domenica 30 agosto 2015

Luigi Natoli nel romanzo Il Paggio della regina Bianca: il tesoro di Andrea Chiaramonte.


Il giorno in cui il duca Martino di Montblanc invitò Andrea Chiaramonte a presentarsi al re, fingendo di avergli perdonato, Andrea ebbe un sospetto. Mi chiamò prima di rendersi al convegno, e mi disse: “Filippo, fratel mio, bisogna per ogni buon fine, mettere al sicuro il tesoro: servirà o a continuare la guerra, o a riscattare le terre o a vendicarmi. Nel convento di Baida c’è un forziere, che ho affidato alla custodia di quei frati. Finora essi mi son devoti: ma domani? Va, prendi quel forziere e sotterralo dove tu crederai meglio: eccoti una lettera pel padre guardiano”. Andai subito a Baida; se tu non lo sai, Baida è un colle non molto lontano da Palermo, e poco discosto da Monreale, e domina la vallata; il convento che vi sorge è opera della nostra casa… Andai, presi il forziere, che pesava abbastanza, lo ravvolsi di foglie, e così ravvolto lo nascosi in un sacco, e lo caricai sopra un mulo… Per sentieri fuori mano, con un lungo giro, costeggiando quasi il Parco reale, calai sulla valle dell’Oreto, in un punto che si dice la Guadagna, poco più che mezzo miglio lontano da Palermo… Ivi è una villa della nostra casa, con una torre quadrata ampia e degna, come tutte le fabbriche dei Chiaramonte… Allora non ci era stata confiscata, e quei villani ci erano devoti… Nondimeno non mi fidai; per non destar sospetti, tolsi io stesso il sacco col forziere e lo deposi in un angolo, come se non contenesse nulla… Ma la notte, quando tutti dormivano, presi una zappa e una vanga, uscii dalla torre, e mi avviai per la contrada di Falsomiele, che si stende oltre la valle, fino a monte Grifone. La costa di quella contrada è sparsa di ruderi e stanze di antichi edifici, credo dei Saraceni… Non v’era luogo migliore. Scavai, scavai, feci un fosso profondo; ivi deposi il forziere; lo copersi di terra; sulla terra buttai sassi e sterpi, per celare che era stata smossa, e tornai alla torre, senza che alcuno se ne avvedesse… Il forziere è ancor lì; nessuno ha potuto scoprirlo. Va, dunque, figliuolo, e restituisci alla casa dei Chiaramonte il suo splendore…
Nella foto: villa dei Chiaramonte alla Guadagna, denominata poi Torre dei diavoli, oggi non più esistente.

Luigi Natoli nel romanzo Il Paggio della regina Bianca:il tradimento del duca di Montblanc e lo sterminio dei Chiaramonte.


Tu eri ancora un fanciullo quando avvenne la catastrofe della tua casa… Forse non sarebbe avvenuta, e tu saresti il primo barone del regno, se Andrea avesse accettato le offerte del duca di Montblanc… Tu ignori che il padre del re desiderava destinarti marito della figlia di don Ferrante Lopes de Luna, una cugina del re… Andrea rifiutò per non imparentarsi con lo straniero… Dio gli perdoni!... Egli credette nella concordia dei baroni convenuti a Castronovo; credette che in tutti fosse vivo e potente il sentimento dell’indipendenza del regno… e i baroni lo tradirono… Forse tu sai quel che ne seguì: la guerra, le persecuzioni, il tradimento. Andrea si sottomise, ebbe fede nella lealtà del vecchio Martino, e il vecchio Martino finse di perdonargli e di accoglierlo, e lo gittò nelle mani del boia. C’era chi lo istigava… c’era chi voleva la rovina del conte…

