giovedì 6 dicembre 2018

Luigi Natoli: Le feste di Coe. Tratto da: Gli schiavi


Quel giorno erano le none del 651 di Roma (5 febbraio 103 a.C.); e Cecilio, ricevuti gli auguri della famiglia e degli schiavi della casa, con preghiere ai Lari e doni, preparava un gran banchetto, dato a ventisei fra ricchi cavalieri romani e proprietari siciliani ai quali voleva mostrare il nuovo triclinio che aveva fatto costruire. Costruire non è proprio; chè egli lo aveva solo rivestito di marmi: gialli, rossi e verdi, e ornare di pitture e di statue che erano una vera bellezza. Inoltre l’aveva arricchito di tre tavole di marmo nero con intarsi di avorio, con letti di bronzo dorato, coperti di materassi e di drappi ricchi, che destavano meraviglia. 
Prometteva anche una sorpresa. 
I ventisei invitati giunsero un quarto d’ora prima dell’ora assegnata da Caio Cecilio nei suoi inviti, che era l’ora sesta, corrispondente alle nostre dodici, ora fissata per il pranzo. Non v’erano donne: chè erano rimaste nel gineceo; schiave sì, ed erano le flautiste e danzatrici, che a suo tempo entrarono in sala coi giocolieri, i mimi e gli atleti. 
Il cuoco fece prodigi, sfoggiò una fantasia straordinaria nell’ideare le varie tavole, ossia portate, e una abilità non meno straordinaria nel cucinare vivande complicatissime. Oltre agli antipasti, fra i quali v’erano delle uova di pasta, in cui si trovavano dei tordi lardellati con rosso d’uovo, servì un maialetto intero, che pareva ancor vivo, roseo con le setole bianche; sparato il quale, come se avessero voluto macellarlo lì per lì sulla tavola, ne erano uscite dal ventre salsicce e mortadelle. 
I commensali applaudirono. I Sicilioti esclamarono:
- Tu hai certo un maestro in cucina siciliota, perché non ci sono che essi capaci di fare queste pietanze!
- Hai detto bene. Il mio maestro di cucina è di Siracusa; ed è il primo cuoco di Sicilia. Io spendo molto per i miei pasti: vi basti sapere che egli ha ai suoi ordini un esercito di servi, dal fornaio al dulciario, che gli ubbidiscono in tutto.
Intanto lo struttore (18) serviva le portate, secondo la scelta dei commensali; e i dapiferi (19) somministravano da bere; le flautiste sonavano e le danzatrici ballavano voluttuosamente. 
Or in quel mese, secondo l’usanza remota nelle città di origine greca, e l’usanza si era propagata anche in quelle sicule, cadevano le antiche feste di Coe, un ramo forse o una derivazione delle Tesmoforie, che si celebravano in onore di Demetra (20). Le Coe onoravano Dioniso con un gran banchetto popolare, nel quale ad ogni convitato si dava una misura colma di vino; e aveva un premio chi la vuotava per primo. La festa aveva perduto il suo primo carattere religioso, e si era trascinata come usanza popolare. Dopo la conquista romana non si era ridotta che a banchetti privati, qua e là. Caio Cecilio Pulcro, per dare uno spettacolo ameno ai suoi ospiti, aveva pensato di adattarla alla sua festa domestica; non però offrendo un banchetto al popolo, sibbene ai suoi servi, tra i quali doveva aver luogo la gara. Aveva per questa fatto preparare delle tazze ampie; e si prometteva di ridere, per una sorpresa che si riserbava di fare ai servi ed ai suoi commensali. 
La tavola dei servi, lunga e improvvisata con assi, era stata preparata dinanzi all’ergastolo. Questo sorgeva in fondo ad un orto, all’estremità di un viale; era un vasto edificio, poco elevato, con scarse e piccole finestre munite di sbarre, con una porta massiccia, coperta di una lamiera di bronzo. Dinanzi ad esso si stendeva un largo spazio vuoto. Dalla parte opposta all’altra estremità del viale, sorgeva un altro edificio, assai più bello, con un piccolo portico, i muri rivestiti di stucco e dipinti, del quale si riconosceva subito l’ufficio: era il bagno; Caio Cecilio Pulcro vi aveva trovato una polla d’acqua e l’aveva utilizzata, facendo costruire le sue terme, in proporzioni ridotte, ma con aula, vasca natatoria, frigidario, calidario, spogliatoio; insomma tutti i comodi. Tanto per andare all’ergastolo quanto per andare al bagno, bisognava percorrere un largo viale, fiancheggiato di cipressi e di siepi di rose, che tagliava in due l’orto, e finiva su quell’altro viale, ai cui estremi sorgevano i due edifici, formando un gigantesco T. Il punto dove il viale maggiore si inseriva nel minore, si allargava in una esedra, con un sedile per tutta la sua curva, e sulla spalliera del sedile, come sopra uno stereobate, un colonnato, a una sola fila, che offriva una bella vista a chi dalla casa guardava l’orto o percorreva il grande viale. 
Levate le mense, Caio Cecilio Pulcro invitò i suoi amici a seguirlo nell’orto. Immaginando che ivi avrebbe trovato la promessa sorpresa, i commensali si rovesciarono con lieto tumulto nel largo viale; erano tutti avvinazzati, qualcuno barcollava e si appoggiava al compagno non meno traballante; Caio Cecilio camminava reggendosi con le mani sulle spalle di due servi. Quando giunsero dinanzi alla tavola degli schiavi, questi si levarono in piedi gridanto:
- Vita lunga e felice a Caio Cecilio Pulcro! Gli dei ti colmino di favori, Caio Cecilio Pulcro!...



Luigi Natoli: Gli schiavi. Romanzo storico siciliano ambientato al tempo della dominazione romana e delle guerre servili.
Pagine 387 - Prezzo di copertina € 22,00
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Sonzogno nel 1935
Disponibile presso Librerie Feltrinelli e in tutti i siti di vendita online
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it

Luigi Natoli: La dominazione romana in Sicilia. Tratto da: Gli schiavi


Nel lungo duello con Cartagine, durato circa un secolo, Roma, insignoritasi dell’isola, se n’era fatta una base per tenere a freno i popoli dell’Africa. La folla dei Romani e degli Italici vi si era accampata come un popolo dentro un popolo, del quale sentiva la superiorità nel vivere civile. Altrove Roma, dove assoggettava popoli barbari o di civiltà inferiore, colonizzava, trasformava, latinizzava; ma in Sicilia, dove trovava Siracusa, Acroganto, Catana, Centuripe, Tauromenio e altre città ricche, splendide, altamente progredite; dove, fiera e rozza com’era, aveva tutto da imparare, attese ad abbassare il livello dei cittadini. E li spogliò. I Siciliani ricchi si dettero ad imitare i nuovi padroni. Considerata come ager publicus, proprietà dello Stato, i conquistatori si diedero ad accrescere le loro terre con la frode e con i ladroneggi, in una gara di rapacità e di invidie. Ma la coltivazione richiedeva un gran numero di braccia; quelle dei Siciliani richiedeva molta spesa; quelle degli schiavi costava assai meno. E Roma inviò in Sicilia grandissimo numero di prigionieri di guerra, altre migliaia ne fornivano i pirati, che facevano continue scorrerie nelle coste dell’Asia e dell’Africa, e anche in quelle della Sardegna e della Sicilia, rapivano i giovanetti e le fanciulle e andavano a venderli a Delo, grande mercato umano. In Sicilia se ne faceva anche allevamento, facendo accoppiare gli schiavi, poiché era legge che i figli procreati dagli schiavi fossero proprietà del padrone. 
Così la Sicilia era popolata da pochi ricchi, Romani i più, e da molti poveri, che erano Siciliani, e da schiavi non siciliani quando venne al mondo Caio Cecilio. Cresciuto nella ricchezza, l’aveva aumentata. Non era stato indegno del suo avolo, di cui aveva in più la superbia e la crudeltà. In una delle sue infrequenti gite a Roma, aveva contratto matrimonio con una giovane sabina, Tazia Flammea, e ne aveva avuti un maschio, Manlio Cecilio, che ora toccava i vent’anni; e una femmina, Cecilia, che ne aveva sedici. 
Oltre la villa dell’Atichio, dove trascorreva si può dire tutto l’anno, possedeva una bella casa a Lilibeo, ma vi passava, e non sempre, due mesi: dicembre e gennaio. Vi giungeva trasportato in lettiga dai servi cappadociani, e seguìto da una scorta armata per la poca sicurezza delle strade, infestate da ladroni, quasi sempre impuniti. Erano infatti schiavi addetti alla pastorizia, e lasciati dai padroni ignudi, i quali ricorrevano a quel mezzo per vestirsi. Ad uno d’essi, che una volta s’era lamentato di non avere un cencio di che coprirsi, Caio Cecilio aveva risposto cinicamente:
- O che forse non passano viandanti per le strade?
I pastori approfittarono del consiglio; ma Caio Cecilio, per poter percorrere quella distanza di venticinque stadi (7), che intercedeva tra la villa e la città, prendeva le sue precauzioni. 
La villa di Caio Cecilio Pulcro, come la sua casa, era piena di ricchezze. 


