venerdì 22 aprile 2016

I mille e un duelli del bel Torralba di Luigi Natoli


 

Pag. 460 – Tranne qualche rara eccezione tutti i romanzi di Luigi Natoli furono pubblicati in appendice al Giornale di Sicilia con lo pseudonimo di William Galt. Alcuni di questi ebbero la fortuna di essere stampati in libro grazie all’interessamento di qualche casa editrice, mentre altri
rimasero nelle ingiallite pagine dei Giornali abbandonati a un ingrato oblìo. A partire dal 2014 la nostra casa editrice, dopo un complesso lavoro di ricerca e ricostruzione ha pubblicato questi romanzi dimenticati e finalmente capolavori  come Alla guerra! – Squarcialupo – Gli ultimi saraceni sono stati restituiti al pubblico, alcuni anche a distanza di cent’anni. I mille e un duelli del bel Torralba è l’ultima di queste opere strappata da noi all’abbandono, ed oggi a novant’anni esatti dalla sua apparizione sul Giornale di Sicilia rivive per la prima volta in un libro, incontrando nuovi lettori, come se si trattasse di un inedito. Un inedito di lusso. 
 

Fabrizio è il secondogenito della nobile famiglia dei Torralba. In base alle leggi del tempo, titoli e ricchezze sono tutti del primo figlio maschio. A lui e al fratello minore spetta solo il cavalierato e un misero assegno mensile, troppo poco per chi ha lo smisurato bisogno di affermarsi nella società che conta. Troppo poco per chi ha un temperamento irrequieto e ribelle; per chi ama l’avventura, le donne, la bella vita e per Fabrizio di Torralba tutto questo è sempre poco e tutto converge nella punta della sua lama. Strana vita la sua, che l’obbligava a stare sempre con una spada in pugno. Ma Fabrizio è anche portatore dei nobili valori dell’animo, e accorre di continuo in difesa degli oppressi e indifesi.
Tutela il suo onore e quello di chi gli sta accanto, meglio se è di una bella dama.
In questo romanzo del grande narratore siciliano, Fabrizio di Torralba non è l’unico protagonista e divide le scene con la ricchissima Palermo borbonica del primi dell’800, fedele al re e al contempo incubatrice di idee giacobine, sotto l’influenza inglese e la rassegnazione di un popolo affamato.
Prezzo di copertina € 24,00 – Sconto 15% - Spedizione gratuita. 
Per ulteriori informazioni: ibuonicugini@libero.it 

mercoledì 20 aprile 2016

Luigi Natoli e "Il piede del Crocifisso": la baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.


 
Un giorno, era nel 1219, dalle moltitudini del Monte Carmelo giungeva ad Alessandria un vecchio eremita: pallido, affranto dal lungo viaggio, egli non chiese un ospizio per posare le membra, né un’osteria per rifocillare le forze; i suoi occhi sfavillavano di una luce strana: egli chiese dove fosse il palazzo del patriarca, di Atanasio palermitano, della nobile famiglia dei Chiaramonte.
E quando egli fu al conspetto del patriarca:
- Padre, benedicimi! – disse – io sono Angelo eremita; vengo da Monte Carmelo; recomi per divin volere a Palermo... Ho avuto una visione, ho visto il Signor nostro, che mi ha detto: – Sorgi, o figlio, e portati ad Alessandria: ivi il vescovo ti darà la mia immagine scolpita da Nicodemo, le reliquie di Giovanni Battista, di Geremia profeta, di Giorgio, e l’immagine della Madre mia, dipinta da Luca; affinchè trasportati in Italia, si sottraggano al furore degli empi. Ed eccomi a te, o padre; benedicimi, e compi il volere di Dio!
Atanasio abbracciò il frate, si inginocchiò e sclamò:
- Te beato, o figliolo, cui la pietosa opera fu affidata!
E così Angelo ebbe il prezioso carico ed entrò in mare; e dopo avere alquanti dì navigato, giunse in Palermo, e cercò il fratello di Atanasio, il magnifico Federico Chiaramonte, signore di Caccamo, cavaliere di Papa Onorio III, e difensore della Fede.
Quando si seppe di questa venuta, in folla trasse il popolo al porto, parendo a ognuno uno speciale favore del cielo.
E il Crocifisso in solenne processione attraversata la città vecchia, per la porta di Bosuemi passò nella Brigaria e di lì nella Kalsa, fino alla chiesa di S. Nicolò dove era la cappella dei Chiaramonte. Ed ivi fu deposto il bel Crocifisso di Nicodemo nell’anno 1220.
Passano cento anni: altra gente è a Palermo, altri usi. Francesco Antiocheno è arcivescovo, e Manfredi Chiaramonte il più potente barone dell’isola.
Un bel giorno Manfredi, che sognava sempre nuovi favori da concedere ai suoi concittadini, fa levare il Crocifisso di Nicodemo, e l’offre in regalo alla Cattedrale.
- Non è giusto che l’opera sì illustre, anzi divina, abiti una cappella privata: appena gli è degna stanza la vasta cattedrale gotica.
E una processione più grande, più ricca della prima, più solenne, trasporta il simulacro. I canonici in paramenti lo ricevono sulla porta d’ingresso, e fra il salmodiar grave e il fumo degli incensi, la sacra effigie è condotta per le navate della chiesa....
Luigi Natoli: La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue
Prezzo di copertina € 21,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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Nella foto: il Crocifisso della Cattedrale, protagonista della leggenda.
 