Dopo la morte di Andrea, venne la volta dei parenti. Uno di essi cercò uno scampo nella fuga, inseguito come un lupo di borgo in borgo, per valli, per monti… Egli aveva dinanzi agli occhi la visione della scure lampeggiante in aria… del capo reciso e sanguinante preso pei capelli… e dietro, alle calcagna, una muta di cani anelanti di strage, sitibondi di sangue… Era così giunto a Messina. Sperava di trovavi una feluca, una galea, una barca, per recarsi a Napoli e invocare la protezione di Costanza… Ma ecco la feroce muta sopraggiungere, gridando: “Eccolo! eccolo!... Morte al Chiaramonte!... Morte al traditore!”. Quell’uomo ebbe il tempo di balzare in sella, e fuggire, senza saper dove, trasportato dalla furia del cavallo, che pareva impazzito anch’esso… Un istante che avesse indugiato, egli sarebbe stato preso, e, forse, fatto a pezzi… perché alle grida dei suoi inseguitori s’era adunata a un tratto anche una folla minacciosa. Ah! quella fu una fuga incredibile, terrificante… Il cavallo non sentiva più il freno, e la mano non aveva più coscienza per governarlo… Volavano su per un sentiero selcioso, che sfavillava sotto le zampe… Il sentiero saliva; portava in una montagna? chi lo sapeva? né cavallo né cavaliere vedevano… Il cavaliere si accorse improvvisamente che dinanzi a lui la roccia finiva e si spalancava il vuoto mostruoso, immenso… Ebbe la coscienza del pericolo, tentò arrestare la furia del cavallo, ma invano. La bestia infellonita e cieca spiccò un salto… Un grido!... cavallo e cavaliere sparvero: un gran tonfo, le acque del mare si apersero, spumeggiarono, si richiusero sopra di loro…
 
Sono Filippo Chiaramonte… Da questo eremo, per mezzo di questi buoni pastori, io potei sapere quel che avveniva, e rintracciare qualcuno della nostra casa… Così ho saputo che tu vivevi. Da quando seppi ciò, e seppi che tu eri povero, solo, prigioniero, io ho pregato Dio di farmi viver fino a che avrei potuto vederti e parlarti… Dio mi ha fatto questa grazia… che Egli sia benedetto!…

venerdì 21 agosto 2015

Luigi Natoli nel romanzo: Il Paggio della regina Bianca: Giovannello Chiaramonte, orfano di Andrea.


Il re, dunque, aveva affidato a messer Guglielmo Ventimiglia barone di Ciminna, la custodia di Giovannello Chiaramonte, orfano di Andrea, ultimo erede del gran nome, senza stato, senza avvenire, senza speranza. Dopo la caduta del padre, il fanciullo era stato strappato alle cure materne. La madre, madonna Isabella, era stata costretta a chiudersi in un monastero; egli fu dato al capitano di Catania; parendo forse al vecchio duca di Montblanc, atto di crudeltà, imprudente, impolitico, far uccidere per mano del boia un fanciullo innocente.
Il capitano di Catania si condusse col piccolo orfano, come presso a poco, parecchi secoli dopo si condusse mastro Simon col Delfino di Francia. La sua educazione, o meglio la sua tortura doveva avere lo scopo di fargli dimenticare la sua origine e la tragedia che aveva distrutto la sua famiglia. Il capitano di Catania, che forse aveva dei peccati da farsi perdonare dal re, adempiva al suo ufficio con soverchio zelo: il che sollevò qualche rimostranza nei signori, che alla fine vedevano in quelle torture una offesa alla loro casta.
Dopo la partenza del vecchio duca di Montblanc pel trono d’Aragona, qualcuno suggerì a re Martino di addolcire il regime di educazione di Giovannello Chiaramonte. E allora il re lo diede alle cure di messer Guglielmo Ventimiglia, che nella sua qualità di parente, poteva dar colore più umano alla prigionia.
Al filo di ferro aveva sostituito un filo d’argento; ma la prigionia non mutava. (www.ibuonicuginieditori.it)
Nella foto: IV di copertina del romanzo Il paggio della regina Bianca edito da I Buoni Cugini Editori. Disegno di Niccolò Pizzorno.

