mercoledì 30 novembre 2016

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca. Quadro storico: il rapimento di Maria d'Aragona.

Si pensava di dar nuova moglie a Federigo d'Aragona , e la scelta cadeva sulla figlia di Bernabio Visconti, quando il 27 luglio 1377 moriva in Messina e designava erede la figlia Maria, che commetteva alla tutela di Artale Alagona, grande Giustiziere. Re dappoco, nella prima giovinezza passava il tempo servendo messa: poi fra i piaceri, come i suoi fratelli, si compiaceva di letture, e nella sua biblioteca v’era la Commedia di Dante e la traduzione parafrastica siciliana dell’Eneide di Virgilio. Inadatto a regnare, trastullo dei baroni, qualche sua lettera querimoniosa lo dimostra senza neppure dignità nelle sventure.
Come tutore della giovane regina, Artale divenne di fatto l’arbitro del regno; eppure capì che non sarebbe stato agevole dominare sopra un baronaggio strapotente, che gli avrebbe conteso il governo, e che avrebbe rinnovato gli orrori della guerra civile. Intese che forse questa avrebbe gettato l’Isola nelle mani del re d’Aragona, contro le cui mire egli si era opposto, mostrandosi, sebbene Catalano, geloso della indipendenza del regno. Allora pensò di dividere il Vicariato con i principali e più potenti baroni di Sicilia. Erano essi Manfredi Chiaramonte che aveva ereditato la contea di Modica e tutte le altre signorie del parentado, sicchè era signore di uno stato vastissimo e potentissimo, ed era inoltre Grande Ammiraglio e, di fatto, signore di Palermo; Francesco Ventimiglia conte di Geraci, che aveva sulle Madonie ricostruito lo stato paterno, e vi aveva aggiunto la rettoria di Cefalù e Polizzi; Guglielmo Peralta, conte di Caltabellotta, ricco fra i più ricchi baroni Catalani, imparentato con la casa reale, per avere preso in moglie Eleonora d’Aragona, figlia del duca Giovanni. Artale infine possedeva vasti feudi da Mistretta a Traina, da Aci a Butera e intorno all’Etna; e feudi e capitanerie aveva largito ai fratelli. Ognuno di questi quattro baroni estendeva il suo dominio diretto sopra una zona o provincia distinta. Invitati Artale i principali feudatari in un convegno a Caltanissetta, ed esposte le sue idee, si trovavan d’accordo nell’eleggergli compagni del Vicariato il Chiaramonte, il Ventimiglia e il Peralta. Guglielmo Raimondo Moncada conte d’Agosta, sebbene potente anche lui, tenutosi allora fra Latini e Catalani, non fu eletto. La Sicilia fu divisa per tanto in quattro Vicariati minori; i Vicari sottoscrivevano i loro atti con la formola “una cum sociis vicariis generalibus”; ma l’autorità della Regina, con cui s’intitolavano gli atti, era un nome vano senza soggetto.
Il re Pietro IV d’Aragona, che non s’era acquietato al testamento di Federico III, e pretendeva sempre che il regno di Sicilia toccasse a lui, mandò un’ambasceria ad Artale, il quale ostentando rispetto, la teneva a bada; e intanto mandava segretamente legati in Lombardia per trattare il matrimonio di Maria con Giovanni Galeazzo Visconti, conte di Virtù, purchè si obbligasse a venire con forti schiere a difendere la Sicilia. La proposta fu accolta ed era onorevole, ma gli altri Vicari e molti baroni si risentirono, chè in cosa tanto grave, dovevano essere intesi. E più di tutti, per dispetto, gridava Guglielmo Raimondo Moncada, cui parve giunta l’ora di vendicarsi.
La notte del 23 gennaio 1379, mentre Artale si trovava a Messina, due galeotte s’avvicinavano alla rocca Ursina, dimora della regina Maria; uomini armati vi sbarcavano, e penetrati nelle stanze della Regina la sorprendevano nel sonno. Il condottiero, tratta la giovinetta piangente dal letto, la trasportava fra le sue braccia sopra una delle  galeotte e qui si faceva conoscere. Era il Moncada. La notizia del ratto si sparse: Catania tumultuò, Artale disperato si strappò i capelli, e invano ordinò s’inseguisse il Moncada. Questi lasciata prigioniera la Regina in Licata partiva per Barcellona a mercanteggiare la Sicilia, e metteva Maria sotto la protezione di Pietro, in quale mandava a Licata un Ruggero Moncada del ramo spagnolo.
Tardi s’avvide Manfredi Chiaramonte del tradimento del conte d’Agosta, cui aveva dato mano, e levò milizie per assalire Licata: ma i due Moncada lo prevennero e trasportarono Maria ad Agosta, luogo più munito. Qui venne Artale a porre assedio per mare e per terra, ma intanto sorgevano complicazioni diplomatiche...

Luigi Natoli: Il paggio della regina Bianca.
Pagine 702 - Prezzo di copertina € 23,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli ed. Ciuni anno 1935, pubblicato al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini.

Luigi Natoli: L'esodo. Quadro storico.


Sotto il viceregno di Ferdinando de Acuna, giunto in Palermo il 28 febbraio 1489, avvenne un fatto memorando per tutti gli stati della monarchia. Era in Spagna e alla Corte divenuto potentissimo fra Tomaso Torquemada, domenicano, fanatico fino alla ferocia, che fisso nell’idea di purificare il cattolicesimo, aveva riformato l’Inquisizione, e creato quel terribile Istituto, che acquistò dominio su tutto il Regno e sui Sovrani stessi. Musulmani ed ebrei eran la lebbra che bisognava distruggere col fuoco. Nell’animo del Re si confusero la superstizione e la necessità di denaro, sì che cedette alle insistenze violente e minacciose del frate, il quale, pretese che il Re cacciasse gli Ebrei da tutti gli Stati. Il bando fu promulgato il 31 marzo del 1492 ed ordinava che uscissero fra tre mesi, ma lasciando denari, vasellami e ogni loro cosa, per quanto misera. I miseri tentarono ottenere la sospensione offrendo grandissima somma, ma il feroce Torquemada non volle: e il Re ubbidì. Circa settantamila ne partirono dall’Aragona: parecchie migliaia che si erano convertiti, forse in apparenza, accusati di professare occultamente la religione degli avi, furono bruciati vivi.
In Sicilia fu notificato il bando del 31 marzo. Qui, preti fanatici avevano già suscitato qualche tumulto, nel quale era stato ucciso il sommo sacerdote degli Ebrei, ma in generale questi erano tollerati, e godevano di qualche benefizio, quando giunse l’ordine fatale. Essi supplicarono il Vicerè, che era di buon animo e incline a giustizia, e le loro suppliche furono appoggiate da lettere del Senato, che li difendeva dalle accuse, e mostrava i danni economici che sarebbero avvenuti. Fu vano. Non ottennero dal Re, mercè denaro, che una dilazione, e dovettero partire il 12 gennaio del 1493, non altro portando che un misero letto, gli abiti che avevano indosso, e tre tarì pel nolo della nave. I miseri scacciati da un Re cristiano, trovavano ricovero a Roma, sede della cristianità! E Ferdinando in merito della pia rapina ebbe il soprannome di Cattolico.
Il Sant’Offizio fu qui introdotto nel 1487 dal frate Antonio della Pegna; ma non c’è notizia di roghi anteriori al 1506, quando già il Sant’Offizio vi esercitava incontrastato il suo ministero.
Il secolo si chiudeva, lasciando la Sicilia povera, schiacciata dalle imposte, mal governata, esposta alle piraterie, terrificata dai roghi, sempre più appartata dall’Italia.
 