 

Luigi Natoli e "I mille e un duelli del bel Torralba": Fra' Diavolo


Fu negli ultimi di novembre 1806. Il 28 si assistette nella chiesa di San Giovanni dei Napoletani ai solenni funerali ordinati dal re in suffragio dell’anima di Michele Pezza, alias Fra Diavolo. Era l’ultimo degli antichi capi delle bande del cardinale Ruffo. In quell’anno, dopo la fuga del re, questi capi banditi avevano tentato di sollevare le popolazioni contro i francesi: ma Rodio era stato preso e condannato a morte; dopo non molto la stessa sorte era toccata al De Satis; due altri Sciabolone ed Ermenegildo Piccioli avevano meglio provveduto a sé stessi, cessando dalla lotta e gettandosi a parteggiare pei francesi. Era rimasto Fra Diavolo, che invano aveva cercato di tener testa alle colonne mobili. Braccato da ogni parte, ferito, s’era nascosto a Baronissi e sperava di imbarcarsi a Salerno, ma era stato riconosciuto, arrestato e l’11 novembre impiccato in Napoli. I suoi funerali in Palermo furono sontuosi. Officiava monsignor Garrano confessore del re e intervennero i signori napoletani, gli ufficiali delle truppe e della corte; e, nella piazza le truppe napoletane e inglesi schierate, che fecero delle piccole scariche a salve durante la consacrazione e la benedizione del tumulo. Pei napoletani quella morte che privava il re legittimo, di una delle sue colonne, fu un lutto; per la cittadinanza palermitana i funerali furono soltanto un oggetto di curiosità; nessuno parteggiò al lutto della corte; e al dolore dei napoletani qualche buon umore ci fece una pasquinata; molti riprovarono, in silenzio delle onoranze rese a un bandito.
Luigi Natoli - I mille e un duelli del bel Torralba
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giovedì 14 aprile 2016

Luigi Natoli e Braccio di Ferro, avventure di un carbonaro: le fucilazioni dei carbonari nel 1820


Da lontano a intervalli gemevano i funesti rintocchi di una campana, poi s’udì un cupo e lento rullar di tamburi. Il doloroso corteo usciva dal Castello.
Innanzi, alcuni birri armati di bastoni e gendarmi con le sciabole sguainate; dietro a loro la compagnia dei confrati con la loro croce, poi i tamburini dei granatieri austriaci, coi tamburi velati a bruno e scordati; un ufficiale coi capelli biondicci e una faccia rincagnata, duro e dispettoso; un drappello di veterani, e indi fra una doppia fila di granatieri, i condannati, uno dietro l’altro, vestiti di una specie di sacco, il capo coperto di un velo nero, le mani legate dietro il dorso, i piedi scalzi. Andava ognuno fra il sacerdote che lo andava confortando, e un gendarme che lo sosteneva e lo guidava.
La strada lunga, lubrica per la pioggia della notte, che aveva qua e là, lasciato pozze fangose, aveva da una parte le case del Borgo, dall’altra il mare livido, che s’infrangeva fra le secche.
Via via che il lugubre corteo procedeva, i pochi passeggeri fuggivano per le strade traverse; qualche bottega ancora aperta s’affrettava a serrare; chi non poteva sottrarsi altrimenti, chiudeva gli occhi per non vedere: ma al suo orecchio giungeva il cupo e lento battere dei tamburi, la voce lamentevole e cadenzata dei sacerdoti, il grido supplice ed esortativo dei confrati che invocavan preghiere per l’anima dei morituri.
Oltre la parrocchia di Santa Lucia, si allargava un vasto piano, diviso in due dallo stradale che conduce a Monte Pellegrino. La parte verso il mare prendeva nome dal convento della Consolazione, che ne segnava il limite settentrionale, l’altra parte dove ora sorgono le carceri, conserva il nome di piano dell’Ucciardone. Era la meta.
Altre milizie austriache e borboniche erano sulla piazza della Consolazione; divise in due ali, l’una di faccia all’altra, perpendicolarmente al muro del Convento, e in modo da lasciare fra loro un largo spazio. Dietro di esse e al principio della piazza eran dei gendarmi a cavallo; più addietro, dalla parte del mare, sulla strada del Molo, i cannoni delle batterie da costa (sparite ora e mutate in magazzini) avevan le bocche rivolte sulla piazza, e i cannonieri stavan con le micce accese, minaccia di un popolo che non c’era!…
Fra l’una e l’altra schiera di soldati in capo alla piazza, poco innanzi al bianco muro del convento erano alcune panchette in fila; allo svolto del fabbricato due carrettoni coperti da una grossa tela. Quelle e questi aspettavano le vittime.
Quando il corteo giunse, a un cenno dell’ufficiale, i granatieri che lo accompagnavano si schierarono fra le due ali, colla fronte al Convento, così da formare con queste, i tre lati di un quadrato spazioso. 
I condannati furono dai gendarmi spinti dai innanzi, sino alle panche.
I sacerdoti abbracciavano le vittime, e rivolgevan loro l’ultima parola di conforto; e un drappello di ventisette veterani, su tre file, staccandosi dal grosso della truppa, si schierava a venti passi dai condannati.
Forse qualcuno dei condannati ripetè le supreme parole dei sacerdoti; essi stavano immobili, con le mani legate dietro le reni, gli occhi serrati nella benda; ma indovinavano, sentivan già il freddo della morte scendere nel loro sangue.
All’improvviso balenìo d’una lama, uno scoppio squarciò il silenzio, una nube di fumo empì lo spazio; quei nove corpi si abbatterono per terra, coi petti infranti… Non erano morti! I veterani borbonici li avevano solamente feriti. Bisognò ricaricare le armi, e tirare ancora due volte su quegli sventurati. Fu un assassinio; e non un giudizio.
Poi le soldatesche si raccolsero, si ordinarono, tornaron via; i preti si avvicinarono ai cadaveri, li benedissero, e si allontanarono anch’essi pallidi e convulsi; sul luogo infame rimasero, tra le panche rovesciate, quei nove corpi, che versavan sangue dalle orrende ferite; e pochi gendarmi e birri incaricati di fare eseguire l’ultimo ufficio.
Allora i confrati si avvicinarono; qualcuno si chinò per toglier le bende a quegli occhi che non vedevan più....
Luigi Natoli: Braccio di Ferro, avventure di un carbonaro, nel volume Tre romanzi del risorgimento italiano di Luigi Natoli.
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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14 Aprile 1857: 159 anni fa nasceva Luigi Natoli

