martedì 23 febbraio 2016

Milazzo 1860

Milazzo - 1860
Nessuno fuor del Dumas ha consacrato una parola agli eroici giovinetti di Dunne mietuti dalla mitraglia, nè ai cacciatori di Corrao, tre volte ostina-tamente andati all'assalto, e alle cui baionette si deve se Garibaldi non cadde sotto l’impeto della cavalleria borbonica.
Non un marmo dedicato alla virtù di questi oscuri eroi, che la nostra irrico-noscenza, la nostra inferiorità civile, ha lasciato sepolti nell'ignoranza! - Luigi Natoli.

giovedì 18 febbraio 2016

Fioravante e Rizzeri: prefazione di Luigi Natoli.


Articolo pubblicato sul Giornale di Sicilia il
16 dicembre 1936 

Quanti hanno letto il magnifico libro dei “Reali di Francia”?

Il trovarlo sui muriccioli, stampato Dio sa come, o nelle case dei contadini e degli umili, che se ne fanno assidua lettura, disdegna le anime gentili di comprarlo o di guardarlo. Né si trova dai librai. Essi vi hanno bensì l’ultima “creazione” moderna, che è morta prima di nascere, ma che rechi la cantafera di una qualche signora, piuttosto un libro che ha novecento anni addosso, quanti ne ha la “Divina Commedia”.

Perché i “Reali di Francia”, nella  veste che lor diede Andrea da Barberino, rimontano al trecento, e sono citati fra i testi classici, e costituiscono per noi la nazionalizzazione della materia epica francese, che sarebbe per il nostro cantafavole italiano.

Che narrano i “Reali di Francia” infatti?

Narrano la storia come da Costantino imperatore romano derivasse per naturale discendenza tutti i principi illustri che governarono la Francia da quell’epoca fino a Carlo Magno, e con loro i valorosi che li accompagnarono e che ne furono il più bello ornamento. Orlando, che è il maggiore eroe, e diventò l’immagine del valore, della cortesia e della fede, che riassume il sentimento nazionale francese, nasce per i “Reali” in Italia, e in una grotta in Sutri, dove lo partorì Berta moglie di Milone conte di Anglante, e sorella di Carlo Magno, fuggendo l’ira di costui. Così egli è italiano non soltanto per discendenza, ma anche per nascita; italiano e cittadino romano. E l’orifiamma, la gloriosa insegna che si trasmette da re a re, e che evidentemente è il vessillo, in cui Costantino fece scrivere le famose parole “In hoc signo vinces”, e che forma il centro della storia, è pur esso italiano.

Fioravante e Rizzeri sono come Buovo d’Antona e come Orlando una parte dei “Reali”, e, come quelli, la più popolare. Non è il caso di investigare se Andrea da Barberino abbia attinto ad altri poemi, di cui era ricca la Marca Trivigiana e di cui si servivano i cantafavole nelle piazze; chi ha la pazienza di leggere lo studio che precede il “Fioravante”, nella Collezione dei testi di lingua, e gli studi sulla Epopea francese e sull’ “Orlando” di Pietro Raina, e i maggiori scrittori della storia letteraria d’Italia, può farlo; per noi il romanzo di Andrea da Barberino è tutto; noi non facciamo dell’erudizione; prendiamo quello che con tanta grazia e ingenuità narra lo scrittore toscano; e se di una cosa ci maravigliamo, è appunto che esso non sia letto oggi più dei romanzi gialli.

Io lo lessi giovanotto e ricordo che non potevo, se non difficilmente tralasciare la lettura; lo rilessi ora, e provai il medesimo diletto al racconto delle avventure subite e affrontate da Fioravante e da Rizzeri suo compagno e maestro, primo paladino di Francia e uomo senza macchia e senza paura. Comincia Fioravante con una monelleria, che lo spinge a lasciare il tetto paterno del re Fiorello; e di là si partono le sue avventure. Liberazione di giovanette, uccisione di nemici della fede, perdita di armatura rubatagli da un ladrone, prigioniero del re di Scondia, innamoramento con Drusolina, il suo valore come incognito e via via quello che gli succede da re, le persecuzioni di sua madre Biancadoro, che voleva dargli moglie, le avventure di Drusolina, che sola abbandonata, dà alla luce due gemelli, uno dei quali le viene rubato, e il duello dei due fratelli che non si conoscono, tutto ciò frammezzato di tanti episodi forma il romanzo, che spira un senso di giustizia e solleva gli animi nelle regioni del sogno. I nomi delle contrade non si sa dove trovarli, le distanze di parecchie migliaia di chilometri si percorrono in un tempo irrisorio, gli eserciti sono così innumerevoli da superare il numero degli abitanti delle città che li armano... Che importa? Siamo nelle sfere del sogno, nel quale ci piace navigare.

