venerdì 29 gennaio 2016

Gli inediti di Luigi Natoli: Alla guerra! Pubblicato per la prima e unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia rivive oggi, a cento anni di distanza per la prima volta in unico volume.


pag. 954 – A distanza di cent’anni esatti, e in occasione del centenario della prima guerra mondiale, rivive oggi questo romanzo di Luigi Natoli. Mai pubblicato in libro, oppure a fascicoli rilegati, apparve per la prima e unica volta in appendice alle pagine del Giornale di Sicilia in 204 puntate dal 19 ottobre 1914, Alla guerra! “è il romanzo della guerra contemporanea; è la storia ravvivata dalla fantasia coloritrice dell’artista; è la visione di ciò che imperfettamente, affrettatamente, succintamente, e spesso contraddicendosi, comunica il corrispondente telegrafico; è l’episodio, è il gesto umano, l’interpretazione dell’anima, la visione della tremenda realtà, dello scatenarsi di tutti gli istinti belluini primitivi, del fiorire di tutti i sentimenti più generosi e più gentili; dell’eroismo feroce. Ed è anche la storia del grande conflitto europeo, vista in quello che ha di più sicuro, di accertato, scevro dalle esagerazioni e dai vilipendi.
Alla guerra! si svolge intorno a una dolce ed eroica storia d’amore, che per la drammaticità degli episodi, ora teneri e appassionati, ora eroici o tragici, affascina il lettore, ne incatena l’attenzione, ne desta l’interesse; lo fa palpitare, esultare, vivere coi personaggi, attraverso questo grande, immenso incendio che devasta mezza Europa”.
Luigi Natoli scrive un romanzo dal respiro universale che inaspettatamente non narra della sua amata Sicilia (luogo di ambientazione di tutte le sue opere), ma di una Francia aggredita, mutilata e orgogliosa che respinge l’avanzata tedesca con eroismo e spirito di sacrificio, aggrappata ai valori intramontabili della Patria, della Famiglia e dell’Amore.
Chi ha detto che “I Beati Paoli” è il capolavoro di Luigi Natoli, forse non ha letto o potuto leggere “Alla guerra!” se lo avesse fatto, ora come allora, probabilmente direbbe “Alla guerra!”.
I Buoni Cugini editori.
 

giovedì 28 gennaio 2016

Ritornano dopo 108 anni dalla loro prima pubblicazione a puntate nel Giornale di Sicilia dal 26 febbraio 1908...


Pag. 960 - Nel 1908 Luigi Natoli pubblicò in 154 puntate sul Giornale di Sicilia I cavalieri della stella o la caduta di Messina. Tutte le successive pubblicazioni del romanzo furono postume e riportano profonde differenze nello stile letterario del suo autore con quella del 1908 che oggi proponiamo fedelmente.
La Sicilia sopportò sempre il dominatore spagnolo con l’animo di rivolta e quasi tutte le città dell’isola si opposero fieramente alle barbarie di quest’oppressore. Anche Messina, dopo Palermo e Trapani, non fu da meno delle altre città, e dal 1672 s’impegnò in una fiera resistenza che per le proporzioni e le ripercussioni che ebbero nella politica europea fu di maggiore importanza delle altre.
Il 7 gennaio del 1679, il viceré conte di Santo Stefano, soppresse la Repubblica di Messina con l’Accademia della Stella, che era una scuola militare di giovani e valenti cavalieri, abolì tutti i privilegi della città, confiscò i suoi beni dichiarandola civilmente morta, fece togliere il capannone, dove si riunivano i cittadini e demolire il Palazzo di città, arando il terreno e cospargendolo di sale affinché non crescesse più nulla.
Così finiva la rivoluzione di Messina che avrebbe potuto conseguire anche l’indipendenza della Sicilia dalla Corona di Spagna e mentre la città dello stretto moriva assassinata, faceva vedere che il colosso spagnolo era con i piedi di creta, segno della sua prossima caduta.
In questi anni di fiera ribellione Luigi Natoli intreccia le vite di personaggi magnifici e immaginari nel rigore di un’attenta ricostruzione storica creando gesta ed eroi che s’imprimono indelebili nella memoria del lettore.
I Buoni Cugini Editori.