Luigi Natoli nel romanzo: Il Paggio della Regina Bianca: Martino, duca di Montblanc e Martino il giovane.


Martino, duca di Montblanc, bieco, crudele, avido, era uno spirito politico acuto e scaltro, che pur di raggiungere uno scopo, non si arrestava dinanzi ad alcun mezzo, per tristo che fosse. Egli possedeva la scienza dello stato, che doveva più tardi trovare la sua perfetta espressione in un suo conterraneo, Cesare Borgia. Aveva da lungo veduto il trono di Sicilia quasi vuoto.
Non vi sedeva che una giovinetta, Maria, figlia di Federico III, regina di nome, ombra di un potere che era esercitato da quattro potenti baroni, i quali col titolo di vicari s’eran diviso il regno di Sicilia e vi governavano da signori indipendenti: il che aveva immerso l’isola nell’anarchia.
Ridare alla regina la sua autorità, sottomettere il baronaggio, reintegrare il governo poteva apparire come una salvazione. Bisognava però avere il diritto di intervenire. Guglielmo Raimondo Moncada, uno dei quattro Vicari, venuto in discordia coi colleghi, fingendo di liberare Maria dalla soggezione in cui la teneva Artale Alagona, rapì la regina e la diede al duca di Montblanc, che ne fece la moglie del suo giovanissimo figlio Martino: e allora padre e figlio vennero in Sicilia con un forte esercito, e più coi raggiri che col valore, a poco a poco sottomisero il regno; e col supplizio di Andrea Chiaramonte nel 1392 posero fine alla indipendenza del regno e all’anarchia baronale.
Martino il giovane fu riconosciuto re: ma era troppo giovane per reggere il regno; e Maria, sebbene assai più matura d’anni, era troppo semplice e troppo malata per guidarlo. Di fatto regnò il vecchio duca, finchè la morte del re d’Aragona non lo chiamò a succedergli.
Dinanzi agli occhi del re Martino il giovane si rinnovava la visione della tragedia chiaramontana.
Egli stava col padre a una finestra dello Steri; la piazza Marina era gremita di popolo che gli arcieri e i picchieri catalani a stento frenavano, perché non invadesse il palco sul quale il boia, appoggiato alla scure larga e luccicante aspettava le vittime.
Poi dalle prigioni del palazzo uscì il corteo. I confrati col cappuccio, le guardie, il carro; e nel carro, diritti, fieri, Andrea Chiaramonte e Antonio delle Favare suo segretario.
Il carro giunse ai piedi del palco. Andrea Chiaramonte, sebbene avesse le braccia legate dietro le reni, balzò svelto dal carro, senza bisogno d’aiuto, e montò la scala del palco, senza dar segno di commozione.
Guardò il suo palazzo: i suoi occhi si fissarono sulla finestra e cercaron gli occhi del duca e del re.
Martino sentiva ancora il lampo di quegli occhi, che esprimevano una minaccia lontana; e ne provava un turbamento indefinibile... - Il Paggio della regina Bianca di Luigi Natoli edito da I Buoni Cugini editori. (www.ibuonicuginieditori.it)

Luigi Natoli nel romanzo Il Paggio della Regina Bianca: così mastro Cecco di Naro, il pittore che affrescò il tetto del salone di Palazzo Steri, parlava di Andrea Chiaramonte.


