venerdì 23 dicembre 2016

Luigi Natoli: Il presepe di zio don Popò - Tratto da: I morti tornano...


Entrando nella stanza quasi buia dove era il presepe, gli occhi di tutti furono colpiti da un quadrato di luce abbagliante, e non si vedeva da che fosse prodotta. Il presepe, debitamente e accuratamente illuminato, era costruito nel vano di una porta che metteva in uno stanzino, in modo che la porta stessa facesse da bocca alla scena. Era profondo da cinque a sei palmi quadrati, ma pareva infinitamente più grande. Rappresentava come nei grandi presepi, un insieme di colli, divisi da valli, con delle diramazioni avanzate che s’aprivano in grotta, fatti di sughero e di creta. Un fiume percorreva il mezzo della scena, fatto di vetri, e sormontato da un ponte. In fondo era dipinta una scena, in modo da chiudere il presepe; vi era effigiata Betlemme, in un orizzonte luminoso, specchiantesi in un lago. La grotta principale era occupata dalla Natività. Stava dentro la mangiatoia il Bambino Gesù, di cera, con le manine benedicenti, circondato da raggi, che eran di vetro: l’asino e il bue dietro, la Madonna in ginocchio orante, san Giuseppe appoggiato a un sasso, col bastone fiorito in mano, pareva indifferente. Dinanzi vi erano i pastori, inginocchiati, quali offrenti caci e ricotte, quali agnelli, in un canto il “ciaramellaro” in atto di togliersi il berretto, dall’altro il “pifferaio” e il sonatore di sistro prostrati. E poi altri pastori, che si affrettavano verso la grotta, in cima alla quale degli angeli volavano tenuti da fil di ferro, con la scritta: “Gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis”. E v’era sopra una rupe lo “spaventato” dal prodigio, sopra un’altra il “dormente”; di qua il “legnaiolo” col suo fascio di legna, di là il “torraro” diritto sulla torre; e poi il “boaro” che lanciava sassi ai buoi, l’ortolano che guidava l’asino carico di cavolfiori, la “lavandaia” col fagotto sul capo, la portatrice di colombi in un canestro e perfino il “cacciatore” che armato anacronisticamente di uno schioppo, tirava fucilate a un uccello, che il cane inseguiva.
Nell’altra grotta posta più in alto, dei pastori dimenavano con un mattarello il latte in una caldaia, sul fuoco, o fabbricavano caci e ricotte, un altro scendeva per la china portando due fiscelle, sotto un pagliaio, in basso, un altro sorvegliava le greggi. E pecore e capre e mucche erano sparsi di qua e di là; e case e torri su pei colli; e fichi d’India e alberi in ogni fenditura di sugheri; e case e fichi d’India e pastori lontano, sul ponte, alle sponde del fiume, popolavano la scena, con un supremo disprezzo per la cronologia, l’archeologia, i costumi, i luoghi. I pastori erano vestiti come quelli dell’ultimo seicento: una giubba aderente alla vita e cadente a mezza coscia, brache, e borzacchini;  in capo un berretto, e spesso, su le spalle un mantello di quei che in Sicilia si chiamano “scapulare”; le donne avevano la mantellina chiara; il cacciatore un cappello di paglia. Ma che importava? Lo spettacolo non era meno bello: e don Popò ne era così pieno, che manifestò la sua allegria intonando una canzonetta d’occasione, e accompagnandola col verso della ciaramella. I ragazzi per far chiasso l’imitarono; ed anche, eccitati, Nenè e Leopoldo e le donne.
Carlotta e Giovanni no. S’erano trovati accanto, come due spiriti dolenti in quella festa dell’intimità familiare, e sospinti dallo stesso pensiero, dallo stesso sentimento, si guardavano con un sorriso doloroso, estranei all’allegria che li circondava....
 
 
 
Luigi Natoli: I morti tornano...
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