 
Il 14 aprile 1857, ben 159 anni fa, nasceva Luigi Natoli.
In occasione del Suo compleanno, la casa editrice I Buoni Cugini Editori applica il 25% di sconto a tutti coloro che oggi acquisteranno un volume della "Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli".
Per informazioni: ibuonicugini@libero.it
 

Luigi Natoli e le 13 vittime del 14 Aprile 1860


L’episodio del 4 aprile 1860 chiudevasi con una tragedia, com­piuta anche contro la volontà del re Francesco. Il quale, informato subito del moto di Palermo, accogliendo il suggerimento del ministro Cassisi, che non convenisse tingere di sangue i gradini del trono alla sua prima ascensione, e che la grazia avrebbe prodotto un eccel­lente effetto in Sicilia, ordinava fosse telegrafato al Salzano, che ove il consiglio di guerra dovesse pronun­ziare sentenze capitali contro gli arrestati del 4 aprile, si fossero sospese, e se ne facesse rapporto per le ri­soluzioni. E il telegramma, perché avesse tutta la pub­blicità, anzi che in cifra, fu subito spedito nell'ordinario linguaggio, così da essere conosciuto in tutta la linea sino a Palermo.
Ma il governo di Sicilia tenne occulto l'ordine del re; e spingendo alacremente gli atti processuali, dava chia­ramente a vedere quali fossero le sue mire selvagge; onde il re nuovamente faceva scrivere delucidando che la sospensiva della sentenza si riferisse a coloro, che avevano preso parte agli avvenimenti del 4 aprile. In­vano. Il Maniscalco, più realista del re, credendo per le agitazioni cresciute più salutare un esempio di cru­deltà, faceva dal consiglio di guerra, il 13 aprile, pronun­ciare sentenza di morte contro tredici fra i prigionieri, “nella supposizione – dice la sentenza che sieno essi i promotori e complici” del delitto di insurrezione. E la sentenza, fra lo scoramento e il lutto della città, fu eseguita il 14, verso il mezzodì a porta S. Giorgio. Dei tredici fucilati dieci erano degli arrestati del 4, tre furono i presi nei conflitti, come narrammo.
La città ne raccolse i nomi, e decretò loro onore di monumento per tramandar la memoria del sacrificio; ora ne ha raccolto gli avanzi e tumulati con civili ono­ranze. Furono Sebastiano Camarrone, Domenico Cuciflotta, Pietro Vassallo, Michele Fanaro, Andrea Coffaro preso in Bagheria, Giovanni Riso (padre di Francesco), Giuseppe Teresi preso alla Guadagna, Francesco Ventimiglia, Michelan­gelo Barone, Nicolò di Lorenzo, Gaetano Calandra, Cono Cangeri e Liborio Vallone preso a Monreale.
Tanta strage, se strinse i cuori di cordoglio, non disanimò i cittadini.
Luigi Natoli
Nella foto: il monumento alle XIII vittime, eretto nel luogo dove avvenne la fucilazione, nella piazza oggi denominata delle XIII vittime.

mercoledì 13 aprile 2016

Luigi Natoli e "I mille e un duelli del bel Torralba": i duelli di Fabrizio di Torralba