Luigi Natoli: Gli schiavi. Romanzo storico siciliano, ambientato al tempo della dominazione romana e delle guerre servili.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice Sonzogno nel 1935
Pagine 387 - Prezzo di copertina € 22,00
Disponibile presso Librerie Feltrinelli e in tutti i siti di vendita online.
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giovedì 29 novembre 2018

Luigi Natoli: Il giuramento. Tratto da: Il Paggio della regina Bianca

- Figli miei, giuratemi qui, di non lasciarvi mai, e di riconquistare l’onore e la gloria della casa. L’ombra dei vostri padri, uccisi dall’ingordigia altrui, parla per la mia bocca… Giurate!
Giovannello e Simone, in piedi, colti da un brivido superstizioso, come se realmente le ombre sanguinose dei loro padri fossero balzate dinanzi ai loro occhi, stesero la destra, e a una voce dissero solennemente:
- Lo giuriamo!...
Il volto di Filippo si illuminò di gioia; ma di nuovo il pallore vi si diffuse; e lo sforzo durato esaurì le  sue energie, sì che cadde supino. I due giovani si chinarono per sollevarlo.
- Portatemi fuori, fatemi vedere il cielo, – disse con un filo di voce.
Con delicatezza, lo presero fra le braccia, lo alzarono da terra e lo portarono fuori dalla grotta, intanto che il pastore raccoglieva le pelli, che distese per terra e sopra un sasso a guisa di spalliera, al quale fu appoggiato dolcemente il Romito.
Tramontava.
Gli ultimi raggi del sole fiammeggiavano una luce vermiglia, dentro la quale pareva che le rocce, gli alberi, le erbe si incendiassero. La grotta sembrava di bronzo incandescente. Sotto quella luce, il pallore mortale di Filippo scompariva; e il suo volto pareva sfavillare di una divina aureola.
I due giovani guardavano in silenzio, presi da un senso di terrore religioso. Il silenzio si stendeva per tutta la montagna, per la valle ampia, che s’andava sprofondando in un’ombra cinerea. Non una voce umana: ma la misteriosa e potente voce della natura, che celebrava in una solennità taciturna il grande mistero.
La gran luce del mondo scendeva dietro ai monti e le tenebre si stendevano e avvolgevano tutte le cose; e la luce di un’anima si spegneva anch’essa, e le tenebre eterne calavano su quegli occhi e avvolgevano quelle membra. Una notte nel cielo e sulla terra, una notte in una creatura umana.
Filippo mirava, forse senza vederlo, il rosso disco del sole scendere dietro i monti lontani; e i suoi occhi sembravano animati dal riflesso della luce; quando l’ultimo punto luminoso scomparve, e l’aria divenne grigia, e il monte, gli alberi, tutte le cose presero un color plumbeo, tetro e incerto, quelli si spensero.
Egli mormorò qualche parola.
I due giovani si chinarono per udirlo meglio. Parve loro di cogliere nel soffio di quello spirito una parola:
- Ricordatevi!...


Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1400, al tempo che segnò la fine dei Chiaramonte e della regina Bianca di Navarra.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
Pagine 702 - prezzo di copertina € 23,00
Disponibile presso La Feltrinelli Palermo e in tutti i siti di vendita online
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it
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Nella foto: La grotta del gigante - Catania 

Luigi Natoli: Il tesoro dei Chiaramonte. Tratto da: Il paggio della regina Bianca

Giovanello si chinò ancora di più, per ascoltare, con una espressione di religioso raccoglimento.
Filippo Chiaramonte riprese a voce più bassa:
- Il giorno in cui il duca Martino di Montblanc invitò Andrea Chiaramonte a presentarsi al re, fingendo di avergli perdonato, Andrea ebbe un sospetto. Mi chiamò prima di rendersi al convegno, e mi disse: “Filippo, fratel mio, bisogna per ogni buon fine, mettere al sicuro il tesoro: servirà o a continuare la guerra, o a riscattare le terre o a vendicarmi. Nel convento di Baida c’è un forziere, che ho affidato alla custodia di quei frati. Finora essi mi son devoti: ma domani? Va, prendi quel forziere e sotterralo dove tu crederai meglio: eccoti una lettera pel padre guardiano”. Andai subito a Baida; se tu non lo sai, Baida è un colle non molto lontano da Palermo, e poco discosto da Monreale, e domina la vallata; il convento che vi sorge è opera della nostra casa… Andai, presi il forziere, che pesava abbastanza, lo ravvolsi di foglie, e così ravvolto lo nascosi in un sacco, e lo caricai sopra un mulo… Per sentieri fuori mano, con un lungo giro, costeggiando quasi il Parco reale, calai sulla valle dell’Oreto, in un punto che si dice la Guadagna, poco più che mezzo miglio lontano da Palermo… Ivi è una villa della nostra casa, con una torre quadrata ampia e degna, come tutte le fabbriche dei Chiaramonte… Allora non ci era stata confiscata, e quei villani ci erano devoti… Nondimeno non mi fidai; per non destar sospetti, tolsi io stesso il sacco col forziere e lo deposi in un angolo, come se non contenesse nulla… Ma la notte, quando tutti dormivano, presi una zappa e una vanga, uscii dalla torre, e mi avviai per la contrada di Falsomiele, che si stende oltre la valle, fino a monte Grifone. La costa di quella contrada è sparsa di ruderi e stanze di antichi edifici, credo dei Saraceni… Non v’era luogo migliore. Scavai, scavai, feci un fosso profondo; ivi deposi il forziere; lo copersi di terra; sulla terra buttai sassi e sterpi, per celare che era stata smossa, e tornai alla torre, senza che alcuno se ne avvedesse… Il forziere è ancor lì; nessuno ha potuto scoprirlo. Va, dunque, figliuolo, e restituisci alla casa dei Chiaramonte il suo splendore…
- Come farò a riconoscere dove è sepolto il forziere? – domandò.
Filippo fece un cenno che significava: “ti dirò”, e segnato un punto in terra, disse:
- Immagina che questo punto sia la torre: tu volgi a levante, misura cento passi, troverai una specie di stanza con un sedile… Continuerai a camminare, conterai tre di stanze come questa. La terza, oltre alla stanza col sedile, ne ha un’altra dietro, più bassa, invasa da pruni ed erbacce: è lì, sotto il muro di tramontana; non puoi sbagliare. 


Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1400, al tempo che segnò la fine dei Chiaramonte e della regina Bianca di Navarra.
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
Pagine 702 - prezzo di copertina € 23,00
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Luigi Natoli: Il segreto del romito. Tratto da: Il paggio della regina Bianca

Il romito finalmente levò il capo, guardò il giovane, e con una voce lieve, ma con un tono che lo fece rimescolare, gli disse:
- Siedi accanto a me…
Il giovane non gli vide muover le labbra; la voce pareva uscisse dalle profondità della terra: era la voce di un altro mondo. Egli ubbidì con una specie di religiosa commozione.
Così, forse, nei tempi preistorici, gli uomini si chinavano sulle tombe per ascoltare le voci dei trapassati, ai quali chiedevano consigli, auguri, benedizioni.
Dopo un minuto di silenzio, il romito disse lentamente e quasi scandendo le parole:
- Figlio di Andrea Chiaramonte, t’ho aspettato lunghi anni… eccoti qui, dunque. Dio sia benedetto!... Siedi e ascolta.
Attonito, Giovannello  ubbidì, e guardato ancora di più fissamente il vecchio, cedendo alla curiosità, gli domandò:
- Chi siete? padre, chi siete?
- Lo saprai…
Vi fu un istante di silenzio. Un non so che di religioso pesava nella grotta e sull’anima di Giovannello. Il romito parve raccogliersi; sulla sua fronte si vedeva l’ombra dei pensieri, come sul cielo le nubi. Egli cominciò con voce bassa, che pareva uscisse dall’invisibile:
- Tu eri ancora un fanciullo quando avvenne la catastrofe della tua casa… Forse non sarebbe avvenuta, e tu saresti il primo barone del regno, se Andrea avesse accettato le offerte del duca di Montblanc… Tu ignori che il padre del re desiderava destinarti marito della figlia di don Ferrante Lopes de Luna, una cugina del re… Andrea rifiutò per non imparentarsi con lo straniero… Dio gli perdoni!... Egli credette nella concordia dei baroni convenuti a Castronovo; credette che in tutti fosse vivo e potente il sentimento dell’indipendenza del regno… e i baroni lo tradirono… Forse tu sai quel che ne seguì: la guerra, le persecuzioni, il tradimento. Andrea si sottomise, ebbe fede nella lealtà del vecchio Martino, e il vecchio Martino finse di perdonargli e di accoglierlo, e lo gittò nelle mani del boia. C’era chi lo istigava… c’era chi voleva la rovina del conte…
- Chi, padre? – domandò fieramente Giovannello, che ascoltava con religioso raccoglimento.
- Messer Bernardo Cabrera…
- Ah!
- Dopo la morte di Andrea, venne la volta dei parenti. Uno di essi cercò uno scampo nella fuga, inseguito come un lupo di borgo in borgo, per valli, per monti… Egli aveva dinanzi agli occhi la visione della scure lampeggiante in aria… del capo reciso e sanguinante preso pei capelli… e dietro, alle calcagna, una muta di cani anelanti di strage, sitibondi di sangue… Era così giunto a Messina. Sperava di trovavi una feluca, una galea, una barca, per recarsi a Napoli e invocare la protezione di Costanza… Ma ecco la feroce muta sopraggiungere, gridando: “Eccolo! eccolo!... Morte al Chiaramonte!... Morte al traditore!”. Quell’uomo ebbe il tempo di balzare in sella, e fuggire, senza saper dove, trasportato dalla furia del cavallo, che pareva impazzito anch’esso… Un istante che avesse indugiato, egli sarebbe stato preso, e, forse, fatto a pezzi… perché alle grida dei suoi inseguitori s’era adunata a un tratto anche una folla minacciosa. Ah! quella fu una fuga incredibile, terrificante… Il cavallo non sentiva più il freno, e la mano non aveva più coscienza per governarlo… Volavano su per un sentiero selcioso, che sfavillava sotto le zampe… Il sentiero saliva; portava in una montagna? chi lo sapeva? né cavallo né cavaliere vedevano… Il cavaliere si accorse improvvisamente che dinanzi a lui la roccia finiva e si spalancava il vuoto mostruoso, immenso… Ebbe la coscienza del pericolo, tentò arrestare la furia del cavallo, ma invano. La bestia infellonita e cieca spiccò un salto… Un grido!... cavallo e cavaliere sparvero: un gran tonfo, le acque del mare si apersero, spumeggiarono, si richiusero sopra di loro…
 I soldati che l’inseguivano si affacciarono con orrore sull’orlo della rupe, che cadeva a picco sul mare, e stettero lì vedendo le acque ancora frementi e rosseggianti, sulle quali poco dopo videro galleggiare il cavallo con le gambe spezzate…
- E il cavaliere?
- Lo credettero morto…
- E non lo era?...
- No: il cavallo lo salvò…


Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1400, al tempo che segnò la fine dei Chiaramonte...
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
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martedì 20 novembre 2018

Luigi Natoli: L'ingresso di re Pietro d'Aragona a Palermo. Tratto da: Mastro Bertuchello