Qualche volta, passando per una stradetta, sopra una porta, vedo pendere un cartellone con dipinti in quadri alcuni episodi di quello che si rappresentava la sera nel teatro delle marionette; e vi leggevo i nomi di Fioravante e di Rizzeri. La storia di Andrea da Barberino si era rifugiata lì: Fioravante e Rizzeri erano tramutati in teste di legno, come tutti gli altri campioni del valore e della fede; ma anche in quelle vesti che destano in noi un sapore di cose nuove. In un quadro v’erano due guerrieri, che abbassavano le armi e un leone fra loro in atto di separarli; in un altro, una folla di popolo e una regina condotta al rogo: i cavalieri erano vestiti con le armature del cinquecento, con un salto di mille e duecento anni. Non importa nulla. Pel popolo abituato a quel teatro e pel puparo, ossia per l’ “oprante” tutte queste differenze sparivano nell’antico, in cui tutto accadeva senza distinzione di tempo, di luoghi, di costumi: ma l’onda di poesia che scaturiva anche da quelle piccole teste di legno era possente e riecheggiava nelle anime semplici degli spettatori.

Ora anche adesso questo giornale si ispira alle avventure di Fioravante, e lo riproduce attraverso un “oprante”; e intreccia l’antico con il moderno; e le avventure di Lillì fanno contrasto con quelle di Drusolina, e quell’onesto puparo sembra foggiato con l’anima dei suoi pupi. C’è riuscito? È quello che vedrà il lettore. Ma se non è immodestia dirlo, coloro che mi hanno seguito attraverso i diciotto o venti romanzi, da me pubblicati su questo giornale, sanno per prova che un certo interesse so trovarlo.

 Maurus o Willam Galt

I romanzi "ricostruiti" di Luigi Natoli: Fioravante e Rizzeri


Non è un romanzo ricostruito ed edito postumo così come si è sempre creduto. È stato pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia a partire dal 31 dicembre 1936.
L’odierna ristampa raccoglie tutte queste puntate in un’opera organica che non esitiamo a definire capolavoro per stile letterario  e grandezza di pensiero, e presenta notevoli differenze con quella conosciuta, dichiarata postuma dalla casa editrice “La Madonnina”. Differenze tutte a favore di Luigi Natoli, scrittore vivo, allora come adesso, ed oggi ancora più grande di prima.
"Siamo tutti pupi, dirà Pirandello, contemporaneo del Natoli, nel suo Berretto a sonagli, ed ogni pupo vuole difendere la sua onorabilità, la sua immagine; e don Calcedonio nella vita è pupo come tutti gli altri e vuole mantenere una rispettabilità nel sociale. Le trame antiche del suo teatro gli suggeriscono l’azione, la voce forte, il farsi giustizia con un bastone; e più di una volta il puparo si comporta come uno dei suoi pupi in scena. Ma questo romanzo-tragedia di Natoli va oltre la maschera sociale ed umana; è il conflitto esistenziale del padre, del grande puparo, dello stesso Creatore. Il puparo si aspetta che i pupi si muovano, secondo il movimento che ha impresso la mano, secondo le finalità della commedia che si deve rappresentare. Don Calcedonio si danna perché nella realtà ogni pupo ha la sua vita propria e lui non riesce, con tutta la sua buona volontà, a dare un indirizzo, un consiglio neanche alla sua unica ed amata figlia.
Ogni scrittore in qualche modo è un puparo, costruisce ed ama le scene e i suoi personaggi; il grande puparo Luigi Natoli con Fioravante e Rizzeri ha costruito un romanzo difficile, originale e di notevole grandezza." - Dalla prefazione di Francesco Zaffuto.  
I Buoni Cugini Editori.

venerdì 12 febbraio 2016

Gli inediti di Luigi Natoli: Giovanni Meli, studio critico. Dalla prefazione di Francesco Zaffuto.


