venerdì 21 luglio 2017

Luigi Natoli: La giornata di Giorgio Comito. Tratto da: Il caso di Sciacca.


Giovanni di Luna, malgrado la vigoria della sua vecchiezza era caduto sul letto, soffocato da un nodo di pianto. I servi, muti, stavano nell’atteggiamento afflitto di chi non sa come consolare un animo grandemente addolorato. Il vecchio signore non resisteva a quella separazione. Già poco prima i suoi due figli Francesco e Tomaso eran venuti alle mani tra loro rabbiosamente, e l’uno morivane per fierissima ferita al capo, l’altro restava inutile a sé ed agli altri, con le mani orribilmente squarciate. Adesso era la volta di Sigismondo, il suo primogenito, l’onore della casa, che partiva per la vendetta, alla testa di un vero esercito; che andava ad assaltare un castello forte e munito e difeso da valorosi. Nel dividersi dal figliuolo, il vecchio sentiva stringersi il cuore; era forse la prima volta che la commozione pietosa rammolliva quell’anima dura e vendicativa.

Sigismondo cavalcava.

Era la notte del 18 luglio, calda e pensante. La luna splendeva purissima su tutta la campagna di Sciacca; i colli, i boschi, le pianure si distinguevano nettamente nella tenue luce azzurrognola; e giù, il mare aveva un color di acciaio brunito, orlato al lido di un sottile filo d’argento. I cavalli sollevavano nuvole di polvere; pure, nel fosco, tralucevano gli elmi e le corazze.

Sigismondo cavalcava innanzi a tutti; percorrendo le vie stesse dove avea ricevuto oltraggi, gli pareva che i sassi e i rovi ripetessero voci di scherno, onde cupo e silenzioso, stringeva le redini e pungeva i fianchi del cavallo. E il cavallo scoteva la nobile testa, drizzando gli orecchi e sbuffando. Così giunse a un trar d’archibuso delle mura di Sciacca; e si fermò.

La città era immersa nel sonno; su le torri le scolte sonnecchiavano, di là dalle mura si scorgeva il castello normanno, dritto e nero nella notte luminosa; più in là, fuori delle mura, il monastero delle Giummare.

La truppa si era fermata dietro il signor Sigismondo, e guardava anch’essa. Accursio Amato, Ferrante Lucchesi, Erasmo Loria, Calogero Calandrini, Cola Vasco, Gian Pietro Infontanetta, Pietro Giliberto e Cesare Imbrogna gli stavano intorno; in disparte Giorgio Comito, avventuriere albanese, con una banda selvaggia di greci-albanesi raccolti a Mezzoiuso, a Palazzo Adriano, a Contessa: dall’altro lato il signor Muchele Impugiades con una schiera di cavalli, assoldati dal vecchio don Giovanni.

Guardavano tutti la città, e ognuno sentiva nel petto una emozione indefinita e vaga; quel tale turbamento che precede l’accingersi a una impresa. Giorgio Comito però aspirava l’odore delle stragi e delle rapine; e il signor Sigismondo e i suoi compagni sentivano risonare nell’animo l’ora della vendetta.

Allora il conte Sigismondo divise le sue schiere in due: una comandata dal capitano Impugiades andò ad appostarsi al monastero delle Giummare, l’altra con lui scese dai colli fin presso alle mura di Sciacca e attese il giorno.


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