Luigi Natoli: L'esodo. Tratto da: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue.
Prezzo di copertina € 19,00 - Sconto 15%.
Il quadro storico è tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli ed. Ciuni anno 1935 e pubblicato al termine della leggenda per maggiore comprensione del lettore.

 

venerdì 25 novembre 2016

Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia. Quadro storico:La guerra civile fra Latini e Catalani


Matteo Palizzi sbarcò presso Messina, nel giugno del 1348; Blasco corso con ottocento lance non potè ricacciarlo, e la regina Elisabetta fingendo di seguirlo in Catania con Ludovico, andava a Patti dove Matteo la raggiungeva, col quale si accordò. Indi il Palizzi si recò a Palermo, accolto con feste dai Chiaramonte. Proposero di abbattere Blasco Alagona, e fare strage dei Catalani, approfittando dell’odio di razza per eccitare il popolo di Palermo. E al grido di viva Palizzi e Chiaramonte!  fu fatta strage degli stranieri. Il moto si estese a quasi tutto il Val di Mazzara. Inutile e tristo vespro novello! Intanto Matteo, e i Chiaramonte accozzato un esercito mossero per risollevare tutta l’Isola. Dovunque andassero, da Termini a Randazzo, le città si rendevano, i Catalani erano perseguitati, imprigionati, uccisi. I sopravissuti riparavano in Catania e Matteo Palizzi entrava da trionfatore in Messina, dove la Regina, gli diede in moglie Margherita, già aia di Ludovico, tedesca e vedova di un cavaliere di Santo Stefano.
Blasco dal canto suo provvedeva a difendersi, e chiamava i baroni catalani, coi quali accorrevano anche i Ventimiglia, Enrico Rosso e altri, nemici giurati del Palizzi; adunava milizie, altre ne assoldava che avevan nome “briganti”, e fortificava Catania. Per singolarità del caso, il Re stava dalla parte latina, che in vero ne teneva in non cale l’autorità, ma ne appariva tutrice; la parte catalana, che in realtà gli era fedele, appariva invece come ribelle. Già qualche avvisaglia preannunciava la guerra aperta; e temendone gli effetti, la Regina troppo tardi cercò di impedirla. Invano, Matteo mosse contro Catania, bruciandone le messi; ma per evitare i danni di un assedio, Blasco ordinò che si incontrasse in campo aperto. Presso la Gurna di Paternò in un luogo detto Fontana Rossa, i due eserciti vennero a battaglia, che fu aspra e feroce. E già la parte catalana, non reggendo all’urto si scompigliava, e la latina si disordinava per far bottino, quando Blasco piombò con la riserva che teneva appostata, e mutò la sconfitta in vittoria. Matteo dovetti ritirarsi con gli avanzi dei suoi a Lentini...
La guerra civile continuò con imprese da banditi, dall’una parte e dall’altra. Campagne devastate, città e borghi saccheggiati, rapine e stragi, tra le quali si logoravano, si esaurivano quelle forze, che avrebbero dovuto serbarsi alla salute della patria. Privati rancori e insane ambizioni insanguinavano le città. Un certo Lorenzo Murra, familiare dei Chiaramonte, poi crucciato contro di loro, tenne una congiura e vi attirò i Ventimiglia e Matteo Sclafano. Trovò aderenti e si fece nominare capitano del popolo che aizzò a uccisioni; poi all’annunzio di schiere chiara montane, tradì i compagni, fingendo aver tramato tutto per cogliere i Ventimiglia, che si salvarono con la fuga (gennaio 1351). A Licata un certo de Vilis, catalano, cacciato, chiamò Artale Alagona figlio di Blasco, che accorse e vi fece strage e rapina. Quelli invocarono Manfredi  Chiaramonte, che non giunto a tempo per fermare Artale, già in mare col bottino, lo fece assalire a Siracusa. Altri torbidi vi furono a Castrogiovanni, una ribellione di vassalli ad Assoro, contro Scalore degli Uberti, partigiano dei Palizzi, loro tiranno, che fu fatto a pezzi dai villani. Scorrerie per terra, piraterie per mare; non v’era più governo, non Parlamento. L’ombra sinistra della malcelata ambizione di Matteo Palizzi si proiettava sulla Sicilia. Il povero Re, astutamente gittato da lui fra i piaceri, logorava la malferma giovinezza; e, mentre Matteo arricchiva, egli era costretto a pegnorare fin le gemme della corona....
 
 
 
Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia - Latini e Catalani vol. II.
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo inserito al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini Editori.

giovedì 24 novembre 2016

Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia. Quadro storico: la potenza dei due baronaggi Latini e Catalani nella Sicilia del 1348.


