ogni casa patrizia o popolana, sebbene quell'anno corres­sero tristi previsioni da quindici giorni innanzi. Ma Cassandra Abate non si curava di queste previsioni, e non pensava che alle feste. E perché infatti era uscita in quei giorni dal monastero, se non per godersi la cavalcata, la fiera e le feste dell'Assun­ta?
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mercoledì 15 giugno 2016

Luigi Natoli e gli emigranti napoletani: tratto da "I mille e un duelli del bel Torralba".


(gennaio 1806) I Collalto avevano ancora tanto da poter vivere con decoro, tra la folla degli emigranti napoletani miserabili e prepotenti che s’era gittata in Palermo.
La città infatti offriva uno spettacolo singolare: per le strade si incontravano piccoli nobili, impiegati dei ministeri e delle aziende dello stato, preti, frati di tutti gli ordini, che fuggiti dietro alla Corte o per fedeltà verso la famiglia reale, o per paura, o per vivere a le spalle altrui, andavano oziosi e pretenziosi; ritenendo che pel loro attaccamento alla causa reale, e perché vittime dell’invasione avevano diritto ad essere mantenuti dai Siciliani. I nobili ottenevano per sé anche le cariche che sarebbero toccate di diritto ai Siciliani; i magistrati si ficcavano nei tribunali; quei fuggiaschi si conducevano come in un paese di conquista; e strappavano alle casse della Sicilia, troppo esauste, oltre a seicento mila lire di nostra moneta, ogni anno per sussidi: somma, per quei tempi enorme, e pel valore del denaro, dieci e più volte maggiore che oggi. E non solo: essi vivevano a spese della Sicilia, e ne occupavano gli uffici, ma alla invadenza e alle usurpazioni, univano il dispregio, per la protezione del re, e segnatamente della regina.
Era nota l’antipatia di Maria Carolina pei Siciliani e per Palermo, di cui arrivavano a calunniare perfino il clima, scrivendo che vi si moriva di freddo e che di marzo c’erano le nevi! Essa in questo nuovo rifugio, se trovò dei nobili che le furono devotissimi e fedelissimi, non ebbe in generale le calde accoglienze del popolo come la prima volta. Così all’antipatia si aggiunse la diffidenza: si circondò di una polizia segreta, a capo della quale pose un Colonnello Castrone, analfabeta, senza scrupoli, ladro, ma abilissimo architetto di spionaggio; che organizzò fra i peggiori emigrati napoletani e francesi e fra i siciliani più laidi o più fanatici, un vero esercito di spie, detti il “Corpo degli svaligiatori”.
La protezione largamente data ai Napoletani, la diffidenza palese contro i Sicilia ni, generavano antipatie e fecondavano i germi della discordia fra gli uni e gli altri.
Anche in Messina vi erano emigrati napoletani ai quali la Corte aveva dato uffici e gradi, negandoli e anche togliendoli ai siciliani. Era la politica del governo che, favoriva tutta quella accozzaglia di gente diversa che non lo aveva saputo difendere, a detrimento di un popolo che gli dava asilo, e le sue sostanze e i suoi uomini per comporre un esercito. Con uno slancio generoso i baroni siciliani si erano infatti offerti a levare milizie nelle loro terre e a mantenerle a loro spese; e in poco tempo si era raccolto un esercito di trentaseimila uomini, comandati dai loro signori feudali; ma questo esercito che non costava nulla al governo, aveva suscitato i clamori e le proteste degli ufficiali napoletani, che percepivano stipendi senza far nulla, mentre le due decine di migliaia di truppe regolari languivano nelle caserme, nude, affamate e senza munizioni. Suscitata la diffidenza della Corte, presentando quella milizia come un pericolo pel re, non si era provveduto a essa, e i baroni erano stati costretti a rimandare i loro vassalli nei feudi. Pure, qualche anno più tardi, furono queste milizie paesane che respinsero uno sbarco di francesi in Sicilia, e salvarono il re dall’invasione.