Strana vita la sua, che l’obbligava a stare con una spada in pugno. E tuttavia egli riconosceva che non era un attaccabrighe: vivace sì, e insofferente di prepotenze e ingiustizie; e se si batteva gli era appunto per questo. Facendo l’esame della sua vita si trovava già con una ventina di duelli sulla coscienza. Gli ultimi sostenuti a Parigi non avrebbero potuto essere più buffi, salvo uno, con quel capitano Verger che aveva creduto di offrirsi come un successore di Montlimar e aveva suscitato lo sdegno di Rosalia. Fabrizio aveva trovato ingiuriose quelle proposte, il capitano gli aveva detto che non aveva bisogno di lezioni; Fabrizio aveva rimbeccato, ne era corsa una sfida, si erano battuti, il capitano aveva ricevuto un colpo alla testa che lo aveva tenuto per un mese a letto: Fabrizio un colpo al braccio e se l’era cavata in quindici giorni. Ma gli altri duelli? Li passava in rassegna. Una volta si era battuto perché aveva riso al vedere un moscardino con un enorme colletto che gl’imprigionava il mento, e così largo che il capo gli si moveva dentro come la testa di una tartaruga nel guscio. Il moscardino si era fatto rosso come un gambero, lo aveva investito con un “che c’è da ridere imbecille?” al che egli aveva risposto: “rido perché ho trovato uno più imbecille di me”. Il moscardino aveva alzato il bastone a spirale. Fabrizio gli aveva buttato in faccia il vino di un bicchiere, sciupandogli la cravatta, la camicia e il panciotto di seta bianca. E naturalmente si erano battuti. Povero bellimbusto!... ci aveva rimessa un’orecchia, portata via da un colpo di sciabola. Un’altra volta, per un cane. Un signore batteva spietatamente un cane, che non voleva seguirlo perché aveva la testa a una graziosa cagnetta. Egli aveva fermato il braccio di quel signore, dicendogli: – “Oibò! Non è da animo gentile battere così le bestie!” – Quel signore gli si era voltato rabbiosamente: egli, col suo sorriso beffardo, si era scusato: – “non sapevo che foste idrofobo”. – Quello a sentirsi preso per cane lo aveva sfidato lì per lì. Si erano battuti; e Fabrizio lo aveva ferito nella mano, perché si ricordasse di non picchiare più le bestie a quel modo inumano. Un altro duello aveva avuto per difendere un commediante che non godeva le simpatie di una parte del pubblico della Comedie Francaise. Uno spettatore lo interrompeva durante la recita con sghignazzamenti e rifacendogli caricatamente il verso. Fabrizio gli aveva osservato puntamente che non c’era carità a tormentare quel pover’uomo, e quello a rispondergli che se non gli piaceva se ne andasse. Fabrizio aveva ribadito: – “Me ne andrò con voi, signore, per avere il piacere d’insegnarvi la buona creanza”. L’altro, fattosi più arrogante, s’era subito alzato per dare uno schiaffo, che era rimasto in aria perché Fabrizio, più lesto, gli aveva fermato la mano, ripiegandogli il braccio, e costringendolo a schiaffeggiarsi da sé. Erano stati separati, ma il domani si erano battuti: l’avversario, confuso dal giuoco rapido e insostenibile di Fabrizio, gli aveva voltato le spalle, e il ferro di questo lo aveva colpito in una natica. – È il solo posto dove vi si possa colpire!” – gli aveva detto Fabrizio, andandosene.
Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba
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Luigi Natoli: Il Capitan Terrore


 

pag. 481 – "Quel giorno era l’ultimo giovedì di carnevale, e la città era in festa più degli altri anni, perché Sua Eccellenza il Vicerè, il duca di Medinaceli, maritava le due figlie, e già si erano avuti cinque giorni di festeggiamenti; quel pomeriggio doveva aver luogo in Piazza Marina il grandioso spettacolo della caccia intrecciata con una rappresentazione e con la giostra..."

Era il 1560. A Palermo la nobiltà sfilava nelle antiche vie ricche di marmi pregiati. Dai palchi le dame ornate di gioielli e sete preziose guardavano un centinaio di cavalieri sfarzosamente vestiti, con cavalli coperti da gualdrappe, coi pennacchi in testa di vivaci colori. È in quest’atmosfera che gli occhi di don Galvano di Valverde si riempivano di quelli della bellissima donna Laura Serra. Ma c’erano anche quelli di don Ludovico Sclafani, e in questi non c’era solo amore, ma anche invidia, rabbia, disprezzo profondo.
Un romanzo corale, profondo, ricco d’azione, dove i sentimenti d’amore, odio, amicizia, malvagità, si mischiano alla perfezione fra inganni, avventura e coraggio, intrattenendo piacevolmente il lettore fino all’ultima pagina. E poi c’è la Sicilia, c’è Palermo, ricostruita alla perfezione come solo Luigi Natoli sapeva fare.

Prezzo di copertina € 21,00 – sconto 15% - Spedizione gratuita
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lunedì 11 aprile 2016

Luigi Natoli e "I cavalieri della Stella": il forte di S. Placido.


Il monastero di S. Placido oggi
Suonò l'Ave.

Tutta quella gente depose le armi si cavò il berretto o il cappello e recitò la preghiera. Forse ogni anima in quell'i­stante sentiva che quella poteva es­ser l'ultima sera e l'ultima prece; e si raccomandava con serena pietà, alla mi­sericordia divina.
Dalla Scaletta era uscita una formi­dabile massa di soldati, formata da tre reggimenti dei quali uno scendeva in li­nea diretta a investire il monastero da mezzodì, l'altro più numeroso girando su per i colli tendeva a piombar di fian­co; il terzo, doveva oltrepassare le colline per gittarsi sulla strada di Messina, at­taccare il monastero da tramontana, ta­gliando così la ritirata del presidio da Messina. Galeazzo intuì la mossa; discese precipitosamente, e riferì. Il capitano allora, gli ordinò che con un centinaio di uomi­ni, e i cavalieri della Stella, e due pezzi condotti dall'ingegnere Secolo, corresse a occupare la collina più prossima, e la più importante per la difesa. Galeazzo vi condusse celermente le sue schiere: fece disporre i due pezzi, celò i cavalieri nella boscaglia, appostò i suoi uomini dietro gli alberi e i sassi. Or­dine rigoroso il massimo silenzio, e non tirare se non all'ordine di far fuoco.
Il silenzio della campagna era solo turbato dal calpestio di tutta quel­la gente, cauta e vigilante; il silenzio del monastero dal respiro di quell’altra gente che aspettava nell'ansia del­l'imminente pericolo. E sovra, si librava la morte, e il gelido suo nome pareva in­fondesse un senso di terrore in tutte le cose.
Si erano così avvicinati a poco più di un centinaio di passi, e si disponevano a dar l'assalto, quando improvvisamente, dall'alto squillò, fulmineo, gagliardo, im­petuoso, il campanone del monastero. Tutto il cielo parve riempirsi di quei colpi precipitosi, violenti, ai quali da cento, da duecento punti diversi si ac­compagnò lo sfolgorare degli archibugi e degli schioppi; da duecento luoghi invisi­bili fiammeggiò la morte sopra quei reg­gimenti che parevan così sicuri della vittoria. Lo sgomento di quella tremenda sorpresa fece ondeggiare, rinculare, con­fondere, le prime schiere; che gittandosi su quelle che sopravvenivano, e rigettate innanzi da queste, scomposero gli ordini, generarono confusione e smarrimento...
Allora i dodici cavalieri della Stella con le corazze lucenti alla luna, uscirono dalla boscaglia, con alte grida, e le spade squarciate precipitandosi sui fuggiaschi, intanto che dagli alberi i tiratori fulmi­navano con colpi sicuri, fitti, micidiali. Quei dodici cavalieri parvero uno squadrone. Il reggimento piegò, si rove­sciò indietro, fuggì. Invano gli ufficiali tentavano di arrestarlo; la paura aveva messo le ali ai piedi di ciascuno; il terrore della morte non ispirava che il coraggio della fuga!...
Fu una pioggia di fuoco; ma gli ufficiali spagnuoli avevano potuto rior­dinare le compagnie, e rispondevano vi­gorosamente al fuoco. Il monastero era avvolto in una cer­chia di nubi cineree, squarciate da lampi e da tuoni...
Quella pugna notturna, intorno a quel monastero magnifico e solenne, sotto lo scampanare fitto e incessante, tra il lampeggiare rosseggiante delle schiop­pettate, nell'ondeggiar del fumo lievemente cinereo, aveva qualcosa di fantastico.
Luigi Natoli
I cavalieri della Stella - Prezzo di copertina € 26,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.  
 
