venerdì 22 maggio 2015

Luigi Natoli nel romanzo Gli ultimi saraceni: Majone da Bari, grande Almirante del regno di Guglielmo I

- Ah! tu non intendi. Or bene sai tu quale sia uno dei godimenti dell’Almirante? Egli scende nelle prigioni delle donne, e così legate e indifese come sono, le disonora!...

Grande Almirante, capitano, favorito della regina Margherita a molti della corte, e generalmente creduto pessimo cristiano, e, in fondo musulmano ancora, e in relazione coi musulmani d’Africa. Il grande Almirante, per la sua politica, che mal celava una febbre ambiziosa di dispotismo, aveva partigiani e nemici. I primi erano più nu­merosi nel popolo e nella piccola borghe­sia, per sentimento di solidarietà di classe, come si direbbe oggi e per l’innata avver­sione di tutte le plebi alte e basse contro la nobiltà; i secondi erano nella borghesia dei banchi e nella nobiltà osteggiata sempre da Majone. Inoltre Majone si appoggiava ai Saraceni, convertiti o no, contro i quali cominciava a serpeggiare l'odio religioso.
Majone era venuto in corte giovine anco­ra, al tempo di re Ruggero; ed era arrivato a ottenere un posto di scriniario, o scriva­no. Il re, da quel profondo conoscitor d'uomini che era, riconobbe in quel borghese un cervello quadrato e un vivo senso pratico negli affari; ereditato forse dai suoi mag­giori gente di negozi. Accorto, sottile, ani­moso e risoluto quando era necessario, si­mulatore, tenace nei propositi, devoto al re, almeno agli atti, Majone seppe entrare nel­l'animo di Ruggero, che da scriniario lo promosse a vice cancelliere.
Guglielmo l'ebbe a compagno di avventure, prima che si fosse associato al regno del padre; l'ebbe consigliere e ministro durante gli ultimi anni del regno di Ruggero; ne fu preso e gli si affidò. Il giorno in cui, dopo la morte di Ruggero, Guglielmo fu solennemente incoronato nella cappella del duomo, il 4 aprile del 1154, Majone già divenuto Cancelliere, fu promosso Almirante degli Almiranti, cioè primo ministro. La parola Almirante, divenuta poi Ammiraglio, derivata da el emir, non designava allora comando di flotta; era titolo di ufficio civile e militare, indifferentemente. L’Almirante degli Almiranti, o più comunemente il Grande Almirante era su per giù quel che oggi è il presidente del Consiglio dei ministri ma con maggior autorità.
Majone, senza parere, aveva a poco a poco radunato nelle sue mani il potere; e sebbene gli atti recassero la intitolazione Guglielmus dei gratia Siciliae nondimeno essi non esprimevano che la volontà del ministro. Il quale pareva così interamente e sinceramente devoto, e così votato al servizio del re, che questi gli abbandonò il regno, e tenne per sé un altro regno, più ristretto, senza noie, senza brighe, nel quale egli era solo ed unico signore; era re, ministro, sacerdote di un culto vecchio quanto il mondo, e sempre nuovo, sempre pieno di incanti, e di giocondità.
Luigi Natoli
Disegno di Niccolò Pizzorno

Luigi Natoli nel romanzo Gli ultimi saraceni: il re Guglielmo I della dinastia di Hauteville.


Così viene descritto da Luigi Natoli il re Guglielmo I, uno dei protagonisti del romanzo "Gli ultimi saraceni".
 
"Guglielmo si vedeva così raramente, che tutte le volte che appariva in pubblico destava la curiosità del popolo. Egli stava sempre chiuso nel suo palazzo, e dicevano che passasse il più della giornata, sdraiato all’orientale sopra cuscini fra le donne del Tiraz. Il re Guglielmo era giovane ancora; aveva nel 1159, trentanove anni: somigliava molto al padre, Ruggero. I cronisti contemporanei ne lasciarono un ritratto che si riconobbe esatto, quando scoperchiata la tomba del re, in Monreale, nel 1811, se ne vide il cadavere ancora intatto. Era di alta statura, corpulento; bello e maschio di volto, sebbene la fronte un po’ stretta, ma l’espressione un po’ acre e repulsiva; i capelli lunghi e la barba folta e rotonda di color biondo traente al rossiccio. Vestiva il camice bianco, percorso intorno intorno da un fregio. Il fianco aveva cinto da un cingolo di cuoio e metallo, al quale era attaccata la spada; indosso aveva una specie di dalmatica tutta d’un colore, ornata di una larga striscia ricamata. In capo un berretto, specie di cuffia, che aveva qualcosa di orientale.