Coi favori, col denaro profuso verso i napoletani, con lo svalutamento dei siciliani, le perquisizioni poliziesche del colonnello Castrone e del colonnello Colaianni, che vedevano dovunque i nemici della Corona, si scavava un abisso fra i due popoli. I napoletani si conducevano da padroni e ritenevano un loro diritto quel che era prodotto dalla generosa ospitalità; i Siciliani, non soffrivano quell’aria da conquistatori, e ne nascevano urti che alimentavano e creavano quel dualismo nefasto; non ultima ragione dei moti che più tardi scoppiarono in Sicilia.
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Luigi Natoli e i duelli di Fabrizio di Torralba: tratto da "I mille e un duelli del bel Torralba.


Strana vita la sua, che l’obbligava a stare con una spada in pugno. E tuttavia egli riconosceva che non era un attaccabrighe: vivace sì, e insofferente di prepotenze e ingiustizie; e se si batteva gli era appunto per questo. Facendo l’esame della sua vita si trovava già con una ventina di duelli sulla coscienza. Gli ultimi sostenuti a Parigi non avrebbero potuto essere più buffi, salvo uno, con quel capitano Verger che aveva creduto di offrirsi come un successore di Montlimar e aveva suscitato lo sdegno di Rosalia. Fabrizio aveva trovato ingiuriose quelle proposte, il capitano gli aveva detto che non aveva bisogno di lezioni; Fabrizio aveva rimbeccato, ne era corsa una sfida, si erano battuti, il capitano aveva ricevuto un colpo alla testa che lo aveva tenuto per un mese a letto: Fabrizio un colpo al braccio e se l’era cavata in quindici giorni. Ma gli altri duelli? Li passava in rassegna. Una volta si era battuto perché aveva riso al vedere un moscardino con un enorme colletto che gl’imprigionava il mento, e così largo che il capo gli si moveva dentro come la testa di una tartaruga nel guscio. Il moscardino si era fatto rosso come un gambero, lo aveva investito con un “che c’è da ridere imbecille?” al che egli aveva risposto: “rido perché ho trovato uno più imbecille di me”. Il moscardino aveva alzato il bastone a spirale. Fabrizio gli aveva buttato in faccia il vino di un bicchiere, sciupandogli la cravatta, la camicia e il panciotto di seta bianca. E naturalmente si erano battuti. Povero bellimbusto!... ci aveva rimessa un’orecchia, portata via da un colpo di sciabola. Un’altra volta, per un cane. Un signore batteva spietatamente un cane, che non voleva seguirlo perché aveva la testa a una graziosa cagnetta. Egli aveva fermato il braccio di quel signore, dicendogli: – “Oibò! Non è da animo gentile battere così le bestie!” – Quel signore gli si era voltato rabbiosamente: egli, col suo sorriso beffardo, si era scusato: – “non sapevo che foste idrofobo”. – Quello a sentirsi preso per cane lo aveva sfidato lì per lì. Si erano battuti; e Fabrizio lo aveva ferito nella mano, perché si ricordasse di non picchiare più le bestie a quel modo inumano. Un altro duello aveva avuto per difendere un commediante che non godeva le simpatie di una parte del pubblico della Comedie Francaise. Uno spettatore lo interrompeva durante la recita con sghignazzamenti e rifacendogli caricatamente il verso. Fabrizio gli aveva osservato puntamente che non c’era carità a tormentare quel pover’uomo, e quello a rispondergli che se non gli piaceva se ne andasse. Fabrizio aveva ribadito: – “Me ne andrò con voi, signore, per avere il piacere d’insegnarvi la buona creanza”. L’altro, fattosi più arrogante, s’era subito alzato per dare uno schiaffo, che era rimasto in aria perché Fabrizio, più lesto, gli aveva fermato la mano, ripiegandogli il braccio, e costringendolo a schiaffeggiarsi da sé. Erano stati separati, ma il domani si erano battuti: l’avversario, confuso dal giuoco rapido e insostenibile di Fabrizio, gli aveva voltato le spalle, e il ferro di questo lo aveva colpito in una natica. – È il solo posto dove vi si possa colpire!” – gli aveva detto Fabrizio, andandosene.