Gli inediti di Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni, per la prima volta in libro a 104 anni dalla sua prima e unica pubblicazione in appendice al Giornale di Sicilia.


Fu pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1911 e non ebbe mai i natali come libro; pertanto, tolti quei pochi fortunati che riuscirono a leggerlo più di cent’anni fa, nessun altro ha potuto deliziarsi della brillante inventiva di Luigi Natoli. Questa edizione è la copia fedele di quanto pubblicato sul Giornale ed è impreziosita da una ancor più rara ode a Willelmo I composta dall’autore nell’aprile del 1881. Oggi con grande orgoglio restituiamo queste due opere alla collettività con la stessa valenza che hanno gli inediti, per gli amanti del genio palermitano e per giustizia nei confronti del grande Luigi Natoli, scrittore e storiografo per anni dimenticato.

Quando morì Ruggero II lasciò uno stato potente, temuto, ricco e glorioso. La Sicilia dominava il Mediterraneo e il suo regno si estendeva per tutta l’Italia meridionale fino alle coste settentrionali dell’Africa, dalla Libia alla Tunisia. Tutto questo ereditò Guglielmo I detto Il malo.

Luigi Natoli ambienta Gli ultimi saraceni proprio in questo periodo storico, ricostruendo fedelmente la figura del re Guglielmo I, con tutto il suo potere e le sue debolezze, facendo anche un lavoro storiografico sugli usi e costumi della corte, le sue alleanze, i suoi avversari politici e i suoi innumerevoli intrighi nel precario equilibrio di una Palermo multietnica, dove arabi, normanni, ebrei e popolani del luogo sono costretti a coabitare in un groviglio d’interessi politici-economici, immersi in un coacervo di odio razziale e religioso, che dalle cospirazioni sfocerà in più rivolte per la conquista del potere. In questo scenario Orsello di Godrano inseguirà la gloria, l’amore, la fama, sfidando più volte Guglielmo I, stringendo alleanze basate sui solidi sentimenti dell’amicizia e della lealtà. Un romanzo straordinariamente moderno con una ricostruzione storica perfetta, che serba un finale ricco di colpi di scena inseparabili dalla realtà di un secolo fra i più gloriosi del regno di Sicilia.

mercoledì 27 gennaio 2016

Gli inediti di Luigi Natoli: Squarcialupo, pubblicato per la prima e unica volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 02 febbraio 1924 e che rivede la luce dopo 91 anni per la prima volta in unico volume edito da I Buoni Cugini Editori.


Squarcialupo: pubblicato in appendice al Giornale di Sicilia dal 2 febbraio 1924 rivede la luce dopo 91 anni.
 
La cospirazione di Giovan Luca Squarcialupo, nata da generosi sentimenti, si svolse con mezzi inadeguati e senza un fine determinato; ma con questa dello Squarcialupo comincia la serie delle sommosse, delle cospirazioni, delle rivoluzioni contro la Spagna, segno di irrequietezza per la perduta indipendenza della Sicilia.

Così scriveva Luigi Natoli nel suo Storia di Sicilia, di questo eroe siciliano che aveva a cuore le sorti della sua terra dominata dal ferro spagnolo.

Giovan Luca Squarcialupo fu il primo ad impugnare le armi per cacciare l’invasore dall’isola e sognò una repubblica democratica. Di lui e della sua opera, non è rimasto nulla che lo ricordi ad eccezione di una lapide e una via nel centro storico di Palermo che porta il suo nome.

Fra storia e leggenda Luigi Natoli con pseudonimo di William Galt, ricostruisce la figura di Squarcialupo e di una Palermo dei primi del 1500, martoriata dall’inquisizione, dal giogo dei dominatori spagnoli, dalle rivalità interne fra le baronie siciliane.