Il baronaggio indigeno, che si sentiva e si diceva latino, era in gran parte d’origine normanna, francese e italiana: ma in quel formarsi della monarchia si era così naturalizzato, che aveva finito per considerarsi veramente indigeno. Possedeva grandi feudi, specialmente nella Sicilia settentrionale e occidentale, e vantava i nomi dei Chiaramonte, dei Lancia, dei Ventimiglia, dei Montaperto, dei Tagliavia, dei Rosso, dei Calvello, degli Sclafano; ricca, magnifica, conservava la tradizione di quei cavalieri vissuti nelle corti di Ruggero e di Federico imperatore. L’altro baronaggio venuto con Pietro d’Aragona e durante il regno di Giacomo e Federigo, catalano, rude, fiero, che contava i nomi degli Alagona, dei Moncada, dei Valguarnera, dei Peralta, dei Galcerando, meno numeroso, arricchitosi dei feudi tolti agli altri, era divenuto possente per la predilezione dei re, che erano di loro razza. I dinasti aragonesi non ebbero virtù di fondere le due aristocrazie, le tennero anzi divise, invide e gelose. E neppure seppero fondere con i naturali delle città i borghesi e gli artigiani che venivano di Catalogna, i quali formavano colonie con propri capi, per cui i Catalani vi furon tenuti sempre come stranieri, e spesso chiamati barbari.
Durante la potenza del Vespro, questo baronaggio, era cresciuto in potenza, a furia di concessioni e di privilegi, e appannaggio pel servizio dell’armi , di cui era sempre richiesto. La sua potenza cresceva a scapito di quella del Re, e a spese dei comuni non solo feudali, ma demaniali, e l’interesse di difenderle a ogni costo, si sovrapponeva ai giuramenti prestati, al dovere verso la patria, verso cui non si vergognavano di attirare l’odiato nemico, se per suo mezzo potevano trarre vendetta di quelli, che credevan torti. Per preminenza, autorità e nome i due baronaggi avevano automaticamente fatto capo a due famiglie: i latini ai Chiaramonte; i Catalani agli Alagona. Manfredi II Chiaramonte aveva le cariche di Gran Siniscalco del regno e Capitan Giustiziere di Palermo; Blasco Alagona era Gran Giustiziere del regno. Questa carica gli dava il diritto, morto il duca Giovanni, di prender le redini dello Stato, ma i Latini che avevano dalla loro la regina Elisabetta, s’adombrarono. E richiamò i Palizzi, ma venne solo Matteo, perché Damiano, ammalato, morì prima di partire...
 
 
 
Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia. - Latini e Catalani vol II.
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli e pubblicato al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini.
 
 

Rivendicazioni. La rivoluzione siciliana nel 1860 e altri scritti storici sul Risorgimento siciliano.

mercoledì 23 novembre 2016

Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia - Quadro storico - Cosa avvenne prima del luglio 1348, quando ha inizio il romanzo.


Palermo, 1342
 
Il 15 agosto 1341, dopo aver fatto testamento, e nominato il duca Giovanni Vicario Generale fino alla maggiorità del figlio Ludovico, il re Pietro d'Aragona morì e il cadavere, trasportato a Palermo, fu tumulato nello stesso sarcofago dell’imperatore Federico.
Il duca Giovanni era d’altra tempra di Pietro, e avrebbe forse potuto alleviare i mali del regno, se non si fosse circondato di Catalani, e non fosse immaturamente morto. Il baronaggio indigeno, attirò dalla sua la regina vedova Elisabetta, e la persuase a far coronare il piccolo Ludovico nel settembre dello stesso anno 1342. Ma poco dopo il duca Giovanni si ammalò a Siracusa, e un certo Magno, occulto partigiano dei Palizzi, spacciò a Messina che quello era morto; onde parve ai Messinesi di potersi levare contro i Catalani, e dopo averne uccisi alquanti, deposto lo Stratigò, elessero nuovo governo. Allora si rivolsero per aiuti agli Angioini padroni di Milazzo: ma il duca guaritosi, adunò gente, e per terra e per mare, assalì Messina; il popolo abbandonò i ribelli, i quali si chiusero nel castello del Salvatore, che dopo fiera difesa dovette rendersi. Seguirono stragi e supplizi crudeli...
In questo tempo moriva a Napoli il vecchio re Roberto e senza eredi maschi, per la morte dei suoi figli; unica erede rimaneva la nipote Giovanna, giovinetta, moglie di Andrea d’Ungheria, suo cugino: essa volle continuare la politica degli avi verso la Sicilia, e incaricò il conte di Squillaci di una nuova spedizione. Questi mirò a Messina, sperando accordi coi cittadini; ma essi, incorati da lettere dei Palermitani, si difesero dagli assalti, e diedero tempo al Duca di levare un esercito, la paura del quale persuase il conte di Squillaci a tornarsene a Napoli, senza frutto. Questo insuccesso, e i casi di Napoli, dove ucciso Andrea, incolparono per segrete pratiche la regina, per cui il re Luigi d’Ungheria per vendicare il fratello ucciso invase il regno di Napoli, diede animo al duca Giovanni, che approfittando dell’occasione, riprese Milazzo (1346), e nell’anno seguente mandò una flottiglia dinanzi al golfo di Napoli, suscitandovi la paura. Allora la Regina domandò tregua e interpose l’autorità dei nunzi pontifici, coi quali Giovanni, premuroso di salvare la dinastia, stipulava patti non belli, che sancivano un doppio vassallaggio del regno alla Chiesa e a Napoli. In vero credevasi che il duca Giovanni avrebbe saputo approfittare della fuga di Giovanna e del nuovo marito principe di Taranto, ma non ne ebbe il genio, e la Sicilia rimase impotente spettatrice, precipitando sempre più in basso. Per colmo, nel cadere del 1347, questa fu invasa dalla tremenda pestilenza che propagatasi desolò l’Europa e specialmente l’Italia nell’anno seguente. L’isola ne fu decimata, e fra le vittime contò anche il duca...

Luigi Natoli: Il tesoro dei Ventimiglia - Latini e Catalani vol. 2
Pagine: 526 - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15%
Quadro storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli e pubblicata al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini Editori.
www.ibuonicuginieditori.it

sabato 19 novembre 2016

Luigi Natoli: Latini e Catalani vol. 1 - Mastro Bertuchello.