Lo Studio critico dedicato a Giovanni Meli, pubblicato nel 1883, Natoli lo scrisse quando aveva appena 26 anni. Studio prezioso per la conoscenza delle opere e per l'attenta documentazione, può essere utile a chi non conosce il poeta siciliano e anche a chi lo conosce in profondità. E' uno studio condotto a tutto campo, che va dalle opere maggiori fino agli inediti e alle lettere del Meli. Presenta il grand...e poeta siciliano nella sua centralità filosofica e letteraria e lo libera dal luogo comune di solo rappresentante dell'Arcadia, prendendo le distanze anche da esponenti della critica letteraria del calibro di De Sanctis.
Meli fu arcade se si guarda al suo repertorio metrico, ai riferimenti alla tradizione classica, allo sfondo agreste delle sue liriche; ma per lo spirito e per la su impronta morale e filosofica fu un poeta ben più complesso. Natoli dimostra questa complessità evidenziando l'opera "LOrigini di lu munnu", dove la dissertazione di Meli spazia su tutte le teorie filosofiche.
Nell'esaminare la "Bucolica", Natoli coglie che in Meli "il centro è l'amore delle cose che scherza nella varietà, ne l'incostanza, nel disordine; e in quell'armonia dilettosa, che egli il poeta, formavasi nel suo cervello, nel sentirsi concorde ed uno con la natura".
Colloca il Meli nel suo periodo storico; Meli visse a Palermo in anni in cui si sentivano arrivare da lontano gli echi della Rivoluzione francese e successivamente quelli delle campagne napoleoniche, non fu investito direttamente da quegli eventi, inveì dalla lontana Sicilia contro gli eccessi della Rivoluzione francese e contro le sanguinose campagne napoleoniche; predicò la pace e prese il meglio di quell'epoca, il pensiero illuminista.
Nella parte finale del suo saggio Natoli cita la lettera di Meli al barone Refhuens dove parla delle sue aspirazioni di vita, del suo rapporto con la poesia, delle sue disgrazie, delle sua amarezze, del suo rigore: "nonostante, mercè di un parco vivere ho tirato avanti decorosamente, senza aver contratto mai un soldo di debito, e senza avere obbligo ad anima vivente della mia tenue sussistenza, salvo alle mie fatiche..."
Il Saggio critico, il romanzo "L'Abate Meli" e il trattato "Musa siciliana" dimostrano come Natoli considerasse Meli un grande poeta, filosofo e maestro di vita; e questa poderosa pubblicazione, grazie a I Buoni Cugini Editori può contribuire alla riscoperta di un narratore e di un poeta che dovrebbero essere meglio conosciuti in tutta l'Italia e anche nella loro Sicilia.
Francesco Zaffuto

Gli inediti di Luigi Natoli: Giovanni Meli, studio critico. Pubblicato per la prima ed unica volta nel 1883.

Appare per la prima e unica volta a cura della casa editrice "Il tempo" nel 1883 (quando Luigi Natoli aveva soltanto 26 anni), e viene inserito oggi nel volume "L'Abate Meli" edito da I Buoni Cugini Editori e pubblicato in occasione del duecentesimo anniversario della morte di Giovanni Meli. Il volume include anche il romanzo di Luigi Natoli "L'Abate Meli", pubblicato per la prima volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia dal 16 settembre 1929, le poesie di Giovanni Meli pubblicate da Luigi Natoli in Musa Siciliana (Casa Editrice Caddeo - 1922) ed è arricchito inoltre da ulteriori poesie di Giovanni Meli con introduzione e testo a fronte in italiano a cura di Francesco Zaffuto.
Di seguito la prefazione dell'autore ne "Giovanni Meli - Studio Critico".
 