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Luigi Natoli e la piazza Marina nel 1401 - tratto da "Il paggio della regina Bianca".


La vasta piazza Marina in Palermo era quasi deserta in quell’ora mattutina del mese di maggio del 1401; e l’ampia mole dello Steri vi proiettava un’ombra lunga e trasparente.
In quel tempo, era assai più vasta di quel che è oggi, e serbava ancora le tracce di seno di mare prosciugato. Il porto, ridotto ora alla Cala, era più profondo; le acque del mare si spingevano su un tratto della odierna via Porto Salvo, lambendo quasi il muro del palazzo delle Finanze e un tratto della piazza della Fonderia.
Così detta perché da prima era seno di mare, da più d’un secolo era prosciugata; essa era chiusa dalla parte di mezzogiorno dalle mura della Kalsa, qua e là abbattute, e dalla parte di levante da uno sprone di terra, (ancor visibile nello stereobate su cui sorgono l’Hotel de France, e il palazzo dell’Intendenza,) il quale finiva sulla Cala, con una chiesa, sotto la quale si agganciava la catena da chiudere il porto; dal che la chiesa prese il nome di S. Maria della Catena.
Questo sprone, nei tempi antichissimi formava un molo naturale, difendeva e proteggeva, il porto profondo, a cui la città doveva il suo nome greco: Panormo (tutto porto). Dalla parte esterna, sul mare, al limite del quartiere arabo della Kalsa, e cioè dove ora corre la via Butera, su questo sprone era un borgo di Greci, con la loro chiesa di S. Nicolò. Da loro prese il nome la porta, che, rifatta, serba fino ad oggi il nome di Porta dei Greci.
La piazza Marina era dunque compresa fra questo sprone più elevato, la parte alta della Kalsa, e giungeva fin presso allo sbocco della via del Parlamento, comprendendo la via Bottai e l’area del palazzo delle Finanze; il porto, dal lato ove è la chiesa di S. Sebastiano, penetrava ancora un po’ di più, e giungeva fino all’Arsenale, il Tercianatus dei vecchi documenti, che ha lasciato il nome alla piazzetta di Terzana.
Sullo sprone non v’erano edifici notevoli, salvo che lo Steri, l’antica e nobile dimora dei Chiaramonte, accanto a cui la casa men bella dei conti di Cammarata e la chiesa di S. Maria della Catena.
Dietro lo Steri sorgevano la chiesetta di S. Antonio, ancora esistente, e la chiesa di S. Nicolò, or da un secolo circa distrutta.
Le altre case intorno eran piccole dimore, frammezzate da orti e giardini, tra i quali, dalla parte opposta allo Steri, sorgeva nella sua bella architettura ogiva la chiesa di S. Francesco dei Chiovari e accanto a essa si innalzava bruna, massiccia, fiera nei suoi merli, con finestrette simili a feritoie, la torre di Maniace o volgarmente di Manau.
Fra quelle case v’era qualche taverna, sulla cui porta una fronda di alloro rinsecchita serviva d’insegna.
L’erba cresceva nella piazza; e delle capre dal pelo lungo e dalle corna lunghe, a spirale, pascolavano tranquillamente.
L’odore delle alghe marine, deposte sulla riva dall’alterna vicenda dei flutti, impregnava l’aria silenziosa.
Fra le barche tirate a secco alcuni marinai col berretto rosso in capo, come si vedono ancora nel promontorio sorrentino, stendevano le reti al sole; da un focolare improvvisato con due sassi, si levava una spirale di fumo azzurro, che si allargava e si sperdeva in alto.