 

 

Luigi Natoli e "I mille e un duelli del bel Torralba": il teatro Santa Cecilia.


La sera del 12 gennaio, anniversario della nascita del re, v’era una rappresentazione di gala al teatro di Santa Cecilia: l’Alzira del maestro Nicolini. Si sapeva che il re vi interveniva: la nobiltà aveva accaparrato i palchi di prima e seconda fila, ben inteso che anche in questo si osservavano le prerogative della gerarchia: i semplici baroni non potevano avere lo stesso rango dei principi. I cavalieri erano relegati nella terza fila, coi proprietari, coi curiali, i “paglietti” e così di seguito. Anche le sedie della platea erano destinate gerarchicamente: le prime file erano pei nobili. Quanto alla piccola borghesia, ai piccoli mercanti o bottegai, agli artigiani, dovevano contentarsi del loggione, per non offendere di contatti plebei l’incontaminata purezza del gentil sangue patrizio. Lo spettacolo di solito cominciava a due ore di notte; e il teatro presentava a quell’ora una vista maravigliosa. Migliaia di candele accese nel gran lampadare che pendeva dal soffitto e nelle lumiere infisse sui pilastrini tra palco e palco, per tutti e cinque gli ordini diffondevano una luce viva e calda, che faceva brillare le dorature e i birilli di cristallo; sugli sfondi cremisi e ombrosi dei palchi i colori vivaci dei vestiti di seta si staccavano nettamente; le carnagioni parevano più candide, i visi più regolari, giovenili, di una bellezza vaporosa; e sotto le capigliature incipriate gli occhi splendevano, e le bocche si accendevano di un bel cinabro. Colli, semibraccia nude, quali fino all’omero, quali conservatrici della moda passata fino al gomito, trasparivano tra nubi di veli e di pizzi, o si offrivano nella loro bellezza provocante: intorno ai colli, sopra i seni, alle orecchie, sulle vesti, sui capelli, era uno scintillio di gemme; sul sommo delle pettinature tremolavano pennacchietti bianchi, ondeggiavano piume morbide che parevano piccoli strappi di nubi. Tutta la bella sala, che era stata ingrandita, e novamente decorata con maggior ricchezza da dodici anni, rifulgeva, come un tempio consacrato alla beltà. All’ingresso nella sala, e giro giro per la curva, sotto i palchi erano schierati i granatieri, in gran gala, coi fucili e le baionette inastate: altri erano nel vestibolo, e fuori dinanzi alla porta; altri nel corridoio del secondo ordine, di qua e di là della porta del palco reale: il più vasto, nel mezzo della curva, col padiglione azzurro e la corona regia.

Il teatro di S. Cecilia, così detto da una chiesetta dedicata alla santa, che ivi sorgeva, e che apparteneva all’Unione dei Musici, era stato eretto tra il 1692 e il 1693, dai Musici, col concorso della nobiltà e segnatamente del vicerè Uzeda: ed era stato inaugurato il 28 ottobre del 1693 con un’opera musicale l’Innocenza penitente. Insignito del titolo di regio, e fatto segno alle cure della città, nel 1787 era stato come si è detto ingrandito e abbellito. Aveva sessantasette palchi in quattro ordini, e trentadue file di banchi, divise da un corridoio. Il diametro maggiore della sala, era di circa sedici metri e mezzo, il minore era di dieci metri e mezzo. L’altezza della cupola era più di quindici metri. Il palcoscenico era, pei meccanismi di quel tempo, abbastanza capace: aveva infatti uno sfondo di più che venti metri; l’apertura o proscenio ne aveva quasi dieci. La forma della sala, a semicerchio, leggermente allungata verso il proscenio, l’arco armonico, o bocca d’opera, erano costruiti con tanta perfezione acustica da fare del Santa Cecilia uno dei migliori teatri del tempo, per le opere musicali. E tenne il primato in Palermo, finchè il Carolino (ribattezzato poi al 1860 col nome glorioso di Bellini) tra il 1830 e il 1870 lo oscurò e gli si sostituì come principale.