Era un buon conoscitore di donne: rassomigliava da questo lato al pa­dre, che aveva subito il fasci­no della vita voluttuosa dei musulmani, e non contento delle quattro mogli prese suc­cessivamente, s'era fatto un harem, sfidan­do i rimproveri, gli scrupoli e l'orrore del clero. In questo Guglielmo aveva superato il padre, di cui aveva subito il fascino in altre qualità dello spirito. Nell'avarizia, per esempio, e nella ferocia dei castighi. Gli restava di gran lunga inferiore nell'attività maravigliosa, nel fine senso politico, nella opportuna e sapiente prudenza e nella magnanimità, quando era necessaria: qualità che avevan fatto di lui il più grande monarca e statista del suo tempo. Guglielmo ama­va troppo la voluttà, per aver tempo di oc­cuparsi dello Stato. Egli non serbava gli odi tenacemen­te; era così snervato, che non aveva neppur l'energia dell'odio; negli impeti era terribile e crudele; ma passato l’impeto impulsivo, le nuove impressioni affievolivano e talvolta spegnevano le antiche, e non rimaneva che un’ombra di odio o di avversione passiva; talvolta però essa si ravvivava.
Luigi Natoli.

Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni.

Ritorna, dopo 104 dalla prima ed unica pubblicazione a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 05 agosto 1911 e per la prima volta in libro edito da I Buoni Cugini Editori

 
Un avvincente romanzo storico, ambientato nella Palermo del 1160 in cui si narrano le vicende del re Guglielmo I, del grande Almirante Majone e di Matteo Bonello.


Luigi Natoli: 24 Maggio 1915

Ricorda sempre questa data. E' il giorno in cui l'Italia entrò in guerra, per liberare le ultime sue terre dalla soggezione allo straniero, per compire la sua unità, per assicurare la sua indipendenza.
Che guerra! per terra, per mare, nell'aria! Quanto sangue versato, e quanto eroismo!... Ma l'Italia vinse. Vinse pel valore dei suoi figli, per la sua volontà di vincere.
E anche in questa ultima e grande e terribile guerra, i giovani siciliani combatterono come quelli di Milazzo, come quelli del Volturno. E sul monte grappa e dovunque fecero prodigi.
Vuoi tu sapere con che cuore essi andavano alla guerra, e i padri ve li mandavano?
Leggi questa letterina: è di un soldato, e fu scritta nel 1917; l'ho letta in un museo di ricordi patrii,
 
Caro babbo,
Nel secondo anniversario della nostra gloriosa e santa guerra, fidente nella vittoria e nel trionfo del nostro Diritto, dalle trincee di .... a pochi metri dal nemico, invio gli auguri più fervidi a te, che serenamente hai dato alla patria i tuoi figli.
Spero di essere fortunato ancora; ma se dovessi cadere, niente lagrime, niente pianti! Sii fiero di noi, che da te abbiamo imparato ad amare la patria e, se è necessario, a sacrificarci per essa: e grida con me: Viva la più grande Italia!
 
Il soldatino che scrisse questa lettera morì pochi giorni dopo. Era giovane, bello e gentile, e tutto diede per la patria.
Medita: e fa di esser degno di coloro che morirono per darti una patria grande e gloriosa.
 
Luigi Natoli


Nota dell'editore: il Soldatino di cui parla Luigi Natoli in questo breve testo è il figlio Clodomiro, morto durante la prima guerra mondiale. La lettera che è trascritta è proprio l'ultima, che Clodomiro invia al padre, prima della morte.
I Buoni Cugini Editori

mercoledì 20 maggio 2015

Luigi Natoli: Gli ultimi saraceni.


 
Gli Ultimi Saraceni di Luigi Natoli, pubblicato per la prima volta in libro da I Buoni Cugini Editori dopo 104 dalla prima ed unica pubblicazione a puntate sul Giornale di Sicilia del 05 agosto 1911.

sabato 16 maggio 2015

Luigi Natoli nel romanzo "Alla guerra!" : la crudeltà tedesca.