Oltre le barche, nel vasto specchio d’acqua del porto si scorgevano alcune galee e barconi e feluche; qualcuna aveva già spiegate le vele e si accingeva a prendere il largo. Più in là ancora il Castello a mare distendevasi con le sue torri massicce, l’ampia cortina merlata, armata di bombarde, accanto alle quali, si vedevano biancheggiare le grosse palle di pietra.
Più in fondo ancora Monte Pellegrino disegnava nel cielo la sua massa rocciosa, coi fianchi verdeggianti di boschi, e le cime indorate dal primo sole.
V’era una gran pace, una tranquillità dolce e solenne a un tempo nell’aria fine e trasparente, per la quale volteggiavano stormi di rondini, salutando il sole con piccoli gridi festosi.
Luigi Natoli - Il paggio della regina Bianca
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giovedì 9 giugno 2016

Luigi Natoli e il fantasma di donna Costanza - tratto dal romanzo l'Abate Meli

Una casa a un piano, con tre bal­coni ornati di un motivo settecente­sco, e con le ringhiere di ferro, a col­lo di cigno; con un mascherone satire­sco nel portone logoro e spento; coi muri anneriti dal tempo e dalla muffa, con un aspetto lugubre, diffondeva la sua tristezza nella strada che prendeva il nome dal palazzo dei marchesi Lun­garini.
I vetri rotti, gli scuri serrati, i ragna­teli che si stendevano nell'arco del por­tone, tra i ferri della raggera sovrappo­sti ai balconi, rivelavano l'abbandono in cui la casa era lasciata.
Lo stesso abbandono mostravano due o tre alberi che si alzavano dietro il muro di un giardino inselvatichito.
Non un segno di vita.
Il sole stesso, che la illuminava di sbieco e per poche ore, pareva avesse fretta di andarsene; perché la sua luce, facendo meglio apparire le crepe e i bu­chi, accresceva l'orrore di quella casa.
L'ombra e il silenzio eran quelli che gli convenivano. Si sarebbe detto che, per qualche delitto commesso in tempi remoti, sentisse sopra di sè il pe­so di una terribile maledizione; per cui la gente la fuggisse con terrore.
La gente del vicinato la guardava pavida e sospettosa; e quando era co­stretta a passarvi d'innanzi, affrettava il passo, come per paura che qualche essere soprannaturale e diabolico do­vesse uscirne per afferrarla.
Difatti era comune credenza che quella casa abbandonata dagli uomi­ni fosse abitata da spiriti; e c'era chi affermava di aver veduto una notte at­traverso le fessure errare un lume; chi curioso, si era arrampicato sul muro del giardino; di là era balzato sul bal­cone, e aveva posto l'occhio alla vetra­ta; ma era subito fuggito e così spaven­tato, che per poco non era precipita­to giù.
Aveva veduto una «malombra» tut­ta bianca, con una candela accesa in mano, che veniva verso la vetrata. Era spaventevole.
La notizia si sparse subito: l'uomo fu interrogato, se ne volevano i parti­colari; ma egli non poteva e non sapeva dir altro che la «malombra» aveva la faccia nera, ed era tutta avvolta in un lenzuolo bianco.
La curiosità vinse altri: ma la paura li trattenne dall’andare sui balconi a guardare. Quelli che abitavano nelle case di fronte, e che mai si erano accor­ti di lumi od altro, forse perché anda­vano a letto prima che il fantasma ap­parisse, vegliarono, e dalle loro fine­stre socchiuse tennero gli occhi sulla casa sfitta.
A mezzanotte videro le imposte del balcone aprirsi lentamente e nel qua­drato buio della stanza la «malombra» bianca, che dileguò a poco a poco.
Non vollero vedere altro. Si segna­rono, recitarono degli scongiuri e il do­mani confermarono che nella casa v’erano gli spiriti: e li avevano veduti.
Allora si cercò come e donde vi fos­sero venuti: uno dei più vecchi della contrada disse:
- Non vi scervellate. Quella è l'anima di donna Costanza, che fu uc­cisa e morì sul colpo, saranno cin­quant'anni addietro. Fu uccisa dai fra­telli per vendetta dell'onore offeso...