Quanta gente per le strade! E s’avviavan tutti verso porta di Termini donde il re sarebbe entrato. Eran cavalieri a cavallo, riccamente vestiti, che si recavano al luogo del convegno, per andare in corpo incontro al re; dame a cavallo o in lettiga, accompagnate da paggi e da valletti che andavano incontro alle due regine; frotte di borghesi, di mercanti, di artigiani. Intanto alle finestre della via che avrebbe dovuto percorrere il re, si stendevano tappeti e panni dai colori vivaci; le strade si rivestivano a festa anch’esse; e la gaiezza dei colori e la ricchezza dei drappi contrastavano con la miseria del popolo minuto, che si affollava in quelle stesse strade, dando una mostra diversa, ma più eloquente, delle condizioni del regno.
A veder tutta quella gente pacifica, tutta quella festa di colori, nessuno avrebbe immaginato che il giorno innanzi la città era stata sconvolta da un improvviso uragano; e che una gran parte di quelli che si affollavano ora con aspetto giulivo per vedere e applaudire il re, erano stati gli autori del tumulto e del saccheggio.
La casa di messer Ioffo, un mercante anche lui, sorgeva presso l’antica chiesa di S. Maria della Misericordia, abbattuta e rifatta poi nello stesso sito della odierna chiesa della compagnia di S. Maria di Gesù in piazza S. Anna. Era una bella casa da poco costruita, che aveva un loggiato coperto, sostenuto da due arcate a sesto acuto sorrette da colonnine. Venendo da Porta di Termini, il corteo reale, attraversata la piazza della Fiera Vecchia – che anche allora aveva questo nome, – doveva percorrere la larga contrada di Lattarini, la strada della curia pretoriana, detta appunto per questo dei Giudici, passar dinanzi al palazzo della città, e di là pel Cassaro, giungere alla reggia; non senza prima entrar nel duomo a ringraziare Dio, e a ricevere la benedizione da qualcuno dei prelati fedeli alla monarchia, se l’arcivescovo aveva scrupoli. In quel tempo pesava sulla Sicilia un nuovo interdetto. Il papa, che era Benedetto XII, parteggiava, come i suoi predecessori, per Angiò; e aveva spedito lettere ai Palermitani, ai Messinesi, e agli Agrigentini per tirarli nuovamente al dominio francese, promettendo felice e lieto governo come ai tempi di Guglielmo il Buono. Eran corse poi trattative con re Pietro, al quale aveva spedito come suoi legati il vescovo di Besanzone e il patriarca di Costantinopoli: ma questi avevano avuto l’imprudenza di inalberare sulle galere, che li portavano a Messina, le insegne angioine; alla vista delle quali, narra un cronista contemporaneo “li Messinesi factu tumultu et congregatu lu populu a la Marina cum li balestri et altri speci d’armi expulsiru li dicti galei”. Donde gran corruccio dei legati, che in nome del papa fulminarono l’interdetto e nuove scomuniche. Ciò era accaduto nell’aprile di quell’anno 1339.
Il clero di Sicilia, fino ai tempi di Filippo V, non fu mai papista; aveva una certa autonomia, dipendendo in gran parte e in virtù della legazia apostolica, di cui erano investiti i re per la bolla di Urbano II, dalla monarchia. Era un clero nazionale: per quanto cattolico e scrupoloso in materia di dommi e di dottrina morale, in politica era geloso difensore della libertà, della indipendenza e dei diritti del regno. Dal Vespro in poi le scomuniche papali e gli interdetti eran fioccati con un crescendo furioso; ma nè avevano sgomentato il popolo, nè avevano fatto deviare il clero. Le chiese rimanevano aperte, i preti officiavano e amministravano i sagramenti, infischiandosene delle scomuniche dettate da ragioni politiche; tuttavia o per timidezza, o per prudenza, o per qualche scrupolo, i prelati più in vista si astenevano talvolta da manifestazioni troppo ufficiali. Non si sapeva perciò se l’arcivescovo di Palermo sarebbe venuto nel duomo, in tutta la sua pompa per benedire il re: ma in questi casi v’era sempre qualche prelato che ne faceva le veci.
Un rullar di tamburi e uno squillare di pifferi annunciò la venuta della “Città” ossia del magistrato comunale. I tamburini e i pifferi precedevano a cavallo, vestiti con le cioppe, specie di sopravveste, coi colori della città, giallo e rosso, in mezzo a cui l’aquila palermitana allargava le ali. Ogni tamburino portava davanti, pendenti di qua e di là dall’arcione, due tamburi, di forma allungata, che batteva con ritmo alternato o simultaneo. Dietro di essi venivano i portieri, i famigli, lo stendardo del comune, poi i sei giurati, il pretore, il capitano, i giudici della Curia, i razionali e i notari; i giurati e il pretore con le toghe rosse a risvolti gialli, gli altri con le toghe nere; tutti a cavallo: cavalli bardati, guidati a mano da valletti. Seguiva un lungo corteo di cavalieri riccamente vestiti. Era uno spettacolo che da parecchi anni non si vedeva, e che suscitava ammirazione e compiacimento.
Messer Puccio conosceva tutti; e se ne ripeteva i nomi, via via che passavano. Altri cavalieri venivano, con codazzo di paggi. Ecco messer Manfredi Chiaramonte, ecco messer Matteo Sclafano, e messer Andrea Tagliavia, che era vice ammiraglio, messer Goffredo Calvello, che aveva il diritto nelle coronazioni di portar la corona regia sopra un cuscino, messer Corrado Lancia,... e c’era anche messer Roberto Brandi, che aveva ripreso animo, e ora veniva con l’aria di farsi merito del pericolo passato.
Il re giunse poco dopo, con la regina Elisabetta e poco seguito. V’erano Damiano e Matteo Palizzi, il confessore della regina fra Giovanni dei Predicatori, il grande scudiero, il capitano delle guardie, alcuni cavalieri. Tutti a cavallo. Il re era serio, e questa serietà aggiungeva qualche cosa di più triste al pallore malaticcio del volto. Alle parole di benvenuto rivoltegli dal pretore messer Alighiero, rispose breve e secco; prese posto con la regina sotto il grande pallio o baldacchino, di cui ressero le aste i sei giurati, ed entrò in città, preceduto dai cavalieri, dai nobili, dai tamburi della città, fra il pretore e il capitano, senza dire una parola. Agli applausi dei mercanti rispose con un breve cenno del capo; ma corrugò le sopracciglia passando tra la massa del popolo, dalla quale partì qualche sparuto e timido evviva. Il popolo guardava più con curiosità delusa, che con entusiasmo. Sebbene quello scarso seguito, potendo sembrare una condiscendenza alla volontà popolare, dovesse soddisfare gli scalmanati di ieri, tuttavia il popolo s’aspettava di vedere il re con tutto il suo seguito, in tutta la sua volontà imperiosa di sovrano e signore; e quella arrendevolezza, quel cedere al tumulto giudicata una prova di debolezza, che lo spogliava di ogni regalità, scemava con la maestà del re anche l’entusiasmo del popolo…


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del re Federigo D'Aragona e di Francesco Ventimiglia, conte di Geraci. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921
Disponibile presso Librerie Feltrinelli e in tutti i siti di vendita online. 
Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: i fratelli Palizzi. Tratto da: Mastro Bertuchello

Poco oltre la metà della strada Celso, che correva lungo le mura settentrionali della città antica, – ancora visibili, – sorgeva un palazzo, detto degli Schiavi. Non si sa l’origine di questa denominazione, al tempo dei Saraceni e dei primi re normanni, quando Palermo serbava ancora la sua forma primitiva, ed era separata con mura e torri dagli altri quartieri sortivi intorno fin dai tempi dei Romani, di là dalla Sera el Kes (via della Calce) diventata per trasformazione la strada del Celso, si stendeva la regione transpapiretana, oggi detta del Capo, il quartiere della Beccheria, quello degli Amalfitani, dei Catalani, e via dicendo. Quella che oggi è la parte bassa del quartiere del Capo, era al tempo dei Saraceni il quartiere degli Schiavi o Schiavoni. Il cadì di questo quartiere abitava nella Sera el Kes. Può darsi che la sua casa fosse appunto quella detta qualche secolo dopo il Palazzo degli Schiavi. Nel 1322 esso apparteneva a due fratelli della nobile famiglia dei Palizzi, Damiano e Matteo, figli di quel Nicolò che aveva eroicamente difesa Messina, nel secondo assedio postovi dagli Angioini, e che a Roberto d’Angiò e a Filippo de Valois aveva dato la memoranda fierissima risposta(2). La gloria di Nicolò aveva schiuso le porte della reggia ai figli. Damiano era entrato nel chiericato, Matteo era destinato a continuare il casato. Era di poco maggiore età dell’infante Pietro, e ne divenne compagno, consigliere e guida nei sollazzi e nelle avventure.
Nel 1322 Matteo aveva circa vent’anni. Di statura media, bruno, pallido in volto, neri i capelli e gli occhi; non era brutto, ma aveva nello sguardo freddo e tagliente come la lama di un pugnale qualche cosa che agghiacciava il sangue e annullava la volontà. Tutti i lineamenti del suo volto, dal naso lievemente aquilino, al taglio della bocca, dall’ampiezza della mascella alla durezza del mento prominente, dalla convessità della fronte alla ruga che s’insolcava diritta e profonda fra le sopraciglia folte e nere, rivelavano una volontà tenace, una grande ambizione di dominare, violenza, simulazione e insensibilità di cuore. V’era qualche cosa di felino e di volpino.
Tutto volpe era invece Damiano, anche negli occhi gialli. Egli aveva quattro anni più di Matteo, sul quale aveva, più che per l’età, acquistato un certo ascendente con la sottigliezza dei suoi suggerimenti, con la ricchezza degli espedienti che la sua mente feconda sapeva trovare per trarsi d’impaccio, con la perfidia tenebrosa de’ suoi disegni. Era anche lui ambizioso, ma non soltanto per sé, anche per Matteo, pel quale aveva una certa tenerezza.
Nicolò non aveva lasciato loro altre ricchezze che la fama: poche terre che non rendevan molto; e che non consentivano a Matteo di sfoggiare come i Chiaramonte, i Ventimiglia, messer Matteo Sclafani, e quei signori catalani, che venuti poveri in Sicilia, s’andavano arricchendo delle terre tolte con la frode, coi tradimenti, colle concessioni regie, agli antichi signori indigeni.
Matteo aveva però trovato nella Corte una protettrice: la regina Eleonora.
La regina Eleonora, moglie di Federigo, era ancora giovane; nasceva di casa Angiò, e veniva da una corte galante; quel giovane freddo, cupo, energico, gli occhi del quale avevano sinistri bagliori, non le destò nessuna avversione: anzi le parve un frutto strano e di sapor nuovo. E fu lei che lo ammise fra i familiari di corte e lo diede compagno all’Infante Pietro; ciò che le dava occasione di vederselo sempre accanto.
Quando l’Infante era ancor fanciullo e Matteo era un giovinetto, ella li confondeva nella stessa carezza: ma le sue mani si indugiavano di più, e con un piacere diverso, sul capo del giovane Palizzi. Pareva che ella aspettasse che il giovinetto crescesse ancora un po’. Il frutto era ancor troppo acerbo. Con gli anni il desiderio si fece in lei più intenso: nel 1322 Eleonora aveva trentanove anni circa: ed era ancor bella.
Verso la metà di luglio di quell’anno, un pomeriggio, i due fratelli Palizzi se ne stavano in una sala del loro palazzo degli Schiavi. Messer Damiano, in piedi, s’appoggiava a una tavola di quercia, con le braccia conserte; Matteo passeggiava, più fosco del solito: di quando in quando si fermava dinanzi al fratello…