Apparso unicamente in appendice al Giornale di Sicilia a partire dal 2 febbraio 1924, è oggi per la prima volta pubblicato in libro e restituito alla collettività, ed ai lettori amanti delle opere di Luigi Natoli che hanno atteso novantuno anni prima di poterlo avere nelle proprie librerie accanto agli altri immortali capolavori usciti dalla sua feconda vena creativa.

L’editrice Gutemberg che per prima pubblicò i romanzi di Luigi Natoli definiva “eletta ed altamente appassionante la lettura dell’opera del grande e geniale William Galt” e concludeva con l’esortazione a diffondere questi romanzi ed a “fare opera da vero siciliano, perché tutti devono conoscere la storia e devono sapere che non esistono solo uomini di mafia e di prepotenza; ma anche uomini di cuore che sanno sacrificarsi e proteggere i deboli”.

Giovan Luca Squarcialupo fu uno di questi.

martedì 12 gennaio 2016

Luigi Natoli nel romanzo Chi l'uccise - La rivoluzione del 12 gennaio 1848


All’alba del 12 poca gente disarmata uscì curiosa per le strade; un certo Vincenzo Buscemi, vedendosi il solo armato, credette ad un tradimento, e tirò la prima fucilata.
Sopraggiunsero altri nella piazza della Fieravecchia e fra essi Giuseppe La Masa armato, venuto da due giorni nascostamente da Firenze, che cominciò ad esortare i convenuti. Giovane, di bell’aspetto, con una pronuncia toscaneggiante, ignoto a tutti, fu creduto uno dei capi venuto dal Continente. Allora il giovane avvocato Paolo Paternostro, salì sulla fontana che orna la piazza, ed arringò la folla che si veniva facendo. Si gridò Viva Pio IX! Viva l’Italia! Viva la Sicilia!  Il La Masa scrisse un breve proclama, in nome di un Comitato provvisorio della Piazza d’armi della Fieravecchia, e improvvisò una bandiera legando un cencio bianco uno rosso e uno verde a una canna. Ma Santa Astorina, moglie di Pasquale Miloro, uno degli accorsi, portò una bandiera e coccarde tricolori preparate dal marito nella notte. Si cominciarono a sonare le campane a stormo. Gli insorti erano qualche centinaio e si divisero a squadre; avvenne uno scontro contro la cavalleria, e vi trovò la morte Pietro Omodei, il primo cittadino caduto. Se il Comando non avesse ritirato le truppe, avrebbe potuto troncare i pochi insorti, ma memore del 1820, forse temendo imboscate, non osò prendere una vigorosa offensiva, e segnò la sua condanna.
Un vero Comitato provvisorio della Piazza d’Armi, fu costituito in piazza Fieravecchia coi nomi del La Masa, di Giuseppe Oddo-Barone, barone Bivona, di Tommaso Santoro, di Salvatore Porcelli, di Damiano Lo Cascio, di Sebastiano Corteggiani, di Giulio Ascanio Enea, di Mario Palizzolo, di Pasquale Bruno, dei tre fratelli Cianciolo, di Giacinto Carini, di Rosario Bagnasco, di Leonardo Di Carlo, del principe di Villafiorita, di Giovanni Faija, di Rosolino Pilo, dei fratelli d’Ondes; ai quali poi si aggiunsero Salvatore Castiglia, Filippo Napoli, Ignazio Calona, Vincenzo Fuxa, il principe di Grammonte e qualche altro.
Il giorno dopo cominciarono ad arrivare le squadre dei dintorni, e si ripresero i combattimenti per espugnare i Commissariati e i posti avanzati, come quelli delle Finanze e della vicina gendarmeria. Intanto, essendo necessario provvedere ai bisogni della città e della rivoluzione, fu convocata, dal pretore marchese di Spedalotto, la municipalità con l’intervento dei membri del Comitato della Fieravecchia e di altri cittadini, e si convenne la costituzione di un grande Comitato, diviso in quattro Comitati minori, uno per la guerra e la sicurezza, presieduto dal Principe di Pantelleria, il secondo per l’annona, presieduto dal Pretore, il terzo per raccogliere le somme, presieduto dal marchese di Rudinì, il quarto per le notizie, la stampa, la propaganda, presieduto da Ruggero Settimo, il quale fu posto anche a capo del Comitato generale, con Mariano Stabile segretario. Si istituirono inoltre ospedali pei feriti nella Casa Professa dei Gesuiti e nei conventi di S. Domenico e Sant’Anna; il fiore dei medici offerse l’opera sua, gratuitamente. Due Commissioni, delle quali una di donne, attesero alla beneficenza.