Luigi Natoli - L'Abate Meli.
 
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Il volume comprende, oltre il romanzo, lo studio critico su l'Abate Meli pubblicato da Luigi Natoli nel 1883 e tutte le poesie del Meli inserite da Luigi Natoli nel trattato Musa siciliana. Traduzione in italiano di tutte le poesie a cura di Francesco Zaffuto.
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Luigi Natoli e la festa della Madonna Assunta alla Parrocchia dei Cappuccini di Palermo - tratto dal romanzo l'Abate Meli.

Allo svolto della strada che condu­ceva ai Cappuccini, la folla era più fitta. Delle baracche cucinavano, delle altre facevano focaccie, qui una tenda vendeva dolciumi, lì una tavoletta esponeva Madonne di argilla, coricate con le mani stese ed aperte, vestite di bianco col manto azzurro; grandi e pic­cole; più in qua l'«incatena corone», torcendo i fili di ottone intorno ai gra­ni del rosario; e fra tutti, le piccole ba­re, con madonne di cera, illuminate, portate da quattro ragazzi che gridava­no con le vocine squillanti: «viva Ma­ria». Ma su tutto ondeggiava un odore di fritto, tra il fumo delle padelle, nel­le cucine improvvisate.
Fra questa folla varia e multiforme andava il Meli discorrendo col giova­ne che gli camminava a fianco.
Chiacchierando così, e scansando il continuo andirivieni, erano giunti al convento. La folla era più fitta e biso­gnava fermarsi. Dalla croce di legno, alta sopra uno zoccolo, fino a quella specie di portico pieno zeppo di... mi­racoli o «ex voto», dipinti da pittori da strapazzo, la gente si ammassava. La chiesa era piccola e non c'entrava tut­ta; gran parte sostava. Un frate racco­glieva l'elemosina.
Eppure in quel viavai di gente alle­gra, in mezzo a quel cicaleccio, a quel­le grida continue, nel convento un uo­mo moriva. E aspettava con l'ansia di chi teme di non fare in tempo.
Il convento piccolo e all'aspetto po­vero, si mostrava aderente alla chiesa; alto due piani, con le finestrelle picco­le; e sovrastava alle famose sepolture o catacombe, ove i cadaveri, ridotti in scheletri vestiti di sacco o di roboni, stanno schierati in più ordini. Spetta­colo triste e nel contempo riprovevole e ridicolo dell'uomo, in atteggiamenti, che tolgono all'onestà della morte ogni grandezza ed ogni profondità di mistero. Ma in quei tempi, pareva ren­dere ai vivi l'orrore della vita, con lo spettacolo orrendo di quel che diverremo: ossa e null’altro. L'illusione che sotto la pietra e dentro la bara, il cor­po rimanga intatto, si distrugge; le os­sa sono tutte simili e noi non ricono­sciamo le fattezze amate nei sogghigni dei teschi.
Il Meli attraversò il portico dinanzi la chiesetta, piegò la testa, vedendo nella navata l'immagine della Madon­na, coricata fra le candele accese; e salì le scale del convento.
Era quasi deserto. La festa chiama­va i frati nella chiesa e nella cucina: so­lo qualche vecchio con la barba bianca e lunga errava nei corridoi.
Il giovane Gerlando, si fermò di­nanzi una porta socchiusa e bussò...
Luigi Natoli - l'Abate Meli.
Prezzo di copertina € 25,00 - pag. 725 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Il volume comprende, oltre il romanzo, lo studio critico su l'Abate Meli pubblicato da Luigi Natoli nel 1883 e tutte le poesie del Meli inserite da Luigi Natoli nel trattato Musa siciliana. Traduzione in italiano di tutte le poesie a cura di Francesco Zaffuto.
Nella foto: la Madonna Assunta che si venera nella Chiesa dei Cappuccini di Palermo. La festa che ci descrive Luigi Natoli viene celebrata ancora oggi, il 15 agosto.