Ma il Santa Cecilia ebbe i suoi fasti; accoglieva i più celebri e le più celebri cantanti; e non aspettava che le opere dei maestri più famosi invecchiassero nei teatri del continente, per farle sentire sulle proprie scene: e qui per la prima volta nel 1784 fu data la commedia musicale del Cimarosa Giannina e Bernardone. Ora il teatro non esiste più; venuto in potere dell’Ospedale Civico non fu più adibito a spettacoli, fu venduto e tramutato in magazzino di ferrame; e le grossolanità dei facchini e il rumore dei ferri urtati rumoreggiano là dove trillavano i gorgheggi di Nina Gabrielli e di Marina Balducci e inebriarono gli animi le note del Paisiello, dello Zingaralli, del Cimarosa. Habent sua ata, anche i teatri!  
 
Luigi Natoli - I mille e un duelli del bel Torralba

 

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venerdì 8 aprile 2016

Luigi Natoli e il suo nuovo inedito: I mille e un duelli del bel Torralba. Il protagonista.

Fabrizio non aveva ancora venti anni; ma pareva ne avesse ventiquattro; alto, ben tagliato, forte, il volto quadrato, il naso leggermente aquilino; gli occhi vivaci e intelligenti; un insieme gradevole, una espressione di franchezza, un po’ sbarazzina; egli riusciva subito simpatico a tutti.
Rodrigo aveva tra anni meno di lui, e gli rassomigliava; però con una espressione meno ardita. Tutti e due vestivano con eleganza; il che, dato il regime paterno, poteva parere miracoloso. Perché il conte di Torralba era rigido, duro e autoritario nel governo della casa, come lo era nell’aspetto, con quel viso arcigno che pareva avesse bandito il sorriso dalle labbra sottili e strette.
Pieno di un esagerato concetto della sua autorità esercitava sulla famiglia un potere più che assoluto, dispotico: al quale aveva assoggettato anche la moglie, che era tutto l’opposto di lui; grassoccia, molle, sorridente, carezzevole, che si sarebbe forse abbandonata alla sua indole affettuosa ed espansiva, se non glielo avesse impedito la soggezione che le metteva il marito. Dal loro matrimonio erano nati cinque figli: don Francesco, che era il primogenito, due femine che erano nel monastero della Pietà, Fabrizio e Rodrigo; ma per il conte non esisteva che un figlio solo: il primogenito, al quale dava un forte assegno mensile, e inoltre appartamentino proprio, servitori, carrozze, piena libertà di rientrare in casa la notte, quando gli piaceva; di far debiti, che il conte pagava. Per lui soltanto la bocca del conte trovava sorrisi e parole affettuose; non già per vero sentimento di tenerezza, ma perché don Francesco era il rappresentante della futura discendenza dei Torralba; era il futuro conte; il ramo privilegiato dell’albero genealogico. Ai cadetti invece non assegnava che una sommerella irrisoria, che non sarebbe bastata neppure per le calze; sulla quale essi dovevano vestirsi decorosamente, pagare il cappellaio, il calzolaio, fornirsi di biancheria e di pizzi, pagare il barbiere, far regali e dar mance: ragione per la quale nelle loro tasche i ragni avrebbero potuto filare le loro reti. Essi dovevano perciò industriarsi, per non sfigurare nella società aristocratica nella quale dovevano – per onore del casato – vivere. E facevano debiti col sarto, col calzolaio, con tutti. E li pagavano quando potevano; né i creditori protestavano. Oltre alla fiducia che avevano nei signori, ritenevano quasi dover loro far figurare i giovani cadetti delle nobili case; e pareva loro un disonorarsi rifiutandosi di vestirli con quella proprietà che conveniva alla condizione di essi. Del resto si rifacevano un po’ sui primogeniti e sui padri.
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Luigi Natoli e la partenza dei Mille da Quarto

 
Nella notte del 5, i volontari, adunatisi a Quarto, si imbarcarono; eran mille e ottantacinque, compresa una donna, Rosalia Montmasson, moglie e compagna devota e infaticabile di Francesco Crispi: si divisero fra i due vapori: Bixio prese il comando del Lombardo, Garibaldi quello del Piemonte, e in sott'ordine Salvatore Castiglia, palermitano esperto di cose marine, esule pei fatti del '48. Prima ancora che albeggiasse, i due vapori salpa­rono l'ancora, e s'avventurarono nell' ignoto infinito; e il cielo accompagnavali col dolce scintillio delle stelle, che parevan tremar di gioia e di orgoglio; e dalla terra i supremi addii dei parenti e degli amici rimasti, non osavan rompere l'alto ed eloquente silenzio: voto, augurio, speranza, compianto e stupore in un tempo.
Luigi Natoli

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giovedì 7 aprile 2016

Luigi Natoli e la morte di Francesco Riso

 
Il 27 aprile moriva Francesco Riso. Trasportato sopra un carretto all'ospedale, vi subiva un primo  interrogatorio dal commissario di polizia Carrega, che al cavaliere Balsano, deputato del pio luogo, testimoniava essersi il Riso “battuto come un leone”. Interrogato il domani dal giudice Uzzo, onesto magistrato, serbò il silenzio: la polizia tentò aver nelle mani il ferito, per sottoporlo chi sa a quali torture, non l’ebbe per la ferma resistenza di quei sanitari. Ciò non distolse il Maniscalco dal tormentare il Riso, non solo con gli interrogatori processuali, ma con mentite promesse e tristi lusinghe di liberargli il padre, già fucilato. E il 16 lo sottopose a lungo stanchevole esame, in segreto; col quale fece di poi compilare in ufficio un verbale dal giudice Prestipino, uomo di pochi scrupoli, sostituito all'Uzzo, giudicato onesto: il qual verbale allora e poi, diffusa ad arte la voce di gravi rivelazioni, offuscando il nome dell'eroico popolano, servì a discreditare gli uomini della rivoluzione. - Luigi Natoli.
Nella foto: il cappello di Francesco Riso, Museo di Storia Patria - Palermo

Luigi Natoli e Francesco Riso: la falsa accusa di tradimento all'eroe.