A Palermo tutti serbiamo una devota memoria per quella gran casa. Di là avremmo dovuto trarre i nostri re… e non saremmo soggetti allo straniero!... Tu sei ragazzo, e non puoi capire certe cose; ma ti so dire, che quando decapitarono messer Andrea, non ci fu che la canaglia catalana che n’ebbe gioia. Sfido! don Bernardo Cabrera si pigliava la contea di Modica… un vero stato da re… don Guglielmo Raimondo Moncada le terre e i castelli su quel di Girgenti, don Galdo di Queralt Caccamo e gli armenti, il re i palazzi… Et diviserunt vestimenta mea, come canta il padre lettore il giovedì santo!...
I Chiaramonte non eran gente da aver paura, caro figlio! T’hanno raccontato la guerra del Vespro? Il mio nonno fu alla battaglia di Falconara, e vide che gente gagliarda erano. C’era messer Giovanni il vecchio, cuor di leone e braccio di ferro. Che battaglia!... E l’assalto di Palermo del 1325? Genovesi, Napoletani, Catalani, tutti addosso alla città; ma c’era messer Giovanni per difenderla… E messer Manfredi? Oh non fu il miglior capitano ch’ebbe l’Imperatore Ludovico di Baviera? non gli conquistò tutta la Marca d’Ancona?... Il mio nonno me le raccontava queste storie. Noi siamo di Naro, figliol mio; e Naro era feudo dei Chiaramonte, e fu baronia di messer Matteo, padre di messer Andrea: noi siamo stati vassalli della nobile casa…  Adesso Naro è di messer Guglielmo Raimondo Moncada; ma io… Io vivo qui, in Palermo, libero e padrone di me; e Naro, fintanto che apparterrà a quell’usurpatore, non mi vedrà mai più!...
Messer Bernardo Cabrera non sarebbe diventato signore della più vasta e ricca contea del regno, se Andrea Chiaramonte non fosse stato decapitato perfidamente, sulla piazza Marina in Palermo, dinanzi al suo magnifico palazzo. Messer Bernardo Cabrera ebbe le spoglie del vinto signore, alla rovina del quale egli aveva lavorato.
La presa di possesso gli fu però contrastata dai vassalli. La memoria dei Chiaramonte era troppo viva, e i cuori ancor troppo devoti, per accettare, se non benevolmente, almeno senza ostilità il nuovo signore, che si presentava come un nemico.
 

Luigi Natoli: la storia di Andrea Chiaramonte, uno dei primi eroi a difesa della libertà del Regno di Sicilia.