Pagine 575
Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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Mastro Bertuchello. Quadro storico: i fratelli Palizzi e il marchese di Randazzo, fratello di re Pietro d'Aragona. Quad


Palermo, 1338
 
Pochi mesi dopo, il re Roberto d'Angiò, mandata un’armata a rinnovare l’impresa di Sicilia prese alcune terre, e assediò Termini, che si difese, sperando d’essere soccorsa da re Pietro.
Ma la ribellione di Ruggero Passaneto conte di Garsiliato, alle cui ricchezze i Palizzi avevan volto i cupidi occhi, parve cosa più grave. Vi fu mandato Blasco Alagona junior, che accomodò la cosa, il che spiacque ai Palizzi; sicchè l’Alagona andato a Castrogiovanni lieto dell’esito, non fu ricevuto dal Re.
Intanto Termini era abbandonata dai cittadini, e sarebbe caduta se finalmente l’esercito siciliano non fosse giunto in tempo. Gli Angioini dovettero ritirarsi: indi furono sconfitti a Gratteri, ma istigati dal Papa, apprestarono una nuova armata, con numerose milizie e aggredirono Lipari nel novembre del 1339. Re Pietro, cercato invano di ottenere pace dal Papa, dovette in fretta armare quindici galere, sotto gli ordini di Giovanni Chiaramonte, e le inviò a osservare le mosse del nemico; ma il giovanile bollore di Orlando d’Aragona, bastardo di Federigo, non ostante i prudenti consigli del Chiaramonte, volle attaccare il nemico, e caduto nell’insidia tesagli dal conte di Squillaci, fu sconfitto. Sotto otto galere si salvarono e Rolando rimase, con molti cavalieri, prigionieri; né il Re volle riscattarlo.
Il re Pietro invece di provvedere alla difesa del regno, si lasciava guidare dai Palizzi, che gli venivano istillando sospetti contro il fratello Giovanni, marchese di Randazzo e, per la morte di Guglielmo, duca d’Atene, rappresentandolo come ambizioso della corona e insidiatore della vita del Re. E il Re che era a Palermo proibì al duca di metter piede nella Reggia, ma questi, deliberato di rassicurare il Re e scoprire i calunniatori, mosse alla volta di Palermo, dicendo ai messi regi, che lo incontrarono a Piazza, che non doveva tremare lui, ma i traditori.
Il Re, sdegnando i suggerimenti dei Palizzi andò a incontrare il fratello, il quale, visto Pietro sul ponte dell’Ammiraglio, lasciati indietro i suoi, corse tutto solo a gettarglisi nelle braccia fra il giubilo di tutti. I due fratelli entrarono insieme nella città festante, che alle voci di gioia e di plauso, unì ben presto quelle di morte ai Palizzi!  Matteo e Damiano corsero a serrarsi nel loro palazzo detto degli Scavi o Schiavi e la folla andò ad assalirli; ma sopraggiunto il Re, sollecitato dalla regina Elisabetta, placò la folla...
 
 
 
Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Latini e Catalani vol. 1
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15%

giovedì 17 novembre 2016

Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Quadro storico: il conte di Geraci e il potere dei Palizzi


Pietro II (figlio di Federigo d'Aragona) non ereditò nessuna delle virtù paterne; non fu guerriero, né legislatore, né reggitore. Vivendo il padre si lasciò dominare da Eleonora sua amadre e da Elisabetta di Carinzia sua moglie, salendo sul trono, da questo dominio passò sotto quello di Matteo Palizzi, figlio di quel Nicolò illustre per la difesa di Messina. Protetto dalle due regine, costui era divenuto familiare nella corte, si era insinuato nell’animo di Pietro, e vi aveva acquistato potere. Il Re, inaugurando il suo regno, lo fece conte di Novara e maestro razionale, fece Gran Cancelliere Damiano, fratello di lui, uomo di Chiesa, più dotto, più abile di Matteo, però meno ambizioso, volitivo, avido, violento e senza scrupoli. Essi ripresero i disegni di Maione (26), e divenuti i consiglieri del Re, ne fecero il loro strumento, ma gettarono il regno nella miseria e nella guerra civile e fecero perfino richiamare dall’esilio Giovanni Chiaramonte. Allora Francesco Ventimiglia lasciò la corte, dove copriva l’ufficio di Gran Camerario, e si ritirò nei suoi vasti feudi. La qual cosa i Palizzi spiegarono al Re come segno di ostilità, e lo spinsero ad invitarlo a Catania pel Parlamento. Il Ventimiglia, per tre volte non si arrese all’invito, e mandò invece a Catania il suo primogenito Franceschello, ma il re lo fece imprigionare. Il conte Francesco allora si ribellò; diciotto terre sue vassalle lo seguirono, e con esse i feudi di Federico d’Antiochia. Il Re convocò la Magna Curia, di cui faceva parte Matteo, la quale il 30 dicembre del 1337 condannò il conte di Geraci per tradimento. Mosse allora il Re, coi Palizzi, e con forte schiere contro il conte, il quale, abbandonato da molte delle sue terre, si fortificò nella rocca di Geraci. Era per convincersi ad aprire le porte al Re, purché i Palizzi non fossero entrati, quando il vescovo di Cefalù, fra Roberto Campolo, con fiere rampogne lo distolse: allora il conte, lacerata la lettera che aveva scritta, rimandò l’araldo regio. Il Re ordinò l’assalto e al conte, rimasto solo, non restò altro scampo che la fuga: ma inseguito dai cavalieri del re, spronando fieramente il cavallo, questo come impazzito precipitò da una rupe, sfracellando il conte. Tutta la famiglia del conte fu arrestata e mandata in vari castelli: scampò solo Arduino. Federico d’Antiochia si sottomise e se n’andò in esilio.
Di questa impresa Pietro celebrò esagerato trionfo in Catania, pretaratogli dai Palizzi, che ebbero gran parte dei beni confiscati ai Ventimiglia.
 
Luigi Natoli - Latini e Catalani vol 1 - Mastro Bertuchello. 
Pagine 575 - Prezzo di copertina € 22,00 - Sconto 15%

mercoledì 16 novembre 2016

Diciannove i volumi della Collana dedicata alle opere di Luigi Natoli: quale sarà il ventesimo?


 

Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Antefatto storico: re Federigo e Francesco Ventimiglia, conte di Geraci.