Le truppe regie, al comando del maresciallo Vial, sommavano a cinquemila uomini.
Il 15 intanto, su otto legni da guerra, giungevano altri cinquemila e più uomini sotto gli ordini del conte d’Aquila, fratello del Re, e del maresciallo De Sauget, che sbarcati al Molo cercarono di spingere  collegamenti col Palazzo reale, ma ne furono impediti dagli insorti. Né altri tentativi, sebbene appoggiati dal bombardamento e dalle artiglierie, ebbero miglior fortuna. Le bombe recavano danni anche agli edifici privati; il 17 una di esse fece divampare un incendio nel Monte di Pietà di S. Rosalia, consumando i pegni della povera gente per oltre mezzo milione di nostre lire: onde i Consoli esteri, che avevano cercato invano di parlare col Luogotenente Generale a rischio della vita, protestarono con pubblico documento.
Intanto gl’insorti si erano impadroniti di alcuni Commissariati, e immobilizzavano le truppe del conte d’Aquila, che lasciato il comandi al Di Sauget, se ne tornava a Napoli per riferire. Il 18, il generale Di Maio invitava il Pretore, marchese di Spedalotto, ad un abboccamento per evitare ulteriore spargimento di sangue. Il Pretore rispondeva sdegnosamente: “La città bombardata da due giorni, incendiata in un luogo che interessa la povera gente, io assalito a fucilate dai soldati, mentre col console d’Austria, scortato da una bandiera parlamentare mi ritiravo, i Consoli esteri ricevuti a colpi di fucile quando, preceduti da due bandiere bianche si dirigevano al Palazzo Reale, monaci inermi assassinati nel loro convento dai soldati, mentre il popolo rispetta, nutre e guarda da fratelli tutti i soldati presi prigionieri, questo è lo stato attuale del paese. Un Comitato Generale di pubblica difesa esiste; V.E. se vuole, potrà dirigere allo stesso le sue proposizioni”.
Di nuovo il 19 il Di Maio scriveva al Pretore, domandando quali fossero i desideri del popolo, che egli avrebbe subito fatto conoscere al Re, interessandolo frattanto a una sospensione d’armi. Il Pretore, trasmessa la lettera al Comitato e avutane risposta, la comunicava esprimendo essa l’universale pensiero: “Il popolo coraggiosamente insorto non poserà le armi, e non sospenderà le ostilità, se non quando la Sicilia, riunita in general Parlamento in Palermo, adatterà ai tempi quella sua Costituzione che, giurata dai suoi Re, riconosciuta da tutte le Potenze, non si è mai osato di togliere apertamente a questa Isola. Senza di ciò qualunque trattativa è inutile”. Ancora il Luogotenente Generale spediva al Pretore quattro decreti del re Ferdinando in data 18: il Re nominava il conte d’Aquila luogotenente generale, istituiva un Consiglio di Ministri, e richiamava in vigore i decreti del dicembre 1816. Ma i decreti erano respinti, e respinte le proposte del generale De Sauget, al quale si rispondeva che era ben noto il senso delle disposizioni date dal Re, che il popolo “con la sua sublime logica” aveva “inappellabilmente giudicate”. Si ripresero con maggior vigore i combattimenti. Il Comando Generale senza viveri, senza ospedali, senza mezzi, chiuso nella piazza del Palazzo, si vide costretto ad abbandonare la città e mettere in salvo le truppe. E nella notte del 26 il Di Maio, il comandante generale Vial e gli altri generali, precedendo le truppe, fuggirono per imbarcarsi nelle spiagge orientali. Nella marcia le truppe si vendicarono  della sconfitta incendiando villaggi e assassinando; ma inseguite dai contadini, la marcia si mutò in fuga.
Ma prima di andarsene, il Governo borbonico apriva le porte delle carceri e riempiva la città di migliaia di malfattori.
Fra il cadere di gennaio e i primi del febbraio seguente, tutta la Sicilia seguiva il moto di Palermo, e dava mirabile spettacolo di unione, di affratellamento. La nuova coscienza aveva cancellato perfino il ricordo delle antiche gelosie e rivalità.
Luigi Natoli - Tratto da Storia di Sicilia contesto storico del romanzo Chi l'uccise? - Pubblicato nel volume "Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? edito da I Buoni Cugini Editori.
Nella foto: Piazza della Rivoluzione o della Fieravecchia a Palermo.