"Se qualcuno avesse voglia di scrivere una biografia melica, troverebbe innanzi a sé un numero considerevole di critici e letterati abbastanza conosciuti che fan testimonianza di quanto studio sia meritevole questo nostro poeta. Ma si accorgerebbe ancora che nessuno di tanti critici ha pensato di esaminare il Meli da quel lato onde è meritamente grande: chè ognuno o partendosi da preconcetti, o rimanendo a la esteriorità de le poesie, o togliendo a esaminare alcuna de le doti de la forma, non è penetrato a scoprire quel che ci sia sotto al sorriso bacchico di questo nuovo pagano, e donde provenga questo sorriso.
Lo stesso De Sanctis, ne la sua conferenza guarda il Meli ne la sola Fata Galanti, componimento giovanile che manca di quella maturità filosofica, o meglio scientifica, che domina le Bucoliche e le Odi.
Ma per conoscere il Meli non basta nemmeno leggere tutte le poesie; Egli non ci rivela che una parte di sé stesso. Si vuol leggere anche le lettere in parte inedite, i numerosi manoscritti, il suo lavoro scientifico su la Natura, tutti quei pezzi di carta, che paiono insignificanti, ma che contengono un pensiero, un’idea, una parola del grande poeta, pensiero, idea, parola che illustrano, che finiscono quanto si contiene nelle poesie.
Tutto questo tesoro di documenti esiste ne la Biblioteca Comunale di Palermo in diciotto volumi, eredità preziosa, che ci narra tutta la vita del Meli; vita che pare un sorriso perpetuo ed è una lotta sanguinosa.
Lo studio critico che io affido per le stampe si ingegna di presentare il Meli dal suo vero aspetto; e perché quel che verrò dicendo non paia gratuita affermazione, ho illustrato il mio lavoro con l’aiuto dei manoscritti. E qui, poiché mi si potrebbero muovere degli appunti, m’affretto a dichiarare che io non ho inteso né di scrivere una vita, né di illustrare i tempi del poeta; ma semplicemente e puramente di esaminare nel modo più completo donde e come proceda l’arte sua, perché egli indipendentemente dal suo genio poetico sia sempre una grande figura de la nostra istoria letteraria, perché egli sia grande non solo come poeta ma come scienziato.
Forse a tanto non sarò pervenuto; che le molestie e le cure affannose de la mia vita han turbato sovente quella serenità d’animo necessaria al critico; ma ho fede, se non altro, che questo mio studio scuota un po’ i letterati di Sicilia, perché ci arricchiscano e presto di un lavoro più completo e più finito. Lavoro, a cui da un pezzo io avevo messo mano, ma al quale non ho potuto più attendere, costretto come sono a un’arida e pesante fatica che mi dia il pane cotidiano.
Ed ora non mi rimane che salutare il mio libretto, e augurargli che il ceto dei critici sia con lui meno arcigno e anche... ho a dirla? Meno partigiano.
Palermo, Novembre 1882."
Luigi Natoli

mercoledì 3 febbraio 2016

Luigi Natoli nel romanzo "I cavalieri della Stella": L'Accademia della Stella.


L'accademia della Stella di cui egli faceva parte, e aspirava ad esser capo, o, come si chiamava, Principe, era una compagnia o congregazione o scuola, o tutto questo insieme, di cento cavalieri, di nobiltà antica e indiscutibile, che face­van professioni d'armi allo scopo di for­nire eccellenti militi nella perpetua guer­ra contro i barbareschi: una specie di or­dine militare – in origine – non dissi­mile nello scopo fondamentale da quello dei cavalieri di S. Giovanni e di S. Stefa­no; ma senza alcun carattere monastico o voto minore; uguale alla Congregazio­ne d'arme, che s'era istituita in Palermo nel secolo XVI.

Posta sotto la protezione dei Re Ma­gi, aveva assunto come insegna la Stella miracolosa apparsa ai tre re d'Oriente, in­castrandola nella Croce di Malta: d'onde il nome di Accademia della Stella.

Col volger del tempo, pareva aver di­menticato il suo scopo originario; e non mandava più i suoi cavalieri a dar la cac­cia alle navi mussulmane; ma continuava con uno sfarzo, con una magnificenza tutta spagnola, a dar mostra di sè nella bravura de’ suoi cavalieri nelle grandi occasioni religiose o civili. L'insediamento del nuovo Senato, l'apertura della fiera, la festa dell'Assun­ta, l'arrivo o la partenza del vicerè, la pre­sa di possesso di un nuovo arcivescovo, le feste per la nascita di qualche principe reale, o di qualche matrimonio regio, o dell'incoronazione del re, e in generale tutti i grandi avvenimenti celebrati con pompa ufficiale, erano altrettante occa­sioni, perché i cavalieri della Stella faces­sero la loro sontuosa cavalcata, o cele­brassero una giostra, vaghissima per no­vità di giuochi, d'imprese, di divise, di colpi.