Il 27 luglio 1377 moriva in Messina il re Federigo d'Aragona e designava erede la figlia Maria, che commetteva alla tutela di Artale Alagona, grande Giustiziere.
Come tutore della giovane regina, Artale divenne di fatto l’arbitro del regno; eppure capì che non sarebbe stato agevole dominare sopra un baronaggio strapotente, che gli avrebbe conteso il governo, e che avrebbe rinnovato gli orrori della guerra civile. Intese che forse questa avrebbe gettato l’Isola nelle mani del re d’Aragona, contro le cui mire egli si era opposto, mostrandosi, sebbene Catalano, geloso della indipendenza del regno. Allora pensò di dividere il Vicariato con i principali e più potenti baroni di Sicilia. Erano essi Manfredi Chiaramonte che aveva ereditato la contea di Modica e tutte le altre signorie del parentado, sicchè era signore di uno stato vastissimo e potentissimo, ed era inoltre Grande Ammiraglio e, di fatto, signore di Palermo; Francesco Ventimiglia conte di Geraci, che aveva sulle Madonie ricostruito lo stato paterno, e vi aveva aggiunto la rettoria di Cefalù e Polizzi; Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta, ricco fra i più ricchi baroni Catalani, imparentato con la casa reale, per avere preso in moglie Eleonora d’Aragona, figlia del duca Giovanni. Artale infine possedeva vasti feudi da Mistretta a Traina, da Aci a Butera e intorno all’Etna; e feudi e capitanerie aveva largito ai fratelli. Ognuno di questi quattro baroni estendeva il suo dominio diretto sopra una zona o provincia distinta. Invitati Artale i principali feudatari in un convegno a Caltanissetta, ed esposte le sue idee, si trovavan d’accordo nell’eleggergli compagni del Vicariato il Chiaramonte, il Ventimiglia e il Peralta. Guglielmo Raimondo Moncada conte d’Agosta, sebbene potente anche lui, tenutosi allora fra Latini e Catalani, non fu eletto. La Sicilia fu divisa per tanto in quattro Vicariati minori; i Vicari sottoscrivevano i loro atti con la formola “una cum sociis vicariis generalibus”; ma l’autorità della Regina, con cui s’intitolavano gli atti, era un nome vano senza soggetto.
Il re Pietro IV d’Aragona, che non s’era acquietato al testamento di Federico III, e pretendeva sempre che il regno di Sicilia toccasse a lui, mandò un’ambasceria ad Artale, il quale ostentando rispetto, la teneva a bada; e intanto mandava segretamente legati in Lombardia per trattare il matrimonio di Maria con Giovanni Galeazzo Visconti, conte di Virtù, purchè si obbligasse a venire con forti schiere a difendere la Sicilia. La proposta fu accolta ed era onorevole, ma gli altri Vicari e molti baroni si risentirono, chè in cosa tanto grave, dovevano essere intesi. E più di tutti, per dispetto, gridava Guglielmo Raimondo Moncada, cui parve giunta l’ora di vendicarsi.
La notte del 23 gennaio 1379, mentre Artale si trovava a Messina, due galeotte s’avvicinavano alla rocca Ursina, dimora della regina Maria; uomini armati vi sbarcavano, e penetrati nelle stanze della Regina la sorprendevano nel sonno. Il condottiero, tratta la giovinetta piangente dal letto, la trasportava fra le sue braccia sopra una delle  galeotte e qui si faceva conoscere. Era il Moncada. La notizia del ratto si sparse: Catania tumultuò, Artale disperato si strappò i capelli, e invano ordinò s’inseguisse il Moncada. Questi lasciata prigioniera la Regina in Licata partiva per Barcellona a mercanteggiare la Sicilia, e metteva Maria sotto la protezione di Pietro, in quale mandava a Licata un Ruggero Moncada del ramo spagnolo.
Tardi s’avvide Manfredi Chiaramonte del tradimento del conte d’Agosta, cui aveva dato mano, e levò milizie per assalire Licata: ma i due Moncada lo prevennero e trasportarono Maria ad Agosta, luogo più munito.
Pietro IV trasmise i suoi diritti al figlio secondogenito Martino, duca di Exerica, come Vicario, purchè costui alla sua volta ne investisse il proprio figlio anch’esso di nome Martino. Poiché l’erede del trono di Aragona, Giovanni, non aveva maschi, la corona sarebbe passata a Martino, e da costui sul figlio, che così sarebbe divenuto re d’Aragona e di Sicilia.
Il duca Martino si dava allora a carezzare i Vicari con lettere, annunziava la sua venuta con la regina Maria, e intanto raccoglieva denari, galere e cavalieri desiderosi di farsi uno stato: ma discordie scoppiate in Aragona fra il re Pietro e il primogenito Giovanni, che Martino dovette sedare, ritardarono il viaggio.
In questo tempo, composti i dissensi in Aragona per opera di Martino, che in premio ebbe il titolo di duca di Montblanc, Maria fu da Cagliari trasportata a Barcellona, e poi nel castello di Montblanc, in attesa delle nozze, che avvenivano nel 1390 appena uscito il figlio Martino dalla pubertà. Di queste nozze dava avviso ai principi e in Sicilia, promettendo il suo non lontano arrivo. Ad agevolarlo, il destino s’incaricava di sgomberargli il terreno. Morivano infatti il conte di Geraci e Artale Alagona, e non molto dopo Manfredi Chiaramonte; il vicariato passava ai figli Antonio Ventimiglia, Blasco Alagona, Andrea Chiaramonte, e degli antichi vicari rimaneva il Peralta. Dinanzi alla minaccia dell’invasione, il 10 luglio 1391, i vicari radunarono a convegno i principali baroni nella chiesa di S. Pietro a Castronovo; giurarono alleanza per procurare l’onore e il servizio della regina Maria, la sua restituzione nel regno, e per respingere qualsiasi principe ed esercito straniero. Uno strambotto popolare serba la memoria del convegno, che cominciato con tanto fervore, finiva dimenticando i patti.
Astuto, raggiratore, fine politico, il duca di Montblanc mandava lettere a questo e a quel barone, in segretezza, con profferte di amicizia, lusinghe, persuasioni: inviava Galdo di Queralt e Berengario Crujllas abili negoziatori e guadagnava consensi fra i borghesi agiati; seminava la corruzione nel baronaggio, e ne fomentava l’egoistico tornaconto. Disgregando il baronaggio, il duca non temeva più una resistenza pericolosa, perché il popolo non lo impensieriva: che non c’era popolo, ma torme di servi nei feudi, e masse senza più coscienza nelle città, che si tenevano estranee alle mene dei baroni.
Raccolto l’esercito composto di milizie proprie e bande feudali, di nobili, di mercenari, di hildaghi spiantati, di masnadieri, di ladroni assolti da pene, e postolo sotto gli ordini del valoroso Bernardo Cabrera, avendo già distribuite ai principali cavalieri le alte cariche del Regno, uffici e privilegi, il duca di Montblanc, col figlio e con la nuora salpò da Port Fangos nei primi di marzo: il 22 approdò a Favignana, ed ivi ricevette l’omaggio di Guglielmo Peralta, Antonio Ventimiglia, del conte di Cammarata e di Enrico Rosso: a Trapani gli fecero onore molti dei baroni convenuti a Castronovo, dei quali congiunse le milizie feudali alle sue.