Luigi Natoli nel romanzo Chi l'uccise? - il Proclama del 9 gennaio 1848


Il mese di gennaio 1848 entrava carico di foschi presentimenti; le agitazioni crescevano, le stampe rivoluzionarie si moltiplicavano; le spie riferivano al Prefetto di polizia che pel giorno 12 tutti sarebbero usciti con coccarde tricolori. Il luogotenente generale Di Maio chiudeva l’Università, rimandando nei paesi natali gli studenti. Ma la mattina del 9 apparvero sui muri, e furon distribuiti e spediti in gran numero nella provincia, foglietti a stampa che contenevano questo memorabile proclama:
 
Siciliani, il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni, Ferdinando tutto ha spezzato; e noi, popolo nato libero, ridotto fra le catene nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i legittimi diritti? – Alle armi, figli della Sicilia! la forza di tutti è onnipotente: l’unirsi dei popoli è la caduta dei re. – Il giorno 12 gennaio 1848 segnerà l’epopea gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quei Siciliani armati che si presenteranno al sostegno della causa comune, a stabilire riforme e istituzioni conformi al progresso del secolo, volute dall’Europa, dall’Italia, da Pio. – Unione, ordine, subordinazione ai capi, rispetto a tutte le autorità e che il furto si dichiari tradimento alla causa della patria, e come tale sia punito. – Chi sarà mancante di mezzi sarà provveduto. – Con giusti principi, il cielo seconderà la giustissima impresa. – Siciliani, alle armi!”
 Questa sfida, che si credette lanciata da un Comitato e stampata dal tipografo Giliberti, era stata ideata e scritta da Francesco Bagnasco, causidico, di sua iniziativa.
Lo stesso giorno si diffondeva un Ultimo avvertimento al tiranno, e con termini energici si invitavano i Siciliani alle armi, pel 12 gennaio. Il Luogotenente Generale allora si scosse, e ordinò arresti; la notte stessa del 9 la polizia arrestò e fece chiudere nel Castello undici cittadini, tra i quali erano Francesco Ferrara, Francesco Paolo Perez ed Emerico Amari. Egli credeva avere posto le mani sui capi; ma a disingannarlo, il domani 10 apparve una dichiarazione firmata da un Comitato direttore che confermando la sfida, dava istruzioni alle squadre cittadine e delle campagne, prometteva capi ed armi, e metteva in guardia i cittadini contro le manovre della polizia.
 
Luigi Natoli - brano di Storia di Sicilia inserita nel contesto storico del romanzo Chi l'uccise?
Tratto dal volume: "Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? - Tre romanzi del Risorgimento italiano" edito da I Buoni Cugini Editori.

Luigi Natoli nel romanzo Chi l'uccise? - il 12 gennaio 1848 a Palermo.