Palermo, 1322
 
Un avvenimento che fu poi cagione di tristi conseguenze pel Regno, contristò Federigo in questo tempo. Aveva Francesco Ventimiglia, ricchissimo conte di Geraci, presa in moglie Costanza Chiaramonte; ma poco dopo innamoratosi di un’altra donna, la ripudiava col pretesto di sterilità. Ella si rinchiuse in un monastero. Il fratello Giovanni n’arse di sdegno e cercò vendicarsi. Scontratisi in Palermo con i loro scherani, vennero alle mani; il Ventimiglia ferito ricoverò nella reggia. Federigo, che l’aveva caro, esiliò il Chiaramonte, il quale si ribellò e non ebbe vergogna di portare le armi di Roberto contro la patria: poi, pentito andò in Germania, e capitanò le schiere di Ludovico il Bavaro, che lo fece marchese di Ancona.
Roberto riprese la guerra: e fu sul punto d’impadronirsi del Castello a mare di Palermo, per tradimento, se i cittadini non avessero sventata la trama, e bloccavano il castello; per cui le galere angioine dovettero lasciar l’impresa, e dare il guasto altrove. Federigo sperava d’avere amico il nuovo papa Benedetto XII come si era mostrato da cardinale, ma ne fu deluso; per cui si preparò a difendere nuovamente il Regno. Ma la perdita delle Gerbe, rivoltatesi pel mal governo del capitano che v’era preposto, lo addolorò; ed egli ormai stanco e travagliato dalla gotta, desiderava riposo.
Nell’estate del 1337, recandosi a Castrogiovanni (Enna) per passarvi l’estate, a Resuttana fu assalito dal male: e temendo la morte volle far testamento. Lasciò Pietro erede del regno e degli altri diritti; fece Giovanni, altro suo figlio, marchese di Randazzo, Guglielmo, terzo suo figlio, duca d’Atene e Neopatria, Federico d’Antiochia, conte di Capizzi; il primogenito del conte Francesco Ventimiglia, anch’esso di nome Francesco, conte di Golisano; ed altre disposizioni diede. Trasportato a Castrogiovanni, e peggiorando, disse voler morire in Catania; e vi fu portato a spalla dai cittadini, che accorrevano al suo passaggio. Morì nell’Ospizio dei cavalieri di Gerusalemme il 25 giugno 1337.
Ebbe solenni funerali, fu deposto temporaneamente nel duomo di Catania, ma poi fu trasportato a Palermo.
Federigo fu di animo grande; buon capitano, accorto ma non profondo politico, seppe far fronte alle grandi difficoltà, tenendo testa per quarant’anni al Papato, alla casa d’Angiò, alla Francia, ai Guelfi d’Italia, alla casa Aragona, alle armi, alle scomuniche, ai tradimenti; mantenendo l’indipendenza del Regno da abile nocchiero. I Siciliani videro in lui il principe che difendeva l’indipendenza, e per quarant’anni gli diedero sangue e averi; e con essi la forza e la costanza. Fu amico degli studi, e studioso egli stesso; fece venire in Sicilia Arnaldo di Villanova, celebre alchimista e filosofo, e con lui aveva in animo una riforma religiosa, alla quale s’era ispirato nel proporre un ordinamento generale della scuola, il primo che si vedesse. Fu legislatore sapiente, il quarto dopo Ruggero II, Guglielmo II e l’imperatore Federico. Ma sventuratamente lasciava tre mali; un successore inetto, un baronaggio strapotente, la guerra ancora accesa.
La stella della dinastia aragonese tramontò con lui, per non risorgere più. 
 
 
 
Luigi Natoli: Latini e Catalani vol. 1 - Mastro Bertuchello.
Antefatto storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli. Ed. Ciuni anno 1935, pubblicato in anteprima al romanzo per far meglio comprendere al lettore il quadro storico dell'epoca.
Prezzo di copertina € 22,00 - Pagine 575
Sconto 15%
 
 
 

Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Antefatto storico: La guerra tra re Federigo e Roberto d'Angiò.


Palermo, 1325
 
A prevenire l’offensiva che Federigo meditava, il papa Giovanni XXII si intromise per una pace più durevole, e invitò gli ambasciatori di Sicilia, d’Aragona e di Napoli ad Avignone, allora sede pontificia. Vi andarono quelli di Sicilia, ma non quelli di Napoli, e così tutto sfumò. Avendo intanto Federigo aiutato i fuoriusciti Ghibellini di Genova sotto i Guelfi, che protetti da Roberto, s’erano impadroniti della repubblica, e fatto coronare re il principe Pietro, il che era contro la pace di Caltabellotta, il Papa, che stava per l’Angioino, ne prese pretesto per scomunicare Federigo, colpire la Sicilia d’interdetto, e riprendere la quistione del titolo di “re di Sicilia” che Federigo aveva riassunto. Riarse la guerra, e Roberto allestita una flotta di centotredici galere, di cui trenta genovesi, col figlio duca di Calabria e il fior dei baroni, lo mandò in Sicilia. Il 26 maggio 1325 il nemico sbarcò nelle campagne di Palermo: s’accampò sotto le mura, distrusse il parco della Cuba, depredando e bruciando, e poi diede l’assalto. La città era difesa da Giovanni Chiaramonte, detto poi il Vecchio, che aveva con sé, tra i baroni, Matteo Sclafano, Nicolò ed Enrico Abate, Giovanni Calvello, Simone Esculo e tutti i cittadini animosi. Per tre giorni con ogni macchina e strumento di guerra Genovesi e Napoletani si travagliarono in assalti, in punti diversi; e per tre giorni furono con gravi perdite ributtati. E si vide in quei frangenti il vecchio Chiaramonte, gottoso, farsi trasportare su una sedia qua e là sulle mura, dove maggiore era il pericolo, a incoraggiare e dirigere la difesa. Allora rinunziando agli assalti, il nemico cinse la città d’assedio, sperando prenderla per fame: ma la notizia che sopravveniva a gran giornate Giovanni Chiaramonte il giovane con altri baroni e buon nerbo di cavalli e di fanti, persuase il duca di Calabria e gli altri capitani a togliere l’assedio, e a contentarsi di dare il guasto alle campagne. E queste furono le imprese, né da re né da capitano, ordinate dal re Roberto, per lungo corso di anni.
Quando alla calata di Ludovico il Bavaro, si rianimarono i Ghibellini, Federigo si alleò col Tedesco, che coronato imperatore a Roma il 22 gennaio 1327, perduto inutilmente un anno, nell’aprile del 1328 fece deporre il papa Giovanni, ed eleggere un antipapa, Nicolò V. Ma Federigo, non volendo accrescere le ire del Pontefice, non riconobbe Nicolò; non negò però i suoi soccorsi all’Imperatore, e mandò con una flotta Pietro; il quale dopo avere danneggiato il castello di Astura e compiute altre operazioni, abboccatosi con l’imperatore di Pisa, ritornò in Sicilia, e l’Imperatore in Germania, dileggiato del rumore fatto per una impresa andata in fumo.

Luigi Natoli: Latini e Catalani vol. 1 - Mastro Bertuchello.
Antefatto storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli. Ed. Ciuni anno 1935, pubblicato in anteprima al romanzo per far meglio comprendere al lettore il quadro storico dell'epoca.