Solo non vi si recò Andrea Chiaramonte, che rimase a Palermo, dove l’umore non era favorevole ai due Martini. La domenica delle palme l’esercito catalano si schierò sotto le mura della città, che, chiuse le porte, rifiutò d’arrendersi, onde il duca pose l’assedio dalla parte di mezzogiorno. Tra il reciproco bombardarsi, il duca dava il guasto alle campagne e avvenivano conflitti con danno dell’una e dell’altra parte. Nella generale defezione, quella resistenza pareva l’ultima difesa dell’indipendenza del Regno. Gli altri Vicari s’erano dati allo straniero: Andrea Chiaramonte rimaneva solo. Dopo un mese di assedio, crescendo la fame, l’arcivescovo di Palermo e uno dei Giudici andarono a pattuire la resa: Andrea fu assolto e tenuto buono e fedele vassallo: gli altri ebbero l’indulto. Così stabilito, Andrea il 17 di maggio presentavasi ai Reali, e ne era bene accolto. Ma il domani, ripresentatosi con l’arcivescovo per spiegare la sua condotta, il Duca perfidamente lo fece arrestare. Si imbastirono accuse che erano calunnie, e intanto si prese possesso della città, dove i Reali entrarono il 21, tra la freddezza del popolo. Il Duca nominò Bernardo Cabrera Grande Ammiraglio, e Guglielmo Raimondo Moncada, in premio d’aver venduta la patria, Grande Giustiziere.
Andrea fu sottoposto a giudizio, condannato a morte, e decapitato il 1 giugno nella piazza Marina, dinanzi al suo palazzo, donde il duca di Montblanc assisteva. La famiglia fu dispersa: i beni confiscati. I Chiaramonte scomparvero dalla storia.
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Tratta da: Il Paggio della regina Bianca di Luigi Natoli edito da I Buoni Cugini Editori.
 Nella foto: S. Giorgio, dipinto su quello che era l'ingresso principale di Palazzo Steri. Notare come sullo scudo del santo sia dipinto lo stemma dei Chiaramonte.