Non era facile far parte dell'Accade­mia. Oltre che si doveva essere nobili da almeno duecent’anni, il numero dei cavalieri era limitato a cento, e non vi si entrava che per elezione a bossolo, e dopo una serie di informazioni e di formalità per assicurarsi della degnità dell'aspirante: sicché far parte dell'Accademia si teneva a grande onore, e come un segno della nobiltà e della grandezza della casa, e i padri che già ne avevan fatto par­te, sollecitavano che quell'onore si trasmettesse nei figli, stabilendo una specie di successione ereditaria come in una paria.
 
 

 

martedì 2 febbraio 2016

Gli inediti di Luigi Natoli: il "caso" di Sciacca.

Apparsa per la prima e unica volta nel 1892 in un piccolo volume intitolato Storie e Leggende di Luigi Natoli pubblicato dalla casa editrice Pedone Lauriel, la lunga storia de "Il caso di Sciacca" viene inserita oggi dopo 123 anni nel volume "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue". 
Siamo nella Sicilia del XVI secolo e il "caso" - dove con questa parola l'autore specifica che "nelle cronache e nella dizione di quei tempi adoperano i nostri scrittori nel significato di grande e straordinario avvenimento con uccisione e morte di persone" - vede protegoniste le nobili famiglie dei Perollo e dei De Luna. Ma diviene poi una vera e propria lotta civile che insanguinò Sciacca e che ha come teatro l'antico castello del luogo.
Anche qui la morte di una bella e innocente baronessa la cui esistenza è storica, la baronessa di Mongellino: "Tra i cadaveri orrendamente mutilati, giaceva bianca e bella la baronessa di Mongellino; e anche nella morte ella pareva volesse difendere con le braccia sanguinose il cadavere del marito".
Proponiamo il primo capitolo della storia: 