Prezzo di copertina € 22,00 - Pagine 575

Sconto 15%

Luigi Natoli: Mastro Bertuchello. Antefatto storico: come Federigo diviene re di Trinacria.

Sicilia, 1302

Dopo tanti insuccessi tra Carlo di Valois e Roberto d’Angiò, si convenne di trattare la pace. Per le trattative corsero alquanti giorni: infine furon conchiuse e giurate a Caltabellotta il 31 agosto 1302.
Con esse si lasciava la Sicilia a Federigo, finchè fosse vissuto, col titolo di re di Trinacria, patto disonorevole: gli si dava in moglie Eleonora figlia del re Carlo d’Angiò; i figli sarebbero stati re di Sardegna e di Cipro: Federigo doveva rendere le terre occupate sulla penisola e Carlo quelle occupate in Sicilia.
La Sicilia, che dopo venti anni di guerra era esausta, ne giubilò: Bonifazio dovette frenarsi. Promulgata la pace si fecero feste, ed è fama che a un convito, sedendo Nicolò Palizzi fra Roberto e il Valois, e questi avendogli domandato che cosa avrebbe fatto, se l’assedio avesse reso impossibile la difesa di Messina, ebbe risposta: “Messere, consumato l’ultimo boccone di carne di cavallo e di cane, avremmo ucciso le donne, i vecchi, i bambini, e avremmo dato fuoco alla città per morire tra le sue rovine come quelli di Sagunto”. E Carlo a Roberto: “Vedi chi volevamo vincere! Bene è stata la pace!”.
Federigo attese a ristorare il regno in quegli anni di pace, durante i quali, morto Bonifazio VIII, egli migliorò i rapporti con Benedetto XI, e più ancora con Clemente V. Intanto gli nasceva il figlio Pietro, e morivano Carlo II e Ruggero di Loria. Ma la pace fu turbata. 
Calato infatti Arrigo VII di Lussemburgo a coronarsi imperatore, i Ghibellini sperarono di risolvere le loro sorti. Arrigo si rivolse per aiuti a Federigo, che non aspettava di meglio per diventar capo del partito ghibellino; e intanto, per punire Roberto, che per la morte di Carlo II era salito al trono, lo dichiarò decaduto. Federigo fatto riconoscere per suo erede il piccolo Pietro, partì per la Toscana; ma la improvvisa morte di Arrigo lo fece ritornare. Questi fatti ruppero la pace....
Roberto con un’armata, presa per tradimento Castellammare, andò ad assediare Trapani, ma la resistenza dei cittadini, il logoramento dell’esercito, i rigori invernali, la minaccia di essere assalito, lo persuasero a domandare una tregua; e tornò a Napoli. Federigo, appena spirata la tregua assalì e riprese Castellammare. Roberto raccolse un nuovo esercito, gli pose a capo Tomaso Marziano conte di Squillace, e lo mandò in Sicilia. Questi assediò invano Marsala difesa da Francesco Ventimiglia, e allora il conte si diede a guastare le contrade, girando per l’isola; e venuto nelle campagne di Palermo si sfogò a recidere i bei palmizi e i gelsi e ogni altra pianta, e con questa vittoria arborea si partì. Né lui né altri capitani allora cercarono di misurarsi con l’armata siciliana.
Luigi Natoli: Latini e Catalani vol. 1 - Mastro Bertuchello.
Antefatto storico tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli. Ed. Ciuni anno 1935, pubblicato in anteprima al romanzo per far meglio comprendere al lettore il quadro storico dell'epoca.
Prezzo di copertina € 22,00 - Pagine 575
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mercoledì 9 novembre 2016

Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella. La copertina di Niccolò Pizzorno.

Il Cavaliere della Stella:
 
Essi vestivano la ricca divisa dell'Accademia; corazza e gorgiera di acciaio brunito, maniche di maglia d'acciaio; sul petto grande stella d'oro, immagine della co­meta apparsa ai tre Magi. Se non fosse stato pel lusso del­le bardature, per la nitidezza delle armi, e soprattutto pel colore festivo che ogni cosa prendeva intorno a loro, si sarebbe detto che quello era un reggimento che andava alla guerra.
Non era facile far parte dell'Accade­mia. Oltre che si doveva essere nobili da almeno duecent’anni, il numero dei cavalieri era limitato a cento, e non vi si entrava che per elezione a bossolo, e dopo una serie di informazioni e di formalità per assicurarsi della degnità dell'aspirante: sicché far parte dell'Accademia si teneva a grande onore, e come un segno della nobiltà e della grandezza della casa, e i padri che già ne avevan fatto par­te, sollecitavano che quell'onore si trasmettesse nei figli, stabilendo una specie di successione ereditaria come in una paria.
Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella o La caduta di Messina edito I Buoni Cugini Editori.
 

Alle sue spalle due uccelli: un merlo e un tordo.

La carestia travagliava da un pezzo la città, il popolo sussurrava contro ipotetici accaparratori di granaglie ed era avvenuto qualche tumulto; lo stratigò, fingendo pietà pel popolo minuto, lo aizzava accortamente contro il senato, che era in mano dei grandi. Si formò un gran partito tra la plebe, i malcontenti e gli avversari del Senato, e dallo stemma dello Stratigò, portante un merlo, si disse dei Merli. I nobili, la borghesia grassa, per contrapposto, si chiamarono i Malvizzi, cioè i tordi. La città si divise.
I merli, fedeli al Vicerè e alla Spagna: Il nome del nero uccello dal forte becco, parve il segno, la bandiera, il mot­to d'ordine della fazione popolare, che, per una di quelle anomalie non rare nel­la storia, era anche la fazione che mina­va le istituzioni patrie, per asservirsi al­l'assolutismo regio. Esser merlo significò essere nemico dell'oligarchia del Senato, parti­giano del governo regio; e pareva titolo d'onore. 
I Malvizzi (tordi) fedeli al Senato e alla libertà di Messina: E anche questo nome diventò un sim­bolo, un segno, una bandiera; e malvizzi furono i cittadini dell'ordine senatorio, i nobili, i mercanti, il clero, i frati, parte delle maestranze.