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Luigi Natoli e Giovanni Meli detto l'Abate - tratto dal romanzo l'Abate Meli.


Un giorno prima, e cioè la vigilia dell'Assunta del 1795, don Giovanni Meli, se ne stava nel suo studio mode­stamente arredato scartabellando un volume di medicina per una consulta che doveva fare. Era medico.
In quel tempo abitava una casa die­tro il coro della Chiesa dell'Olivella, casa modesta, dove erano vissuti suo padre, sua madre, due zie che erano morte, e l'avevano lasciato con due fra­telli, Stefano e Tommaso che si era fat­to frate nei domenicani e una sorella pazza.
Giovanni era il dotto della fami­glia, e il suo nome era famoso in tut­ta la Sicilia, come quello di un gran poeta.
Era un uomo di circa 50 anni, di statura media, bruno di volto, coi ca­pelli quasi neri, con parecchi fili d'ar­gento tirati indietro e legati con un na­stro, gli occhi nerissimi, vivaci; un'aria modesta, non curante di sè, ma pulita. Vestiva di nero, alla guisa degli abati ed infatti lo chiamavano «l'abate Me­li». Ma non lo era, anzi non era nep­pure chierico, nè aveva i quattro ordi­ni e la tonsura, che prese l'ultimo an­no di sua vita per ottenere l'abazia che non ottenne. Era semplicemente il «dottor Meli», e si vestiva da abate per avere libero accesso nei monasteri, do­ve non si entrava, se non si appartene­va alla Chiesa, in un modo qualunque.
Di tanto in tanto in quella che scar­tabellava, guardava, pensando, nella parete, di contro, ove era una libreria con pochi volumi di medicina e molti di letteratura.
In quegli sguardi forse c'era un pen­siero medico, per la consulta che dove­va farsi, o piuttosto c'era un'immagine poetica che egli perseguiva e che si frammezzava alla medicina?
Luigi Natoli - L'Abate Meli.
Prezzo di copertina € 25,00 - pag. 725 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Il volume comprende, oltre il romanzo, lo studio critico su l'Abate Meli pubblicato da Luigi Natoli nel 1883 e tutte le poesie del Meli inserite da Luigi Natoli nel trattato Musa siciliana. Traduzione in italiano di tutte le poesie a cura di Francesco Zaffuto.
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mercoledì 8 giugno 2016

Luigi Natoli - Ferrazzano e Floristella: tratto da Ferrazzano


 
- Floristella? ma si chiamava così se non sbaglio la piccola di Anna Consalvi. Una volta ella ne parlò, non ricordo più in quale occasione… E ora è fuggita… Con chi? E perché s’è rivolta a me per lasciarmi la sua creatura?... Ma domani ci penserò io!... Oh povero pulcino, e che ti darò io di pappa? perché tu avrai fame, me ne accorgo…
Tenendosi in braccio la bambina si diede a rovistare la casa. Non erano che due stanze quasi nude, con un letto, una tavola, un armadio, due ceste e tre sedie: e poi vesti alla rinfusa sulle sedie, sul letto, per terra; nell’armadio trovò un tozzarello di pane, lo porse in mano alla piccina, che lo mise in bocca: aveva quattro dentini.
Tutta la notte pensò e sognò la bambina; la portava all’ospedale degli esposti; la raccomandava al Governatore; non la consegnassero a nessuno, salvo che a lui, che verrebbe a ritirarla  quando avesse sette anni compiuti. Ma il mattino cominciò col darsi attorno in cerca di latte; poteva stare la piccola senza nutrimento, fino a quando l’avrebbe portata ai trovatelli? Ai trovatelli non si recò, e così passò il giorno; e passarono altri giorni di seguito; passarono dei mesi; finì che Ferrazzano tenne ed allevò come sua la piccola esposta. E a chi gli domandava donde gli fosse venuta quella bambina, rispondeva:
- Me l’ha data mia moglie.
- Come? Se tu sei scapolo?
- Domandate a Floristella.