Il fanciullo aveva sollevato due moncherini, ancora fasciati in bende macchiate di sangue. Le sue piccole mani erano state mozze; le sue piccole mani innocenti eran cadute sotto il taglio violento della spada tedesca, ed egli sollevava i braccini vuoti, simili a due teneri gambi di frumento, cui la grandine strappò le spighe, voleva difendersi, e non aveva più le sue armi naturali; ma quel gesto di difesa aveva la terribilità di un'accusa orrenda... Perchè? perchè avevan mozzate quelle piccole mani che conoscevan soltanto la carezza?
Simili a belve sitibonde, con le menti sollecitate nella ricerca di nuove crudeltà, e­rano entrati, briachi di birra e di vino, i soldati di quell'imperatore che si proclamava l'eletto di Dio; uomini da uccidere non ve n'erano in quella casa; v'eran don­ne e quel fanciulletto, rifugiati in un an­golo per lo spavento. Sotto gli occhi dell'in­nocente, le donne furono rovesciate per terra, sacrificate alla bestiale concupiscenza. L'innocente piangeva, stendeva le mani, con le dita aperte, simili a rosei bocciuoli.
- Oh! piccola canaglia! quando tu sarai  adulto, coverai nel cuore il desiderio di vendicarti! Or ti strapperemo gli artigli. Tu non potrai più impugnare un'arme; non potrai neppure adoperare uno strumento; non potrai mangiare come gli altri uomini, tu non sarai più un uomo; vivrai tutta la tua vita nella impotenza di fare qualsiasi cosa: avrai le tue braccia per ironia!...
Una  mano ghermì quei ditini supplici, l'altro vibrò il colpo: al grido straziante della madre, rispose il sogghigno del mutilatore.
 
Tutto poteva spiegarsi: la rovina degli edifizi, gli incendi, i saccheggi, le fucilazioni inutili, le violenze alle donne, tutte le manifestazioni del­l'anima selvaggia primitiva; tutti gli ecces­si degli istinti scatenati; tutto! ma quella crudeltà raffinata contro l'infanzia, no! era un delitto, una scelleratezza, un sacrilegio che oltrepassava ogni orrore concepibile!...

E guardava quei due moncherini dalle cui bende il sangue non s'era cancellato; quei due moncherini stesi in alto, nel loro gesto silenzioso, terribilmente tragico, invocatore di vendetta! E agli occhi di lei si moltiplicavano. Dal fondo di quella stanza pareva sorgessero centinaia di fanciulli, e tutti levavano le braccia mozze e sangui­nanti, con lo stesso gesto muto e terrificante.
 
 

Luigi Natoli nel romanzo Alla guerra! : la violenza dei tedeschi sulle donne francesi


Le donne non capivano il tedesco: videro il sergente e i soldati avvicinarsi e stesero le mani supplichevoli. Il sergente, forse per veder meglio, prese per le braccia una giovinetta, e la tirò da parte; francesi non ce n’erano; ma quella giovinetta era così graziosa nel suo terrore!... E il sergente era così allegro!... e i suoi nervi così eccitati...
Se la prese fra le avide braccia, e la rovesciò per terra. Allora, come un branco di lupi, quei soldati, si gittarono sulle donne. Grida, gemiti, lotte brevi, rapide, di corpi che tentavano disperatamente divincolarsi dalle strette bestiali; un ansare mostruoso; un percotere di pugni feroci, per abbattere le resistenze. La bestia concupiscente trionfava...
Rossi, con le nari dilatate, ancora ansanti, lasciavan la preda abbandonata per terra, priva di sensi; sopra la quale altri si gittavano, come assetati a una fonte di acqua. Una fanciulla era morta: aveva il petto squarciato da un colpo di baionetta; il sangue che le sgorgava su le vesti scomposte, non aveva impedito la profanazione.
Il sottotenente non aveva detto una parola. Aveva alzato le spalle, bisognava pure che quei poveri ragazzi, che avevan combattuto da tre giorni, trovassero uno svago. Un soldato gli aveva offerto una fanciulletta di quindici anni, che pareva un giglio; ma egli non aveva nessuna voglia. Aveva rifiutato.
- Allora la prendo per me! – aveva esclamato il soldato.
Parevano degli ubbriachi, ancora coi nervi vibranti, gli occhi cupidi, i volti accesi. Non v’era nulla a frugare: francesi non ce n’era; roba da saccheggiare neppure. Il sergente bonaccione, che rideva soddisfatto, non volle andarsene, senza aver prima strappato a una giovane donna, forse una sposa novella, gli orecchini, lacerandole le orecchie.
Intanto un grave puzzo di gas empiva l’aria; certo in quel trambusto qualcuno aveva rotto un tubo.
Il drappello abbandonò il magazzino; vide un’altra scala, vi si lanciò con ardore, come se si trattasse di dare la scalata a una fortezza; lì, nella penombra del magazzino, sedute per terra o ancora abbattute, qualcuna in piedi, col volto nascosto fra le mani, meste, sbalordite dallo spavento, dalla vergogna, con le vesti lacere e scomposte, rimanevano quelle povere donne; e in mezzo a loro, immobile, nella sua nudità profanata, giaceva la fanciulla uccisa; ma nel volto esterrefatto, negli occhi azzurri spalancati e senza luce, nella bocca amareggiata dallo spasimo estremo, v’era tutto l’orrore del misfatto; tutto lo strazio della vita doppiamente violata; v’era qualche cosa di ineffabile che destava e confondeva insieme una gentile pietà e un’ira profonda.
 