L’alba del dodici gennaio in piazza della Fieravecchia un numero sparuto di cittadini incominciava la rivolta. L’alba era fredda, e il cielo coperto di nubi, gli animi pieni di ansia nel vedere quei venti cittadini intorno a una bandiera tricolore, sparare un colpo di fucile. Era la rivoluzione che cominciava. Due ore dopo erano cento, e i colpi spesseggiavano in vari punti.
Fuori, nella piazza, la gente fremeva e ferveva; ella si affacciò nel balcone, e vide qualche cencio tricolore, e, più in là qualche uomo che incitava altri uomini ad armarsi. Rientrò subito; suo padre si aggirava per le stanze con le mani cacciate nelle tasche, il sigaro spento in bocca, gli occhi fissi sotto le sopracciglia aggrondate. Poi si fermava dietro i vetri del balcone e guardava la piazza, la via, la chiesa del Carmine.
 
...La città lo sorprendeva; barricate nei punti più strategici, squadre, uomini e donne, bandiere dappertutto, e su questa confusione, schioppettate, cannonate, bombe, squilli di tromba, campane. Si battevano intorno alla Piazza Reale, i commissariati, il Castello. Si cercava di rompere le comunicazioni tra il Palazzo Reale e il Castello e il commissariato e la caserma dei gendarmi al Noviziato. Queste notizie Corrado raccoglieva per via; ma la vista degli uomini armati che incontrava a ogni passo, delle squadre che andavano a battersi, delle case scoperchiate dalle bombe, dei feriti che erano portati negli ospedali, tutto questo non destava nel suo cuore la vergogna di essere un estraneo al dovere verso la patria. Egli giovane, vigoroso, che avrebbe potuto essere utile, si sentiva diminuito di fronte a quei popolani che andavano a combattere e a morire per la loro terra.
Luigi Natoli
Disegno di Niccolò Pizzorno
Il romanzo chi l'uccise è pubblicato nel volume "Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? - Tre romanzi del Risorgimento italiano".
 
 

martedì 5 gennaio 2016

Luigi Natoli nel romanzo Latini e Catalani: il re Pietro d'Aragona


Il re giunse poco dopo, con la regina Elisabetta e poco seguito. V’erano Damiano e Matteo Palizzi, il confessore della regina fra Giovanni dei Predicatori, il grande scudiero, il capitano delle guardie, alcuni cavalieri. Tutti a cavallo. Il re era serio, e questa serietà aggiungeva qualche cosa di più triste al pallore malaticcio del volto. Alle parole di benvenuto rivoltegli dal pretore messer Alighiero, rispose breve e secco; prese posto con la regina sotto il grande pallio o baldacchino, di cui ressero le aste i sei giurati, ed entrò in città, preceduto dai cavalieri, dai nobili, dai tamburi della città, fra il pretore e il capitano, senza dire una parola. Agli applausi dei mercanti rispose con un breve cenno del capo; ma corrugò le sopracciglia passando tra la massa del popolo, dalla quale partì qualche sparuto e timido evviva. Il popolo guardava più con curiosità delusa, che con entusiasmo. Sebbene quello scarso seguito, potendo sembrare una condiscendenza alla volontà popolare, dovesse soddisfare gli scalmanati di ieri, tuttavia il popolo s’aspettava di vedere il re con tutto il suo seguito, in tutta la sua volontà imperiosa di sovrano e signore; e quella arrendevolezza, quel cedere al tumulto giudicata una prova di debolezza, che lo spogliava di ogni regalità, scemava con la maestà del re anche l’entusiasmo del popolo.

Anche mastro Bertuchello era andato a vedere l’ingresso e il veder il re, con così poco seguito, da meno di un barone, e più voglioso di giungere alla reggia che di raccogliere gli omaggi dei vassalli, gli fece errare un sorriso ironico sulle labbra. Ma dietro del re v’erano i Palizzi; e Matteo fosco e accigliato guardava il popolo come scontento della freddezza del popolo. Se non che a Bertuchello che lo fissò in volto, in un momento in cui il conte si voltava verso di lui, sembrò scorgergli sulla bocca un sogghigno perfidamente ambiguo.

Luigi Natoli nel romanzo Latini e Catalani: i Chiaramonte.