Il riscatto del barone
 
Curiosa e trepidante traeva la folla sulla marina di Sciacca; tra le onde serene ormeggiavano sei galere ottomane, la capitana delle quali avea innalzato la bandiera di tregua. Che è? Che non è? Malgrado il segno pacifico nessuno era interamente tranquillo, chè i colpi di mano improvvisi gli infedeli ne avevano fatti parecchi. Qualcuno correva al vecchio castello normanno e avvertiva il regio Portolano, don Giacomo Perollo barone di Pandolfina, del pericolo sovrastante; ma il barone che era attorniato da una corte splendida come quella di un re, sorrideva e tentennava il capo fingendo maraviglia e spavento. Egli già sapeva tutto.
- Chi sarà mai questo corsaro?
- Magnifico signore, dicono che sia Barbarossa in persona...
- Allora bisogna rendergli onore, perché Caradino Barbarossa è un assai valoroso guerriero!...
I messaggeri restarono attoniti, non sapendo se dovessero sorridere, come sorrideva il magnifico Portolano. Intanto pel lido si spargevano le voci più contraddittorie; chi diceva una cosa, chi un’altra; poi la verità cominciò a farsi strada, quando un ufficiale tornò da parlamento.
Era Sinan bassà, e recava a bordo il barone di Solanto, che egli aveva catturato nelle acque di Trapani.
Sinan bassà! Il terrore dei mari, il corsaro più feroce e più valoroso che fosse ai servizii di Caradino Barbarossa!... Oimè, povero barone! Quel giudeo rinnegato non si contenterebbe di un riscatto qualsiasi; ei vorrebbero tutte le somme introitate dal segreto, per soddisfare l’avarizia del corsaro.
Mentre la folla trascorrea di pensiero in pensiero, si sentì lo scalpitare di alquanti cavalli che venivano al galoppo.
Una voce urlò:
- Largo! largo!...
Tosto la folla, ondeggiando, si divise in due e pel varco capace abbastanza, giunsero al lido quattro o cinque cavalieri.
- È il conte di Luna – cominciarono a bisbigliare – Oh il magnifico signor Sigismondo – Curiosa! Il signor Portolano se ne sta in castello, e lascia che il suo nemico per sfregio venga a riscattare il barone di Solanto! – Vediamo un po’ come andrà a finire.
Il conte Sigismondo di Luna era intanto smontato da cavallo, ed erano smontati con lui i gentiluomini e il suo segreto che recavasi fra le braccia due sacchetti di moneta.
Ma i sacchetti non erano così voluminosi da incutere rispetto; la folla cominciò a sogghignare; qualcuno facetamente pungeva la liberalità del conte di Luna.
- Pover’uomo! Credo che abbia impegnate le gioie della signora contessa!
Il conte era entrato in uno schifo, e faceva remare verso la capitana; era pallido, e fremente. Aveva sentito qualche motteggio, e l’animo suo inasprito da altre ingiurie, pieno di odio ereditario avverso il barone Perollo, tumultuavagli dentro e ruggiva come un mare tempestoso. Pur taceva e sperava; abbandonandosi ai torbidi ricordi del passato, da Artale suo bisavolo ucciso a tradimento da Giovanni Perollo, ad Antonio suo avo, assalito e ferito aspramente da Pietro Perollo; ed a questi ricordi aggiungeva le insolenze della plebe, che abbagliata dallo splendore della corte di Giacomo Perollo, copriva di scherni la solitaria rocca di Caltabellotta; la boria del barone di Pandolfina, dei suoi congiunti, dei suoi cortigiani: e si ripassava tutti i più piccoli fatti, le minuzie più insignificanti, che all’animo suo invelenito apparivano fiere e sanguinose provocazioni.
Intanto lo schifo avea abbordato la capitana di Sinan: don Sigismondo seguito dal segreto montò sul ponte. Sinan stava seduto sopra cuscini di seta, addossati ad alcune casse di polvere, e riparati da una gran tenda rossa, che percossa dal sole, dava a tutte le cose che vi stavan sotto dei riflessi di fiamma.
Il bassà non si mosse, con la scimitarra fra le gambe, i pugni appuntati sulle ginocchia, salutò con un lieve cenno del capo il conte di Luna. Sotto la stessa tenda, accanto a lui, tranquillo all’aspetto, ma con gli occhi lucenti dalla febbre del desiderio, stava il barone di Solanto. Come vide apparire il conte seguito dal segreto, sorrise e una viva gioia gli illuminò il volto: ma Sinan, dato uno sguardo ai due sacchetti, fece una smorfia di disprezzo.
Don Sigismondo se ne accorse, corrugò le ciglia e disse freddamente:
- Ci sono dentro diecimila scudi in oro.
Sinan in verità chiedeva qualche migliaio di meno pel riscatto del barone di Solanto; ma alle parole del conte, alteramente dette, rispose con un sorriso freddo e maligno:
- Reputo che la persona del signor barone valga qualche cosa più che cotesta sommerella.
Il conte non gli rispose; stesa la mano al barone di Solanto, disse:
- Voi mi perdonerete, signor barone, se io non riesco a riscattarvi; ma la colpa non è mia...
Il barone, pallido e rassegnato, gli strinse la mano e lo ringraziò:
- Io ve ne sarò sempre riconoscente.
Don Sigismondo scese dalla capitana; ma quando fu sullo schifo ebbe una voglia grandissima di buttar in mare quel denaro inutile e darsi degli schiaffi.
Sul lido la moltitudine attendevalo, quella moltitudine motteggiatrice che, beffandolo, avevalo veduto salpare pel riscatto, ed ora lo vedeva ritornare solo, come era andato, col suo denaro. Quale figura! Quale vergogna!... E come il barone di Pandolfina avrebbe riso coi suoi amici, coi suoi cortigiani!... Ah! il signor Sigismondo vuol fare il liberale! Va a riscattare i baroni dell’isola!... Vediamo un po’, come avrà fatto a racimolare venti scudi? E tutti avrebbero sghignazzato alle facezie del signor Portolano, tutti!... Era orribile a pensare. Da ogni parte egli si volgeva, trovava bocche sogghignanti, occhi curiosi e beffardi, da ogni parte sorgeva quel mormorio d’irrisione peggiore di qualunque offesa.
Agitato di questi pensieri, pallido per la vergogna pose piede a terra; senza guardar nessuno, sentendosi addosso gli sguardi maligni di tutti, montò a cavallo coi suoi e data un’ultima occhiata al naviglio del corsaro che ammainava il pennone di tregua, spronò.
Ma non s’era dilungato d’un trar di balestra, che un colpo di fucile di fe’ volgere gli occhi. Subito arrestò, e con rabbia e stupore insieme vide un altro battello salpare dal lido e le galee barbaresche, richiamate dallo sparo del fucile, fermarsi improvvisamente. Nel battello stava Giacomo Perollo.
 