E lo stemma dell'Accademia della Stella





Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella: La caduta di Messina. (parte terza)


Messina, 1677
 
In Spagna Carlo II, uscito di minorità, veniva coronato, il che portava un mutamento nella politica. Finiva l’alleanza della Spagna con l’Olanda; e il principe d’Orange, sposando Maria d’Inghilterra, e avendo un più largo campo, si intrometteva per pacificare l’Europa, e prima di tutto i Paesi Bassi con la Francia, e la Francia con la Spagna.
Cadeva così il 1677, quando re Luigi XIV nel Consiglio dei Ministri annunziò il ritiro delle milizie da Messina. I nuovi orientamenti politici da un lato, la necessità di riunire la flotta, le enormi spese sostenute per la guerra in Messina, dalla quale non traeva nessun vantaggio, la lunghezza della guerra stessa, che non prometteva di risolversi, la certezza che la Sicilia non avrebbe  mai seguito Messina, e altri disegni, consigliavano quest’abbandono. Nei primi di febbraio del 1678 richiamò il duca di Vivonne, che lasciò il comando al maresciallo de La Feuillade, e partì, fra i pavidi sospetti e gli sdegni dei cittadini.
Il Maresciallo diede principio alle segrete istruzioni: disarmò i forti, imbarcò la cavalleria, i fanti, gli ordegni e avviò tutto ad Agosta, spacciando che si preparava a nuova e più vigorosa impresa. Poi, fatto venire il Senato nel vascello, ove egli stava, gli mostrò i dispacci del Re, che gli ordinava l’abbandono di Messina. Era questa una delle condizioni imposte per l’esecuzione della pace di Nimega. Il re di Francia avrebbe dovuto, per l’onor suo, ottenere, se non altro, il perdono da Messina, della quale aveva eccitata la vanità ed alimentata la ribellione; l’abbandonava invece perfidamente all’ira di un vincitore vendicativo, irritato da quattro anni di ribellione...
Grandissimo numero di cittadini domandarono imbarco sulle navi francesi, che ne accolsero settemila, di più non consentendone il Maresciallo. E i miserandi esuli partirono, piangendo, dalla terra che li aveva visti nascere, e per la quale avevano combattuto...
Il 25 marzo giungeva il nuovo vicerè Vincenzo Gonzaga dei duchi di Mantova, il quale, mite d’animo, promulgò un indulto, restituendo i beni già confiscati, salvo quello degli esuli; e altri provvedimenti, ma non vessatori, prese per ristabilire l’autorità della monarchia. Ma parvero troppo clementi alla Corte di Spagna, che inviò un consultore, il de Quintana, fiero e senza pietà, il quale obbligò il Gonzaga al rigore: e di lì a non molto, accusatolo alla Corte, lo fece rimuovere. In sua vece fu mandato il conte di Santo Stefano, che fu il carnefice di Messina....
Appena preso possesso della carica nel Duomo di Palermo, partì per Messina, dove giunse il 6 gennaio del 1679, e il giorno dopo soppresse l’Accademia della Stella...
 
 
 
Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella.
Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo, pubblicato a seguito del romanzo nella edizione I Buoni Cugini editori.

 

Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella. Messina divisa tra Francia e Spagna (parte seconda)

Nel luglio del 1672 un quadro allegorico esposto da un sarto, provocò l’ira dei Merli, e ne nacque un tafferuglio; sicchè tra i Merli e i Malvizzi avvenne il primo conflitto. Oramai la discordia cittadina, nata dalla fame, si tramutava in ribellione ai poteri dello Stato.
Il Senato cominciò a provvedere alla sua difesa con memoriali al marchese di Baiona, che reggeva il regno per la partenza del principe de Ligny; ma inascoltato, riprese le armi per espugnare il Palazzo reale e i castelli tenuti dagli Spagnoli. Il marchese di Crispano da prima resistette nel Palazzo, poi gli fu forza sottomettersi. Allora il Baiona mosse verso Messina, ma non potè entrarvi.
I Malvizzi intanto, non potendo sostenere un possibile assedio, né resistere a lungo alle armi spagnole, di propria iniziativa per mezzo di alcuni cittadini si rivolsero all’ambasciatore francese in Roma, che li mandò a Parigi, dove, per la protezione di madama di Montespan, favorita di Luigi XIV, ottennero l’invio di una flotta col cavaliere di Valbelle.
Il 29 settembre giunse il Valbelle con undici legni, ricevuto con grida di viva il re Luigi; così Messina si dava a un altro re straniero.
L’11 febbraio le due armate francesi e spagnole si incontrarono tra lo Stromboli e il Faro; la spagnola ebbe la peggio, più pel mare tempestoso che pel valore nemico, nondimeno i francesi l’ascrissero a vittoria, tanto più che gli spagnoli furon costretti a levare il campo dalla torre dei Faro e a ritirarsi sui colli. Il duca di Vivonne entrò trionfalmente in Messina, ne prese possesso, e si nominò vicerè; esigette il giuramento di fedeltà, e il Senato lo prestò.
Messina diventava terra del re di Francia, e provocava una ribellione generale dell’Isola contro di essa...
 La vittoria dei francesi all’Agliastro suggerì al duca di Vivonne di battere gli Spagnoli per mare, e ordinò al Duquesne di andare incontro alla flotta ispano-olandese. Il 22 aprile 1676 presso Agosta avvenne la battaglia: grande l’accanimento, grande il valore: vi morirono i più valorosi capitani, fra cui l’ammiraglio Ruyter. Le perdite furono enormi, di nessuno la vittoria; pure ognuno se l’attribuì. Le due armate, separate dalla notte, si ritirarono, la spagnola a Siracusa, la francese a Messina. Altra più decisiva battaglia avvenne nelle acque di Palermo il 2 di giugno. Comandava le navi olandesi e spagnole il vice ammiraglio Giovanni d’Haen succeduto al Ruyter; le francesi lo stesso duca di Vivonne. Pugna terribile. I brulotti francesi giunsero ad appiccare il fuoco alla Reale di Spagna, che arse e comunicò l’incendio alle altre navi; e sette ne andarono distrutte dalle fiamme; le altre liberatesi alla meglio, ripararono dietro il Molo. Vi perirono il fiore dei comandanti spagnoli e il vice ammiraglio d’Haen. La vittoria rimase ai Francesi..
 
Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella.
Pagine 954 - Prezzo di copertina € 26,00 - Sconto 15%
Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo pubblicato al termine del romanzo nella edizione I Buoni Cugini Editori.

Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella. Quadro storico. (Prima parte)

Messina, 1672.