V’era un’altra grande e illustre famiglia, antica nell’isola da quanto quella dei Ventimiglia, venuta anch’essa di Francia coi Normanni, e che durante la guerra del Vespro, aveva acquistato fama: quella dei Chiaramonte.
Non erano i Chiaramonte così ricchi quanto i Ventimiglia, nè così addentro nelle grazie del re; ma vantavano più alte e più antiche origini. Si dicevano discendenti da Carlo Magno; e la tradizione di questa discendenza, anni più tardi, il più possente della casa, avrebbe fatto dipingere sul soffitto del grande salone dello Steri.
Avevano una fanciulla in casa, Costanza, figlia di Manfredi I, orfana di recente, che il fratel suo Giovanni avrebbe voluto accasare col conte Francesco. L’unione di queste due famiglie significava avere il dominio del regno. Giovanni era più giovane di messer Francesco, ma più ambizioso. Aveva anche lui sostenuto incarichi del re presso la corte imperiale; aveva combattuto con valore contro gli angioini, mirava forse a più alti uffici, ai quali certamente il parentando coi Ventimiglia avrebbe dischiuse o agevolato la via.
Luigi Natoli

Luigi Natoli nel romanzo Latini e Catalani: i fratelli Palizzi.




Poco oltre la metà della strada Celso, che correva lungo le mura settentrionali della città antica, – ancora visibili, – sorgeva un palazzo, detto degli Schiavi. Non si sa l’origine di questa denominazione, al tempo dei Saraceni e dei primi re normanni, quando Palermo serbava ancora la sua forma primitiva, ed era separata con mura e torri dagli altri quartieri sortivi intorno fin dai tempi dei Romani, di là dalla Sere el Kes (via della Calce) diventata per trasformazione la strada del Celso, si stendeva la regione transpapiretana, oggi detta del Capo, il quartiere della Beccheria, quello degli Amalfitani, dei Catalani, e via dicendo. Quella che oggi è la parte bassa del quartiere del Capo, era al tempo dei Saraceni il quartiere degli Schiavi o Schiavoni. Il cadì di questo quartiere abitava nella Sera el Kes. Può darsi che la sua casa fosse appunto quella detta qualche secolo dopo il Palazzo degli Schiavi. Nel 1322 esso apparteneva a due fratelli della nobile famiglia dei Palizzi, Damiano e Matteo, figli di quel Nicolò che aveva eroicamente difesa Messina, nel secondo assedio postovi dagli Angioini, e che a Roberto d’Angiò e a Filippo de Valois aveva dato la memoranda fierissima risposta. La gloria di Nicolò aveva schiuso le porte della reggia ai figli. Damiano era entrato nel chiericato, Matteo era destinato a continuare il casato. Era di poco maggiore età dell’infante Pietro, e ne divenne compagno, consigliere e guida nei sollazzi e nelle avventure.
Nel 1322 Matteo aveva circa vent’anni. Di statura media, bruno, pallido in volto, neri i capelli e gli occhi; non era brutto, ma aveva nello sguardo freddo e tagliente come la lama di un pugnale qualche cosa che agghiacciava il sangue e annullava la volontà. Tutti i lineamenti del suo volto, dal naso lievemente aquilino, al taglio della bocca, dall’ampiezza della mascella alla durezza del mento prominente, dalla convessità della fronte alla ruga che s’insolcava diritta e profonda fra le sopraciglia folte e nere, rivelavano una volontà tenace, una grande ambizione di dominare, violenza, simulazione e insensibilità di cuore. V’era qualche cosa di felino e di volpino.Tutto volpe era invece Damiano, anche negli occhi gialli. Egli aveva quattro anni più di Matteo, sul quale aveva, più che per l’età, acquistato un certo ascendente con la sottigliezza dei suoi suggerimenti, con la ricchezza degli espedienti che la sua mente feconda sapeva trovare per trarsi d’impaccio, con la perfidia tenebrosa de’ suoi disegni. Era anche lui ambizioso, ma non soltanto per sé, anche per Matteo, pel quale aveva una certa tenerezza.
Nicolò non aveva lasciato loro altre ricchezze che la fama: poche terre che non rendevan molto; e che non consentivano a Matteo di sfoggiare come i Chiaramonte, i Ventimiglia, messer Matteo Sclafani, e quei signori catalani, che venuti poveri in Sicilia, s’andavano arricchendo delle terre tolte con la frode, coi tradimenti, colle concessioni regie, agli antichi signori indigeni.
Matteo aveva però trovato nella Corte una protettrice: la regina Eleonora.
La regina Eleonora, moglie di Federigo, era ancora giovane; nasceva di casa Angiò, e veniva da una corte galante; quel giovane freddo, cupo, energico, gli occhi del quale avevano sinistri bagliori, non le destò nessuna avversione: anzi le parve un frutto strano e di sapor nuovo. E fu lei che lo ammise fra i familiari di corte e lo diede compagno all’Infante Pietro; ciò che le dava occasione di vederselo sempre accanto.
Quando l’Infante era ancor fanciullo e Matteo era un giovinetto, ella li confondeva nella stessa carezza: ma le sue mani si indugiavano di più, e con un piacere diverso, sul capo del giovane Palizzi. Pareva che ella aspettasse che il giovinetto crescesse ancora un po’. Il frutto era ancor troppo acerbo. Con gli anni il desiderio si fece in lei più intenso: nel 1322 Eleonora aveva trentanove anni circa: ed era ancor bella.
Luigi Natoli