 
Nessuno di coloro che all’ospedale gli stettero vicini, lo credette propalatore; anzi il cav. Balsano, il cappellano Chiarenza e i medici curanti, che avevano stabilito intorno al ferito un servizio di quasi spionaggio, negano con testimonianze scritte, che il Riso abbia fatto le rivelazioni che gli si attribuiscono.
La città, più sicura nei giudizi, ne pianse la morte; e allora e poi l’onorò pel martirio, che segnò la irrevocabile caduta dei Borboni e l’unità della patria.
 
Epigrafe a Francesco Riso
(come manoscritta)
 
A
FRANCESCO RISO
 
MARTIRE INFELICE DELLA LIBERTA' DELLA PATRIA
NON SOSPIRI DI LETARGO
NON PIANTI DI VILTA'
MA FIERI GIURAMENTI DI SANGUE
FREMITO DI VENDETTA ATROCE
 
29 Aprile 1860

martedì 5 aprile 2016

Luigi Natoli: Il Paggio della regina Bianca


 

pag. 702 – Nel palazzo Steri di Palermo che fu l’antica sede dei Chiaramonte, la più ricca e potente nobiltà siciliana del 1300, c’è l’affresco di un San Giorgio a cavallo che uccide il drago. Nulla di più comune, ma gli occhi attenti del visitatore noteranno che nello scudo del santo c’è lo stemma chiara montano, come a voler avvalorare con forza, la gloria della nobile casata. 
La vendetta. L’onore. L’amore.
Tre donne.
Un solo eroe. Giovannello Chiaramonte.
Fra storia e leggenda un capolavoro di Luigi Natoli ambientato nella Sicilia del 1400.

Prezzo di copertina € 23,00 – sconto 15% - Spedizione gratuita.
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lunedì 4 aprile 2016

Le rivoluzioni del 1820 e del 1848 narrate da Luigi Natoli nei romanzi: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise?


 
pag. 880    Tre volti fasciati da una bandiera azzurra come la speranza, rossa come l’impegno per conseguirla, nera come la fede indistruttibile, sono il preludio del tricolore italiano sotto le ceneri della bandiera della Carboneria. Questi tre romanzi a tema risorgimentale ambientati in Sicilia tra il 1820 e il 1848 riletti oggi hanno il poter di rinverdire il nostro amore patrio facendoci sentire italiani, ricordandoci il nostro criterio di appartenenza e tutti i sacrifici che i nostri progenitori hanno fatto per darci questa Italia. Niente ci deve far trascurare il bene più prezioso che abbiamo: la Libertà.
Ne I morti tornano... Natoli lascia parlare da sole le miserie umane legate al dolore, alla fedeltà, all’onore, all’ira e tutte le altre pulsioni degli uomini che, imbrigliate nelle maglie di una rete di un ineluttabile destino imposto dalle convenzioni, degenerano nella distruzione e della pochezza dell’animo umano, non più libero, e non più nobile. E lo fa togliendo la speranza su tutto, tracciando un vero Noir. Un grande Noir storico.
Una storia che proprio nel momento in cui sembra intorcinarsi dentro i canoni del più classico e banale feulleitton, effettua una nuova e inattesa virata rivelando la sua vera natura: quella, appunto, di una storia nera; anzi nerissima. – Massimo Maugeri, scrittore palermitano.
Prezzo di copertina € 24,00 – Sconto 15% - Spedizione gratuita
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4 aprile 1860: Francesco Riso e la rivoluzione della Gancia.




Fu decisa l’insurrezione pel 4 aprile, mercoledì santo. Chi ruppe l'indugio fu Francesco Riso. Egli aveva accumulato le armi in un magazzino da lui tolto a pigione accanto al convento della Gancia, donde con gli uomini della sua squadra doveva dare il segno.
 