 
 
Luigi Natoli
 

Gli inediti di Luigi Natoli: La signora di Carini. Novella pubblicata per la prima volta sul Giornale di Sicilia del 31 agosto 1910 rivive oggi all'interno del volume La Baronessa di Carini

A 105 anni di distanza rivive oggi la novella inedita di Luigi Natoli "La signora di Carini", pubblicata per la prima e unica volta nel Giornale di Sicilia del 31 agosto 1910 con lo pseudonimo di Maurus e inserita oggi nel volume "La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue...".
"La signora di Carini" che vede come protagonista Laura Lanza, e la cui trama è totalmente diversa da "La Baronessa di Carini" sempre dello stesso Luigi Natoli, (la cui protagonista è invece la giovanissima Caterina La Grua) narra il tragico caso di Carini del 04 dicembre 1563 secondo gli studi svolti da Giuseppe Pitrè. Vi proponiamo il primo paragrafo della novella:
 
I.

In silenzio, nell’ombra della sua camera, la fanciulla piangeva. Un dolore disperato le lacerava il cuore. Non avrebbe mai sospettato una perfidia di quel genere, che le squarciava a un tempo la cara e dolce fiducia in coloro che essa amava di più, e il velo che le avvolgeva ancora agli occhi verginali il dolce e indefinito mistero dell’amore. Anzi aveva tolto all’amore quel profumo di ignoto che era la fonte di quell’incantevole malinconia nella quale vagavano i suoi pensieri e i suoi sogni.
Ella aveva veduto!
E i sogni si erano infranti miseramente; e l’orrore, l’angoscia, lo sgomento imprimibile di ciò che aveva veduto, di quello che aveva perduto irreparabilmente, la gittavano singhiozzando col volto affondato sui guanciali.
Oramai in quel castello si sentiva estranea; qualche cosa aveva violentemente troncato tutti i legami che la univano alle persone con le quali coabitava, alle quali aveva fino allora portato un affetto fiducioso, sincero, profondo, devoto.
Tutto era finito! finito!
Egli le appariva un uomo mostruoso; la tenera poesia di cui lo aveva circondato si era dileguata a un tratto. Nessun colpo di vento spazzò così gagliardamente nebbia o fumo, come la orribile visione aveva fatto della sua poesia.
Ora si domandava affannosamente:
- Che fare?
Sì, che cosa doveva fare?
Rimanere e tacere?
Lo sdegno, la dignità offesa, il ribrezzo, le imponevano nel suo cuore:
- No; tu non devi restar più di un’ora in questa casa infame!
Andarsene dunque e rivelare il perché?
La collera, l’odio, la gelosia, la vendetta, le ruggivano:
- No! tu devi restare; rivelare la bruttura che offende te, la tua casa, tuo padre, l’onore del tuo nome, e trarne vendetta!
Ma un’altra voce, rimprovero, ammonimento, preghiera a un tempo, le suggeriva con tono accorato:
- È tua madre, Caterina!... tua madre!
Ah sì! era sua madre! Lo sapeva bene ella e questo appunto inacerbiva la sua piaga e la rendeva folle.
Così trascorse la notte; al mattino, uscì dalla sua camera con gli occhi rossi e gonfii, il volto disfatto, pallido. La vista della madre la fece ancor di più impallidire e quasi quasi venir meno.
- Che cos’hai? – le domandò la madre premurosamente.
A questa domanda e alla voce materna si riscosse, una espressione di fierezza sdegnosa le si dipinse sul volto.
Rispose seccamente:
- Nulla, signora madre.
Disse la parola madre, con una amarezza e con un fremito di orrore.

Maurus.