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del re Federigo D'Aragona e di Francesco Ventimiglia, conte di Geraci.  Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921. Disponibile presso Librerie Feltrinelli e in tutti i siti di vendita online. Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: La maledizione di madonna Margherita Consolo. Tratto da: Mastro Bertuchello

Quando messer Francesco verso sera, se ne fu andato, Madonna Margherita si gittò sul letto piangendo disperatamente di dolore, di collera, di gelosia. I sogni che aveva vagheggiato per sé e pei figli svanivano. Ella non sarebbe mai stata altro che la ganza del nobile conte, e i suoi figli, bastardi. Altri avrebbe raccolto l’eredità che ella aveva sperato pel suo Franceschello; quella Madonna Costanza avrebbe con le sue carezze obbligato il conte a scacciare la povera amante. Tradita, abbandonata, forse miserabile, che sarebbe stato di lei? Che dei figli?
Urlava, percotendosi il capo, maledicendo l’intrusa, ardente d’odio e di gelosia, confondendo nello stesso sentimento anche il conte:
- Ah! Tu credi che io mi rassegni? Che io mi lasci portar via tutto? T’inganni! T’inganni!...
Come fu notte, si avvolse in un mantello e fattasi accompagnare da una schiava, uscì di casa. Non era ancora l’ora del coprifuoco, e la Giudecca era accessibile. Madonna Margherita uscì dalla Porta di Bosuemi, che, rimasta entro la città ora più non si chiudeva, e s’avviò pel quartiere degli ebrei, che si stendeva tra le mura meridionali del Cassaro, la odierna piazza di Casa Professa,  il Ponticello e la contrada dei Calderai.
Si fermò a una prima casa addossata quasi a una delle torri dell’antica porta dei Ferrari, e picchiò. Nessuno rispose. Picchiò una seconda volta con mano febbrile; una voce cupa e iraconda gridò di dentro.
- Passa via!
- Aprite, maestro! – disse Madonna con tono imperioso e supplice ad un tempo, – sono una donna e ho bisogno di voi.
- A quest’ora? – borbottò la voce un po’ rabbonita.
- Non ne ho altre; ma aprite.
Una finestretta si aprì cautamente e un volto imbacuccato in una specie di turbante si affacciò a spiare. Parve persuaso, perché rientrò subito. S’udì un suono di chiavi, lo stridore di una toppa, e la porta si schiuse appena per lasciar passare una persona alla volta.
Quando entrarono in una stanza al primo piano, illuminata da una lucernetta, Madonna Margherita gittò una borsa sopra la tavola e disse:
- Mastro Moisè, ho bisogno dell’arte vostra...
Era una stanza fosca, in fondo alla quale era un fornello acceso, che schiudeva un occhio di fuoco nell’ombra, e illuminava di lievi bagliori rossi alcune storte e alambicchi di vetro appesi su la parete accanto, o disposti in fila sopra scansie di legno. Delle carte giallastre, sparse di segni strani, pendevano dalle pareti: sopra uno stipo nero, un uccello, che pareva un Ibis, impagliato, diritto su le zampe sembrava dominasse un gufo anch’esso impagliato: sopra un’altra scansia v’erano libri; e un grosso libro era aperto sul leggio posto sulla tavola, su la quale era anche una specie di cannocchiale, e un foglio pieno di cerchietti sui quali erano disegnate figure geometriche, stelle e simboli.
Mastro Moisè, un vecchio con una gran barba bianca, e il naso adunco fra gli occhi lunghi e giallognoli, avvolto in una zimarra d’un colore indefinibile, dato uno sguardo alla borsa, disse:
- Parlate, madonna; vi ascolto.
- Voi leggete negli astri.
- Quando Dio vuole che si riveli la verità.
- Dio vorrà. Ebbene, voglio che vi leggiate la mia ventura...
Mastro Moisè fissò in volto Madonna Margherita, e vi scorse le tracce della interna agitazione.
- Voi soffrite di qualche gran dolore.
- Grandissimo, mastro; ma non è di questo che...
Improvvisamente si interruppe, volse gli occhi su la schiava che era intenta a guardare con stupore e soggezione quella stanza, e disse:
- Maestro Moisè, ho bisogno d’esser sola con voi; fate che questa schiava entri in una stanza donde non possa ascoltarci.
Il vecchio israelita non sembrò contento della domanda; guardò intorno, poi aperto l’uscio di scala, disse:
- Può aspettar di là.
Appena furono soli, madonna Margherita, trattolo in fondo alla stanza, gli disse:
- Mastro, non mi importa conoscere la mia ventura; è altro che io voglio sapere. L’uomo che io amo, che mi ha fatto sua, che mi ha reso madre, sposa un’altra donna... Io speravo che avrebbe legittimato i miei figli: queste nozze invece li condannano all’oscurità e alla povertà: mastro, io voglio che quella dama sia infeconda; io voglio che l’uomo che mi abbandona, maledica queste nozze; io voglio che egli ritorni a me, che l’ho fatto padre. Tu sei savio, tu conosci i segreti di tutte le cose, tu leggi nel futuro... Contentami, e ti darò quanto vorrai!...
Mastro Moisè non rispose. Si raccolse un poco in sé, e poi domandò:
- Chi è codest’uomo?
- È necessario che lo sappiate?
- Certamente...
- Ma...
- Del resto io lo so. È messer Ventimiglia..
- Ebbene, sì...
- Voi domandate cosa che non è in poter mio...
- Mastro, voi possedete la scienza. Che cosa non può la scienza? O per arte magica, o per arte medica, voi potete tutto. Ve ne scongiuro, mastro; si tratta di salvare sei innocenti... Tutto quanto posseggo è vostro!...
- Venite, – disse mastro Moisè, – interroghiamo le stelle.
E la condusse per una scaletta su nell’altana, che dominava i tetti della città scuri e silenziosi. Sul loro capo nella volta azzurra scintillavano le stelle e per l’aria erravano i profumi della primavera.
Il mastro, che aveva recato con sé l’astrolabio, cominciò a guardare le stelle e a far dei conti. Dopo un istante disse con voce turbata:
- Veggo del sangue.
Madonna Margherita si sentì rabbrividire.
- Del sangue?
- Sì, madonna! Raccomandatevi a Dio!...
- Chi spargerà questo sangue?
- La vendetta degli uomini. Andate, madonna, e pregate l’Altissimo che non abbassi la mano sopra di voi: perché in verità vi dico, molti piangeranno per cagion vostra.
- Ma i miei figli? I miei figli?
- Agar disperò nel deserto, e però Ismael non fu l’eletto di Dio. Non disperate, e aspettate.
Madonna Margherita si avviò verso casa col cuore tempestato da cento passioni diverse. Le ultime parole del saggio che leggeva negli astri, sebbene enigmatiche, le aprivano l’anima a speranze e a scoramenti, ma quella vendetta, quel sangue, le gelavano il sangue. Da chi sarebbe venuta la vendetta? Chi sarebbe stata la vittima? Lei? Non importava, purchè Madonna Costanza non godesse delle nozze; purchè Franceschello cingesse la corona di conte! Volle passare dinanzi alla casa di messer Francesco: attraverso una finestra vide un lume; pensò che lì forse era la camera nuziale, e che in quel momento Costanza offriva la bella e fresca bocca giovanile ai baci di messer Francesco; e allora alzò i pugni minacciosi verso la finestra, gridando:
- Che il tuo grembo sia maledetto come un terreno sterile; che le tue gioie si tramutino in pianto! Sposa di maggio, non godrai del cortinaggio!