Disegno di Niccolò Pizzorno.

Luigi Natoli nel romanzo Alla guerra!: l'invasione tedesca di Charleroi.


Charleroi fumava per gli incendi accesi dal bombardamento; presa e ripresa e strappata tra accaniti combattimenti, era rimasta in potere dei tedeschi. Francesi e belgi avevan dovuto sloggiare sotto la grandine delle bombe.

Il 240^ fanteria tedesca aveva occupato la immensa stazione, i magazzini, gran tratto della linea, aveva ricevuto l’incarico di dar la caccia ai francesi sbandati o che si nascondevano ancora nelle case, nelle cantine, nelle chiese. Grosse pattuglie percorrevano le strade ingombre di macerie, di mobili fracassati, di cadaveri, che non si era avuto il tempo di portar via: coi calci dei fucili percotevano le porte chiuse; più spesso le atterravano: gli ufficiali con le rivoltelle in pugno, i soldati coi fucili spianati, gridando minacciosamente entravano; frugavano perfino sotto i letti, dentro i grandi armadi, dentri i camini! scassinavano i mobili a colpi di baionetta, intascavano quel che trovavano; intanto che l’ufficiale o un sottoufficiale interrogava minacciando, i poveri abitanti, per lo più donne, vecchi e fanciulli, raccolti in una stanza atterriti e tremanti.

C’era però qualche cosa da portar via negli armadi, nelle casse, nella credenza!... Chi giungeva pel primo prendeva. Quei poveri soldati avevan sempre fame e sete; dovunque assalivano prima di tutto le credenze e le cantine; e avevan le tasche ampie; come i loro stomachi: c’entrava sempre roba!... Quella che non c’entrava si rompeva, si lacerava, si bruciava, si distruggeva. Bisognava far sentire a Charleroi quanto pesasse il pugno tedesco in collera: Charleroi aveva per due giorni infranti gli sforzi tedeschi, e meritava una punizione. Tutta la città ancora fumante, era invasa da orde di saccheggiatori: qua e là rimbombavano colpi di fucile o di rivoltella: un francese scovato? No: qualche borghese che aveva protestato; qualche donna che aveva forse difeso il suo pudore. Un colpo, e via!... Le case erano molte, e c’era da lavorare. Le fatiche del combattimento non avevano spossati i saccheggiatori.

Un drappello di circa venticinque uomini della 5^ compagnia, comandati da un sottotenente, era dei più animosi e infaticabili. Trasceglieva le case di miglior apparenza, e che comparivano devastate dal bombardamento; le assaliva, le invadeva, baionettava persone e cose, saccheggiava; e andava via: spesso gittava delle capsule incendiarie sui mobili e sulle tende, e v’appiccava il fuoco.