Luigi Natoli nel romanzo Latini e Catalani: il conte di Geraci.


Messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, vantava sangue regio. Una tradizione di famiglia, che però non è avvalorata da alcun documento, gli attribuiva discendenza dai principi della Casa d’Altavilla: certo le armi dei Ventimiglia erano quelle stesse dei re normanni di Sicilia: lo scudo d’azzurro traversato da una fascia a scacchi alternati bianchi e rossi.
Messer Francesco era uno dei più potenti signori del reame; il suo vasto dominio si stendeva dal mare fino sopra le Madonie.
Al tempo della catastrofe comprendeva una ventina di feudi, Sperlinga, Pollina, Castelbuono, Golisano, Gratteri, Sant’ Angelo, Malvicino, Tusa, Castelluccio, le due Petralie, Gangi, S. Marco, Belici e altre terre minori e casali, lo riconoscevano signore: alla sua casa,per diritto ereditario concesso dai re, spettava l’ufficio di Gran Camerario, una delle sei o sette dignità supreme del regno.
L’amicizia e la protezione di chi gli era largo al re Federigo, che lo aveva incaricato di ambasceria pel papa, e lo aveva dato compagno al principe Pietro nella escursione in Toscana, lo avevano fatto conte di Geraci: i servigi sedi da lui al re e al regno travagliato dalle continue pretensione della corte angioina, la ricchezza, l’ampiezza della stato ne avevano fatto il personaggio più rispettato, più temuto, più invidiato. Non poteva dire di essere amato o di godere salde amicizia. Non se le accattivava. facile agli impeti, violento, instabile nelle relazione, vago di piaceri e di novità, superbo della sua nobiltà, spregiatore degli altri, generoso fino alla prodigalità e nel tempo stesso geloso dei suoi diritti, prode, irriflessivo, era un impasto di buone e di cattive qualità.
Luigi Natoli
www.ibuonicuginieditori.it
 

Luigi Natoli nel romanzo Latini e Catalani: chi era Mastro Bertuchello?


Nessuno, neppur lui sapeva perché avesse questo nome. Era forse un soprannome? Un’ingiuria? Da bambino lo chiamavano Bertuchello; e continuavano a chiamarlo così, ed egli stesso si sottoscriveva “ Mastro Bertuchello” sebbene la sua mamma gli avesse detto che egli era stato battezzato dalla chiesa madre di Geraci, col nome di Giovanni e che a suo padre, Maso Mangialavacca, “borgese” di Geraci, era stato tramandato quel curioso nome da uno zio canonico del duomo di Cefalù.
Luigi Natoli
www.ibuonicuginieditori.it