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del re Federigo D'Aragona e di Francesco Ventimiglia, conte di Geraci.  Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00. 
Nella versione originale pubblicata dalla casa editrice La Gutemberg nel 1921. Disponibile presso Librerie Feltrinelli e in tutti i siti di vendita online. Sconto del 20% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 



Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Tratto da: Latini e Catalani vol. 1

Nessuno, neppur lui sapeva perché avesse questo nome. Era forse un soprannome? Un’ ingiuria? Da bambino lo chiamavano Bertuchello; e continuavano a chiamarlo così, ed egli stesso si sottoscriveva “Mastro Bertuchello” sebbene la sua mamma gli avesse detto che egli era stato battezzato dalla chiesa madre di Geraci, col nome di Giovanni e che a suo padre, Maso Mangialavacca, “borgese” di Geraci, era stato tramandato quel curioso nome da uno zio canonico del duomo di Cefalù.
Mastro Bertuchello era veramente giovane; aveva ventitré anni ed era venuto in Palermo da pochi mesi, dopo più d’un anno dalla catastrofe del conte suo signore.
La tragica fine di messer Francesco Ventimiglia, conte di Geraci, e signore di un vastissimo stato, gran camerario del re, benvoluto dal re Federigo, e in breve volger di tempo travolto nella rovina da odii di baroni, gli aveva fatto abbandonare i luoghi, dove aveva trascorso la sua fanciullezza.
Egli era stato uno dei familiari della casa del conte. Messer Francesco lo aveva tenuto a sue spese allo studio di Bologna; e pensava forse di fargli ottenere qualche ufficio nella Curia, o di farne un notaro, dacché Bertuchello aveva dichiarato di non sentir nessuna vocazione per la chierica o pel saio. Ma la rovina del conte, la confisca dei beni, le persecuzioni, le prigionìe, i supplizi con cui furono perseguitati i congiunti, i seguaci, i familiari del nobile signore, lo balestrarono da prima a Cefalù, e da Cefalù a Palermo.
Egli era scampato per miracolo alla strage. Proprio la vigilia dell’assalto al castello, messer Francesco lo aveva spedito per la seconda volta a un altro grande feudatario, messer Matteo Sclafano conte di Adernò e di Ciminna.
Bertuchello non compì l’ambasceria. La notizia della miseranda fine del suo signore lo raggiunse per via. Gli parve miglior consiglio mettersi in salvo; e dopo essersi tenuto nascosto per qualche tempo, se ne andò a Cefalù con l’intenzione di aspettarvi qualche nave, che lo trasportasse a Messina. Dopo qualche mese ne trovò una che invece andava a Palermo.
A Palermo c’era per altro un lontano parente di sua madre, chierico di san Michele Arcangelo. Bertuchello andò a trovarlo: e per suo mezzo, nel novembre del 1338 ottenne dal Comune l’incarico di insegnar grammatica ai fanciulli, nella scuola di S. Domenico.
E così mastro Bertuchello, se non potè essere scriba nella Curia o notaro, diventò maestro di scuola; e vi era già da un anno.
Per altro quest’ufficio non gli spiacque. Stando allo studio di Bologna Bertuchello aveva preso amore agli studi letterari. Oltre agli studi di diritto e di teologia, ai quali era obbligato, ne faceva altri per suo conto, procurandosi libri, e copiandoseli in bella scrittura. Nella baraonda degli studenti, che convenivano in quell’Archiginnasio, da ogni parte d’Italia, ve n’erano che preferivano leggere Virgilio e Ovidio, e che scrivevano rime volgari per le loro belle, e satire latine contro i loro maestri. Tra le sbornie, i tumulti, le coltellate e le lezioni di diritto, Bertuchello acquistava così una cultura più larga e più umana; che diventava passione, di mano in mano che egli capitava qualche autore latino, e che se lo ricopiava. Allora non c’era la stampa; i libri erano manoscritti o su pergamena o su carta bombicina, e costavano molto per la borsa di un povero studente. Possedere una bibliotechina era indizio di ricchezza. Non potendo acquistare i bei codici miniati, Bertuchello se ne faceva le copie, la notte, al lume della lucernetta. In questo modo si era formata una piccola biblioteca, la quale, oltre alle Glosse di Accursio, al Digesto di Azzo da Bologna, alla Somma di S. Tommaso e agli Otia imperialia di Giovanni di Tilbury, conteneva la Summa dictaminis trattato di retorica di Giovanni di Bonandrea, e le Etimologie di Isidoro, alcuni scrittori latini, quelli che allora eran più divulgati. Possedeva una Eneide di Virgilio; le Metamorfosi di Ovidio, gli Officii di Cicerone, le favole esopiane, qualche opera di Seneca, le Confessioni di S. Agostino, un Boezio, un Quintiliano, la Metafisica di Aristotile. E inoltre qualche cantare romanzesco, la storia di Tristano e Isotta, una raccolta di rime volgari, e la prima parte di un poema, che aveva acquistato celebrità, ma che non correva ancora intero: la Commedia di Dante. Egli aveva potuto trascriversi l’Inferno.
Questi libri, che formavano il suo bagaglio letterario, aveva portato con sé a Geraci, e si erano salvati dal saccheggio, perché li aveva nella casa paterna, e le soldatesche del re, che cercavan danari o roba, non avevan saputo che fare di quegli scartafacci.
A Palermo, nella sua cameretta nel vicolo di S. Michele Arcangelo, Bertuchello li aveva schierati in bell’ordine in una scansia che si era costruita da sé. Aveva certe sue idee da “filosofo”, per le quali diceva che un uomo deve saper provvedere da sé alle cose che gli sono utili: e che se c’erano maestri legnaioli e maestri leutari, questa non era una ragione perché egli non potesse fabbricarsi da sé una scansia pei libri, un banco per scrivere e un liuto per suonare nei momenti di ricreazione. Anche la zimarra s’era cucita da sé, e si sarebbe tessute le calze, se avesse avuto il tempo e gli strumenti.
Donne in casa non ne aveva. Gli teneva compagnia un grosso gatto grigio, baffuto, con gli occhi verdi. Gli era venuto un giorno in camera, che era ancora micino; e vi era rimasto: egli l’aveva battezzato con nomignolo affibbiato dagli studenti a uno dei lettori di Bologna, che aveva le mani come artigli e abitudini da predone: messer Granfia.
Tra lui e il gatto s’era stretta una grande amicizia, forse perché anche messer Granfia aveva abitudini da filosofo. Quando Bertuchello sedeva al suo banco, per studiare, messer Granfia gli si accoccolava su la spalla, e pareva leggesse anche lui. Le notti d’inverno, gli scaldava le ginocchia, e gli si coricava ai piedi del letto. Bertuchello gli faceva dei discorsetti, che mastro Granfia ascoltava ammiccando con gli occhietti verdi, e rispondendo con delle capatine. A tavola, mastro Granfia stendeva la zampa sul piatto di mastro Bertuchello e, tirava tranquillamente la sua porzione di pesce o di carne, che mangiava sul desco, da buon commensale.
Una volta, Bertuchello ebbe l’idea di portarselo a spasso, e se lo pose sotto la zimarra; ma appena fuori dell’uscio, messer Granfia spiccò un salto spaventato, e se ne fuggì in camera.
- Forse avete ragione di sdegnare la gente, e di preferire la solitudine, messer Granfia, – disse Bertuchello; – voi siete più savio di me. Pure avremmo chiacchierato un poco, al sole; e avremmo riso insieme del mondo.
Ogni giorno, dopo il sonnellino meridiano, mastro Bertuchello se ne andava a passeggiare un poco. Scendeva per la strada Marmorea o Cassaro, usciva dalla porta dei Patitelli, che s’apriva presso la chiesa di S. Antonio, sulla vecchia spiaggia, già da un prezzo abbandonata dal mare; e se ne andava bighellonando sul porto della Cala, o a vedere il gran lavorìo dei muratori che costruivano il nuovo palazzo dei Chiaramonte sullo sperone del sobborgo dei Greci; il quale anticamente chiudeva il grande porto, ma disseccato questo, sorgeva ora come una piccola altura al lembo della vasta piazza Marina.
Ma lì, dinanzi a quella mole superba che già giganteggiava, come segno visibile della possanza dei Chiaramonte, mastro Bertuchello rievocava la catastrofe del suo signore. I Chiaramonte erano stati i più fieri nemici del conte di Geraci; ma forse non avevano avuto torto.


Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1. Romanzo storico siciliano ambientato nella Palermo del 1300, al tempo del re Federigo D'Aragona e di Francesco Ventimiglia, conte di Geraci. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00
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lunedì 19 novembre 2018

Luigi Natoli: gli alberghi di Palermo nel 1891. Tratto da: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891


HOTEL DE PALMES, tenuto da Enrico Ragusa, via Stabile – albergo di primo ordine, con giardino, colla terrazza splendida posizione – Pensione da 12 a 16 lire al giorno – Per appartamenti, da convenirsi;
HOTEL TRINACRIA, tenuto da Ernesto Ragusa, in via Butera: molto elegante, con ampia terrazza sul golfo. Camere da L. 2,50 a L. 5, candela L. 1, thè da L. 1 a L. 1,50. Colazione da L. 3 a L. 3,50, pranzo L. 5,50, in camera L. 6,50. Pensioni L. 10;
HOTEL DE FRANCE, piazza Marina condotto da I. Wenen, buono albergo, cucina eccellente – si spende un po’ meno dell’Hotel Trinacria, camere a L. 4, pranzo a L. 5, pensione L. 10;
HOTEL DE L’EXPOSITION, tenuto da Ragusa e Allongi, dirimpetto della Stazione Centrale, 125 stanze;
GRANDE ALBERGO E RISTORAZIONE DELLA ESPOSIZIONE, via Quintino Sella, rimpetto l’Esposizione (aperto dal 1 settembre 1891);
GRAND HOTEL DE LA PAIX, via d. Libertà, rimpetto il Giardino Inglese;
HOTEL MILANO, proprietario Luigi Moretti, via Emerico Amari;
ALBERGO D’ITALIA, piazza Marina 60, camere da L. 2 a L. 2,50; pensione da L. 6 e 7;
HOTEL CENTRALE, con trattoria, corso Vittorio Emanuele n. 365, presso i Quattro Canti, camere da L. 2 a L. 3, colazione da L. 1 a 1,50 e 2, pranzo da L. 3,50 a 4; pensione da L. 7 a 10;
HOTEL REBECCHINO, con trattoria a pianterreno, corso Vittorio Emanuele 508 dirimpetto la Cattedrale, camere a servizio L. 4;
HOTEL MERIDIONAL, tenuto da Fr. Siringo, via Macqueda 167;
HOTEL S. OLIVA, tenuto dai fratelli Ragusa, piazza S. Oliva, pensione da L. 8 a L. 10;
ALBERGO ARAGONA, tenuto da La Mattina, in via Alloro n. 90;
ALBERGO PIZZUTO, via Bandiera 30;
ALBERGO CONCORDIA, via Calascibetta 26;
ALBERGO NUOVA MARGHERITA, via Calascibetta;
ALBERGO BELVEDERE, piazza S. Francesco 1.

Pensioni
PENSION SUISSE, tenuto di Ildebr. Martinez, via Vittorio Emanuele 187;
PENSION GRANDE BRETAGNE, via Bandiera 81.
Camere mobigliate
Se ne trovano in gran numero:
Piazza Vittoria, accanto la chiesa dei SS. Elena e Costantino; Piazza dell’Indipendenza, casa Milo e Palazzo Fici;
Piazza Bologni n. 23;
Piazza Bellini n. 6;
Piazza Marina n. 33;
Via Porto Salvo n. 3;
Via Castello n. 26.
Il prezzo varia secondo la località e l’arredamento. Una camera può affittarsi da 40 a 70 lire; un appartamento fino a 200 o 300 lire al mese.
È utile stabilire le condizioni nel contratto con la massima cura. 

Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891. Una guida turistica che riporta il visitatore al tempo dell'Esposizione Nazionale del 1891, ma ancora validissima per quello che è il centro storico palermitano. 
Nella versione originale pubblicata dall'editore Carlo Clausen nel 1891 e corredata dalle foto e dalle pubblicità dell'epoca, con allegato il pieghevole della cartina di Palermo (sempre del 1891)
Disponibile presso le Librerie Feltrinelli e in tutti i siti vendita online. 
Sconto del 15% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it 

Luigi Natoli: dalla chiesa di S. Maria della Catena al Conservatorio di Musica... - Tratto da: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891