Una leggenda narrò che i frati della Gancia fossero consapevoli e partecipi della cospirazione; un'altra che un frate avesse denunciato a Maniscalco gli apparecchi, il luogo il giorno della insurrezione. E non è vero.
I frati non seppero nulla fino all' alba del 4 aprile; e la denun­cia fu fatta dallo agente segreto Basile, al quale certi Muratori e Urbano, la mattina del 3, ignorando che fosse una spia, confidavano ogni cosa. Probabilmente la leggenda nacque dal vedere, la mattina del 4, un frate col famoso berretto imposto da Maniscalco alle spie. Si chiamava fra Michele da Prizzi, ma non era della Gancia.
Maniscalco reggeva in quei giorni il governo, per l'assenza del luogotenente generale Castelcicala: finse non saper nulla, ma convocò un consiglio di generali. Nella notte dal 3 al 4 fece circondare il convento della Gancia e le strade adiacenti. Riso aveva in tutto ottan­tadue uomini divisi in tre squadre: una di cinquanta­due capitanata da Salvatore La Placa, uomo di grande audacia, s’era radunata in un magazzino alla Magione; la seconda di dieci, in una casetta nella via della Zecca; la terza di venti uomini con lui nel magazzino della Gancia. Altre squadre dovevano adunarsi qua e là; una nel vicino palazzo S. Cataldo, presso Carlo e Carmelo Trasselli; altra alla Fieravecchia coi fratelli Lomonaco. Si doveva cominciare con l’impadronirsi del Commis­sariato e del corpo di guardia di Porta di Termini, per aprire libero il passo alle squadre di Misilmeri e Baghe­ria concentrate alla Guadagna e al ponte delle Teste. All'alba Riso fu avvertito che erano circondati dalle truppe: non si sgomentò, disse che non era tempo di ritrarsi: egli avrebbe dato l'esempio: se lo vedevano tremare, l'uccidessero. E per vedere come stessero le cose, uscì dal suo magazzino. S'imbattè in una pattu­glia di compagni d'armi e soldati: “Chi viva”? – “Viva il re”! dicono. “Viva l’Italia!” rispon­de. Si fa fuoco: un birro, certo Cipollone, cade. Così comincia la mischia. Riso e quel pugno d'uomini sosten­gono l’assalto delle truppe regie: Domenico Cucinotta e Nicola Di Lorenzo salgono sul campanile e suonano a stormo. Accorre Salvatore La Placa con la sua squa­dra; cade ferito gravemente: mani pietose lo raccol­gono, lo celano, lo curano. Questo eroico giovane, sot­tratto così alla morte, il 27 maggio riprenderà il suo posto di combattimento, e sarà ferito ancora una volta.
Cadono Michele Boscarello, Damiano Fasitta, Matteo Ciotta, Francesco Migliore, Giuseppe Cordone, un Ran­dazzo: Riso dopo esser corso al campanile a piantarvi il tricolore, scende, si batte, cade ferito da quattro colpi all'addome e al ginocchio; un birro, che qualcuno dice l’Ispettore Ferro, gli è sopra, gli ruba l'orologio, e gli dà una bajonettata all'inguine.
Qualche ora dopo il combattimento era finito. Per vincere questo pugno d'uomini, c'eran voluti un batta­glione di linea, un plotone di cacciatori a cavallo, una sezione d'artiglieria, compagni d'armi, gendarmi e birri; c'era voluto un generale, il Sury; s'era dovuto atter­rare una porta con gli obici, e un obice il tenente Bian­chini aveva dovuto portare fin sopra al convento!
Le soldatesche si abbandonarono all'orgia del sac­cheggio e della strage: finirono a bajonettate uno dei caduti, ancor vivo; uccisero un frate, Giovannangelo da Montemaggiore, altri ne ferirono; il resto percossero, sputarono, legarono, trascinarono al comando di Piazza e alla Prefettura di polizia, insieme coi ribelli presi.
La città sgomenta non seguì il moto. Il comitato si sbandò. Ma nei dintorni della città seguirono fieri scontri, in quello e nei giorni successivi...
Luigi Natoli
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venerdì 1 aprile 2016

Luigi Natoli e il suo nuovo inedito: I mille e un duelli del bel Torralba


Pag. 460 – Tranne qualche rara eccezione tutti i romanzi di Luigi Natoli furono pubblicati in appendice al Giornale di Sicilia con lo pseudonimo di William Galt. Alcuni di questi ebbero la fortuna di essere stampati in libro grazie all’interessamento di qualche casa editrice, mentre altri rimasero nelle ingiallite pagine dei Giornali abbandonati a un ingrato oblìo. A partire dal 2014 la nostra casa editrice, dopo un complesso lavoro di ricerca e ricostruzione ha pubblicato questi romanzi dimenticati e finalmente capolavori come Alla guerra! – Squarcialupo – Gli ultimi saraceni sono stati restituiti al pubblico, alcuni anche a distanza di cent’anni. I mille e un duelli del bel Torralba è l’ultima di queste opere strappata da noi all’abbandono, ed oggi a novant’anni esatti dalla sua apparizione sul Giornale di Sicilia rivive per la prima volta in un libro, incontrando nuovi lettori, come se si trattasse di un inedito. Un inedito di lusso.
Fabrizio è il secondogenito della nobile famiglia dei Torralba. In base alle leggi del tempo, titoli e ricchezze sono tutti del primo figlio maschio. A lui e al fratello minore spetta solo il cavalierato e un misero assegno mensile, troppo poco per chi ha lo smisurato bisogno di affermarsi nella società che conta. Troppo poco per chi ha un temperamento irrequieto e ribelle; per chi ama l’avventura, le donne, la bella vita e per Fabrizio di Torralba tutto questo è sempre poco e tutto converge nella punta della sua lama. Strana vita la sua, che l’obbligava a stare sempre con una spada in pugno. Ma Fabrizio è anche portatore dei nobili valori dell’animo, e accorre di continuo in difesa degli oppressi e indifesi. Tutela il suo onore e quello di chi gli sta accanto, meglio se è di una bella dama.
In questo romanzo del grande narratore siciliano, Fabrizio di Torralba non è l’unico protagonista e divide le scene con la ricchissima Palermo borbonica del primi dell’800, fedele al re e al contempo incubatrice di idee giacobine, sotto l’influenza inglese e la rassegnazione di un popolo affamato.
Prezzo di copertina € 24,00 – Sconto 15% - Spedizione gratuita.

 

A breve disponibile per tutti i lettori un nuovo idenito di Luigi Natoli: I mille e un duelli del bel Torralba

 
Pubblicato per la prima e unica volta in appendice al Giornale di Sicilia a puntate dal 1 febbraio 1926, ritorna oggi, per la prima volta in libro, questo nuovo capolavoro di Luigi Natoli, ambientato in una Palermo borbonica dei primi anni del 1800.
Per ulteriori informazioni: ibuonicugini@libero.it