Domandavano a lei di chi fosse figlia, e la piccola si stringeva a Ferrazzano con affetto filiale. Così vissero; Ferrazzano tacendo rigorosamente quanto si riferiva alla origine di Floristella, Floristella credendosi realmente figliuola di Ferrazzano. A otto anni ella calcò per la prima volta le tavole del palcoscenico: fu un prodigio. Si trattava di una particina di fanciulletta, e Floristella la sostenne con tanta padronanza di scena e disinvoltura di linguaggio, che alla fine riscosse interminabili ed entusiastici applausi del pubblico e degli attori. Ferrazzano, che di mala voglia aveva acconsentito a far recitare la sua pupilla, chè non voleva assolutamente che si desse al teatro, dovette chinare il capo innanzi alla febbre che si impossessò di Floristella. Così divenne attrice, e da un anno faceva le parti di ingenua con la nuova compagnia messa su dal Minniti. Intanto ella aveva con Ferrazzano girato un po’ per l’Isola, dove c’era una festa religiosa e un magazzino disposto a mutarsi in teatro.
Quel giorno ella se ne stava quasi dinanzi la porta, e pareva che aspettasse qualcuno. Pensieri torbidi le offuscavano la mente; si vedeva dal corrugare degli occhi che pareva non avessero requie. A un tratto rialzò il capo; aveva visto venire nel quadrato di luce la figura di Ferrazzano...
Luigi Natoli - Ferrazzano.
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Luigi Natoli e il teatro dei Travaglini - tratto da Ferrazzano.

Era questo detto dei Travaglini o più modernamente dal nome del proprietario, di S. Lucia; dove recitavano le compagnie dei comici; e che poi rifatto, abbellito e prevalso il secondo nome, si adattò a teatro d’opera, rivaleggiando con quello più grande dei musici detto di S. Cecilia; finchè ingrandito prese il nome di Carolino; e fu il solo e glorioso teatro d’opera di Palermo, anche quando, mutato il regime, fu intitolato al nome imperituro di Bellini. Allora, nel 1775, era un piccolo teatro che di fuori non annunziava punto che nascondesse una sala da spettacoli. Una tettoia difendeva la porta sulla quale una tabella di legno portava dipinto lo scritto: “Teatro di Travaglini”; un corridoio senza luce, umido, con le pareti grommose, conduceva all’ingresso del teatro, in fondo a un breve spazio. Una sala capace di trecento persone e tre file di palchi; non vi erano poltrone, che allora non si usavano, ma sedie numerate; una grande lumiera pendeva dal soffitto. Di giorno bisognava abituarsi al buio per potersi movere e non inciampare in qualche sedia, ma di sera si illuminava e si vedeva bene la fioritura delle belle vesti e la bianchezza delle carni sull’addobbatura rosso cupo dei palchetti. L’illuminazione era a cera nella lumiera e nei trionfi dei palchetti, ad olio sul palcoscenico. Il quale era più tosto angusto; aveva in giro gli stanzini degli attori, piccoli e malmessi, alcuni, invece di porta, erano difesi da una tendina; gli uomini stavano da una parte in tre stanzini comuni, le donne in due, pochi stanzini erano privilegiati. L’attrezzatura si componeva di tre o quattro scene con le rispettive quinte; le scene erano arrotolate in alto e trattenute da corde che penzolavano da un lato.
In quel tempo vi agiva una compagnia condotta da un siciliano, che godeva grande opinione di buon attore, e recitava nelle parti di padre nobile: si chiamava Domenico Minniti, era nato per così dire in teatro, perché era figlio di comici. I suoi attori erano siciliani, ma il “Tiranno” e la moglie erano napoletani, Antonio Zardo e Giuliana Buzelle, che in arte recitava da Beatrice. Era quasi tutta una famiglia, chè fra loro erano imparentati: padri, madri e figli recitavano o prendevano parte della compagnia come attrezzisti o trovarobe.
Luigi Natoli - Ferrazzano.
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