Chiesa di S. Maria della Catena (P.6 E6) – Nel sito stesso che segnava la punta dello sprone che dalla Kalesa si allungava fino alla Cala, chiudendo il bacino di Piazza Marina, sorgeva anticamente una chiesetta denominata della Catena perché ivi si annodava la catena che chiudeva il porto e che nel 1063 fu rotta dalle navi pisane alleate del conte Ruggero contro i musulmani. L’antica chiesa è ricordata in diplomi del 1330. Distrutta, fu riedificata nel principio del secolo XVI così come oggi si vede. Elegante e di bellissimo effetto è il portico ad archi scemi, sorretti da due piloni che s’innalzano svelti e leggiadri come torri, coronati da arabeschi di gustosissimo disegno. Questo fregio gira intorno per la chiesa. L’interno, a tre navi, è stato recentemente restaurato, toltine i pesanti stucchi che deturpavano le ogive e nascondevano le finestrette archiacute. Di opere d’arte nell’interno sono notevoli alcune storie a rilievo che si credono d’uno dei Gagini, una statua della Madonna e un San Gaetano del Novelli. Peccato che le tre absidi siano miseramente nascoste da fabbriche mostruose; quel che se ne vede rende più sdegnoso il viaggiatore contro il barbaro seppellimento.
Il fabbricato che copre le tre absidi della chiesa della Catena è occupato dalla Sopraintendenza agli Archivi di Stato, la quale fu fondata nel 1843 nella casa dei PP. Teatini, cui apparteneva la chiesa, che al 1810 era servita di ospedale alle truppe inglesi. Gli Archivi di Stato Siciliani sono importantissimi così per le pergamene greche, arabe e latine, alcune delle quali del secolo XI; come pei volumi e per le filze che vengono dal secolo XIII fino a noi, e contengono tutti i documenti della storia e della civiltà della Sicilia. Agli Archivi è annessa una Scuola di paleografia e una Biblioteca, oltre una sala per gli studiosi.
Accanto alla sopraintendenza agli Archivi sorge il Conservatorio di S. Spirito, destinato ai trovatelli. Un tempo questo edificio fu Ospedale di S. Bartolomeo; nel 1826 l’ospedale fu rimosso e riunito all’Ospedale Civico; e vi fu stabilita una ruota per gli esposti. I maschi ai sette anni sono mandati all’Ospizio di Beneficenza, le femine son trattenute e istruite nel Conservatorio stesso. L’Affresco che decora il prospetto è di Vincenzo Riolo, e rappresenta la Carità.
Poco discosta dal Conservatorio e al limite della via Vittorio Emanuele si trova la
Porta Felice (P. E6) – Essa dà sul mare; fu cominciata nel 1582 sotto il vicerè Marcantonio Colonna e prese il nome della vice regina donna Felice Orsini. Alla partenza del Colonna la costruzione fu interrotta e ripresa dal vicerè duca di Feria nel 1603, poi nel 1637 dal vicerè duca di Montalto che vi pose le due statue di Flora e Pomona e le due fonti; ma le ultime decorazioni, cioè le fonti marmoree laterali vi furono aggiunte nel 1644 dal vicerè Cabrera. Il disegno della porta consiste in due grandi pilastri coperti di marmo grigio, con colonne, cornici, fregi e gli stemmi della città.
Uscendo dalla porta e voltando a mancina, si lascia l’antemurale che difende il seno della Cala, e l’ufficio di Sanità Marittima che sorge sul sito dove era un fortino detto la Garita; e si costeggia la Cala, che al lato opposto alla Sanità era difesa dal forte di: 
Castellammare – Questa fortezza pare che sia preesistita alla venuta degli Arabi; infatti è chiamata spesso Castrum vetere, per distinguerla dal Kassr, detto Castrum novum. Dagli Arabi e dai Normanni fu restaurato ed afforzato, ed altre opere vi furono fatte nei secoli XV e XVI, che cancellarono ogni vestigio e della moschea musulmana e delle opere antiche. Fu da questo Castello che piovvero nel 1848 e nel 1860 le bombe sterminatrici della città in rivoluzione.
A piè della Fortezza e sulla banchina della Cala sorge la piccola Chiesa di Piedigrotta, edificata nel secolo XVI e così detta per una piccola grotta che resta ora chiusa in una cappella. In questa chiesa si conserva appeso ex voto il grande fanale a forma d’aquila, che illuminava la poppa della galera capitana di Sicilia alla battaglia di Capo Corvo, vinta da Ottavio d’Aragona, ammiraglio palermitano, sopra i turchi nel 1613 (n.d.e.: distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale)
Costeggiando la via esterna tra il Castello e la città e risalendo sulla linea degli antichi bastioni si trova a sinistra il
Monumento delle tredici vittime, (P. G5) consistente in un obelisco di marmo bianco, con palme di bronzo agli spigoli e una stella di bronzo al vertice; esso non è di belle forme: fu eretto in memoria dei tredici fucilati del 14 aprile 1860, i nomi dei quali si trovano iscritti in tavole marmoree che circondano il basamento. Sul muro del bastione, dove furono addossate le vittime della tirannide borbonica, si trova una lapide che reca i nomi dei fucilati e ricorda l’insurrezione del 4 aprile.
Accanto a questo monumento si apriva la antica porta di San Giorgio che venne abbattuta; entrando per essa nella via Squarcialupo si lascia a destra l’Ospedale Militare (P.41 G5), nel convento di Santa Cita: a sinistra si trova la
Chiesa di S. Giorgio dei Genovesi (P.17 F5) – È il più perfetto monumento dell’architettura siciliana del rinascimento, ed è uno dei più belli che si trovino in Italia e altrove. Anticamente vi sorgeva una chiesetta dedicata a San Luca, ma ottenutala la colonia genovese che era numerosa e ricca, la ricostruì dedicandola a San Giorgio, nel 1576. È di stile puro, semplice ed elegantissimo; divisa a tre navi; le arcate svelte sono sostenute sopra gruppi di quattro colonne composite, poggiate su unica base; la cupola ottagona poggia sopra due ordini di colonne, sedici corintie, nel primo, sedici composite nel secondo. Colonne, cornici, ornati son di marmo bianco, leggermente annerito dal tempo; i quadri sono di Jacopo Palma il vecchio, Luca Giordano, Filippo Paladino e Bernardo Castelli. – La chiesa è aperta le domeniche di mattina.
Accanto a essa, sulla medesima linea si trova un’altra chiesa, detta
Chiesa dell’Annunziata, sul cui prospetto è incisa la data 1501; ma l’interno è più antico trovandosi mensione di essa nel 1345. – Sull’architrave della porta d’ingresso è scolpita una Salutazione;
l’interno è di stile ogivale siciliano, a tre navi, divise da dodici colonne, sui capitelli delle quali sono scolpite le dodici Sibille. Il soffitto, di legno, diviso in 16 cassettoni si crede dipinto da Tomaso Vigilia, pittore palermitano del secolo XV, ma sotto restauri molto posteriori l’antico è scomparso. Notevole un antico trittico con S. Anna, la Vergine e S. Giovanni, con questa iscrizione: Jacopo Michele detto Gerardo da Pisa me pinse. (non più esistente perchè distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale)
Questa chiesa è storica perché vi avvenne l’8 settembre del 1518 l’uccisione di Giovan Luca Squarcialupo, che aveva tentato di scotere il giogo di Spagna per istituire una repubblica in Palermo. Convenuti qui i capi della rivolta, con altri nobili, furono da questi a tradimento uccisi. Da questo fatto venne il nome alla via. Il La Lumia opina che il fatto sia accaduto in altra chiesetta, che sorgeva accanto – dove fu posta recentemente una iscrizione apposita, e dove è il Reale Conservatorio di Musica ...

Luigi Natoli: Guida di Palermo e suoi dintorni 1891. Una guida turistica che riporta il visitatore al tempo dell'Esposizione Nazionale del 1891, ma ancora validissima per quello che è il centro storico palermitano.
Nella versione originale pubblicata dall'editore Carlo Clausen nel 1891 e corredata dalle foto e dalle pubblicità dell'epoca, con allegato il pieghevole della cartina di Palermo (sempre del 1891) Disponibile presso le Librerie Feltrinelli e in tutti i siti vendita online. Sconto del 15% se acquistato dal catalogo prodotti della casa editrice al sito www.ibuonicuginieditori.it