Godeva Messina di un governo autonomo, quasi repubblicano, ricco di privilegi e immunità; il Re vi teneva uno speciale suo rappresentante, che si diceva Stratigò. Traeva la sua ricchezza dalla industria della seta, dalla franchigia del porto e dalla sua invidiabile posizione. La politica spagnola, eccitandone la vanità e lusingandone l’ambizione d’esser capitale del regno, aveva fatto di essa, più che rivale, una nemica di Palermo. La disunione alimentata dai pettegolezzi ridicoli e inverecondi degli scrittori, giovava al dominio straniero. Il Senato o Banca, geloso dei privilegi della città, spesso era venuto in discordia coi Vicerè, ed ultimamente col duca di Sermoneta, che il popolo chiamò duca di Farmoneta; e ancora di più con gli Stratigò, coi quali aveva più strette relazioni. Nel 1672 era Stratigò don Luigi dell’Hojo, spagnolo, ipocrita, seminatore di discordie, che forse ubbidiva a segreti incarichi di Corte.
La carestia travagliava da un pezzo la città, il popolo sussurrava contro ipotetici accaparratori di granaglie ed era avvenuto qualche tumulto; lo stratigò, fingendo pietà pel popolo minuto, lo aizzava accortamente contro il senato, che era in mano dei grandi. Si formò un gran partito tra la plebe, i malcontenti e gli avversari del Senato, e dallo stemma dello Stratigò, portante un merlo, si disse dei Merli. I nobili, la borghesia grassa, per contrapposto, si chiamarono i Malvizzi, cioè i tordi. La città si divise. Un frivolo pretesto provocò un tumulto: la plebe minacciò di andare alla Banca, e uccidere i Senatori. Non potè, perché affrontata e dispersa dai nobili, ma due giorni dopo, protetta dallo Stratigò corse ad appiccare il fuoco alle case dei Senatori. Fu ordinata l’elezione di un nuovo Senato, che statuì nuovi Capitoli di accordo coi consoli delle arti, ma non cessò la discordia.
Il Senato, insospettito dei maneggi dell’Hojo, convocò i cittadini, per farlo dichiarare nemico della patria; ma egli, sollevando il popolo, lo guidò a nuovi incendi ed eccidi, e con un bando condannò gran numero di avversari. Il Vicerè, principe de Ligny, credendo ai rapporti dello Stratigò ne approvò l’operato: poi sollecitato dai cittadini venne a Messina, e persuaso della mala condotta del dell’Hojo, gli tolse l’ufficio e gli diede a successore il marchese di Crispano, don Diego Soria.
Il marchese di Crispano seguì le orme del dell’Hojo...
 
Luigi Natoli: I Cavalieri della Stella.
Tratto da: Storia di Sicilia dalla preistoria al fascismo di Luigi Natoli e pubblicato a seguito del romanzo nel volume edito I Buoni Cugini Editori.
Pagine: 954 - Prezzo di copertina € 26,00 - Sconto 15%

 

venerdì 4 novembre 2016

Luigi Natoli: il Soldatino alla grande guerra.

In questa ultima e grande e terribile guerra, i giovani siciliani combatterono come quelli di Milazzo, come quelli del Volturno. E sul monte Grappa e dovunque fecero prodigi.
Vuoi tu sapere con che cuore essi andavano alla guerra, e i padri ve li mandavano?
Leggi questa letterina: è di un soldato, e fu scritta nel 1917; l'ho letta in un museo di ricordi patrii.
 
Caro babbo,
Nel secondo anniversario della nostra gloriosa e santa guerra, fidente nella nostra vittoria e nel trionfo del nostro Diritto, dalle trincee di... a pochi metri dal nemico, invio gli auguri più fervidi a te, che serenamente hai dato alla patria i tuoi figli.
Spero di essere fortunato ancora; ma se dovessi cadere, niente lagrime, niente pianti! Sii fiero di noi, che da te abbiamo imparato ad amare la patria e, se necessario, a sacrificarci per essa: e grida con me: Viva la più grande Italia!
 
tuo C.
 
Il soldatino che scrisse questa lettera morì pochi giorni dopo. Era giovane, bello e gentile, e tutto diede per la patria.
Medita: e fa di esser degno di coloro che morirono per darti una patria grande e gloriosa.
 
Luigi Natoli, 1925 

Luigi Natoli: il bollettino della Vittoria

Rileggi, ogni anno, il 4 novembre, il bollettino col quale il generale Diaz dava l'annunzio della Vittoria. Ogni italiano deve tenerlo a mente: non per vanagloriarsi, ma per trarne ammaestramento, e adoperarsi ad accrescere grandezza alla patria con una vita virtuosa, degna di coloro che soffersero e morirono per farci liberi e grandi. Rileggi dunque:
"La guerra contro l'Austria-Ungheria, che sotto l'alta guida di S.M. il Re, Duce supremo, l'esercito italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 maggio 1915, e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima, per quarantun mese, è vinta.
"La gigantesca battaglia ingaggiata il 24 dello scorso ottobre, ed alla quale prendevan parte cinquantun divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una czeco-slovacca, un reggimento americano, contro 73 divisioni austro-ungariche, è vinta.
"La fulminea, arditissima avanzata del 29° Corpo d'Armata su Trento, sbarrando la via della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della 7^ Armata e ad oriente da quelle della 1^, 6^ e 4^ ha determinato ieri lo sfacelo totale del fronte avversario.
"Dal Brenta al Torre, l'irresistibile slancio della 12^, dell'8^ e della 10^ Armata e delle Divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più indietro il nemico fuggente.
"Nella pianura S.A.R. il Duca d'Aosta avanza rapidamente alla testa della sua invitta 3^ Armata, anelando di ritornare sulle posizioni che dessa aveva già vittoriosamente conquistato.
"L'esercito Austro-Ungarico è annientato. Esso ha subìto perdite gravissime nell'accanita resistenza dei primi giorni di lotta, e nell'inseguimento ha perduto quantità ingentissime di materiali di ogni sorta e pressocchè per intero i suoi magazzini e i depositi.
"Ha lasciato finora nelle nostre mani circa trecentomila prigionieri, con interi Stati Maggiori, e non meno di cinquemila cannoni (*)
"I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano discese con orgogliosa sicurezza.
 
Diaz"
 
(*) I prigionieri raggiunsero poi il numero di oltre mezzo milione, e i cannoni quello di settemila.
 
 
Luigi Natoli - 1925
Nella foto: il generale Diaz.