Erano quasi giovani, biondi, cerulei; alcuni robusti, ossuti, forse venivan dai campi o dalle officine; altri di più gentile aspetto; studenti forse, o impiegati di città: i più sbarbati ancora, qualcuno col mento ornato di una barba bionda a ventaglio. Non avevan nulla di feroce, di selvaggio nei volti: erano sudici, con le uniformi qua e là sbrandellate, bruciacchiate, infangate; con le mani nere, coi segni degli aspri travagli durati, dei rischi corsi; ma pur v’era nel loro aspetto qualche cosa di terrificante. Vi era sangue nel fango che macchiava i loro vestiti, e sulle loro mani; negli occhi chiari c’era un balenìo di istinti belluini; i loro sorrisi scoprivano nei denti un non so che di cannibalesco; nei loro gesti v’era il segno della violenza, senza pietà: e nel tempo stesso la coscienza di una forza destinata a una missione.
 
Nella foto: la battaglia di Charleoi (Belgio - 1914)

Luigi Natoli nel romanzo Alla guerra!: lo stato d'animo dei giovani soldati francesi.

      
Guy pensava al domani. Domani sarebbero giunti i tedeschi; gli ulani li avevano già annunziati; nell’aria immobile si sentiva quasi il rombo pesante e fosco della loro avanzata. Pareva che un fremito percorresse la terra, sotto il passo di quei reggimenti ferrigni, che marciavano con una cecità fanatica, verso la vittoria o la morte, passando, senza fermarsi, sui loro fratelli caduti. Domani quel borgo, che dormiva tranquillo nell’ombra, tra’ fanali spenti, sarebbe diventato un inferno; la Sambra, che mormorava dolcemente fra le colline degradanti coi loro boschetti a specchio, sarebbe stata turbata e insanguinata.
Ma dormiva veramente la borgata? dentro le case buie e serrate, la gente forse non trepidava nell’aspettazione del terribile ignoto?

Guy provava una strana sensazione. Non era paura; tuttavia un lieve fremito, di tanto in tanto, ad ogni più lieve rumore, gli scorreva a fior di pelle.
Il latrar lontano di un cane gli faceva spalancar gli occhi nell’oscurità. Passando accanto alle sentinelle che passeggiavano col fucile su la spalla, dopo aver dato la parola d’ordine, raccomandava di stare attenti.
Non era paura. Era un sentimento quasi di oppressione e d’ansia, generato dall’aspettazione del prossimo nembo. I primi colpi, le prime cannonate sarebbero appunto piovute contro i suoi cento uomini, in quella posizione estrema; il primo urto della battaglia avrebbe cozzato contro quel manipolo. Probabilmente quel soldato che passeggiava su e giù vigilando per la salvezza dei compagni, sarebbe caduto pel primo; e non sapeva o non pensava che la morte gli era sospesa sul capo. E anche lui.
Perché no?...

Pensava alla sua casa, e pensava a Ginevra. Nelle prime ore della sera, in un piccolo caffè aveva scritto due lettere, una alla mamma, l’altra a Ginevra; e le aveva spedite; poi aveva in un taccuino, che era il suo piccolo diario, scritto alcuni pensieri. Sulla prima pagina, per ogni evento, aveva già scritto una nota: Chi troverà questo taccuino sul mio cadavere, abbia l’animo gentile e pio da inviarlo a M.r Vandois in Parigi, rue Jouffroy, 26. Aveva raccolto in quel libretto, giorno per giorno, pensieri, osservazioni, confessioni; vi aveva narrato la storia di quel suo amore del quale la famiglia non sapeva nulla, vi aveva confidato i suoi sogni, le sue ambizioni; tutto l’animo suo, in quel che aveva di più segreto e sentimentale.

Ora pensava a questo taccuino. Se egli cadesse, qualcuno glielo ritroverebbe addosso ed eseguirebbe religiosamente il suo desiderio… Ah! l’arrivo di quel cimelio nella sua casa a lutto!... Immaginava la scena, rivedendo tutti i personaggi; l’on. Cadenat col suo cranio lucido e la sua eloquenza di deputato che parla soltanto fuori della Camera, avrebbe fatto un bell’elogio. Guy, l’udiva: l’on. Cadenat consolava madama Vandois, dicendole: - Non bisogna piangere! Guy è morto da eroe, per la Francia: è una gloria per voi!
 
Nel disegno di Niccolò Pizzorno: un ulano.