mercoledì 29 giugno 2016

Luigi Natoli e il Carnevale del 1563 - Il capitan Terrore


Quel giorno era l’ultimo giovedì di carnevale, e la città era in festa più degli altri anni, perché Sua Eccellenza il Vicerè, che era il duca di Medinaceli, maritava le due figlie, e già si erano avuti cinque giorni di festeggiamenti; quel pomeriggio doveva aver luogo in Piazza Marina il grandioso spettacolo della caccia intrecciata con una rappresentazione e con una giostra.
Allora la fantasia e il tripudio si sbizzarrivano oltre che con maschere isolate, con vere mascherate complesse, raffiguranti avvenimenti storici. Una si componeva di quattro o cinque personaggi forniti di una scala e un tamburo. Dove pareva loro che fosse il caso, si fermavano e al rullo del tamburo, appoggiavano la scala a una finestra a cui si affacciassero donne ridenti e un uomo si arrampicava. Che dico un uomo? una specie d’uomo coperto da una finta faccia rossa come un gambero cotto, con certe labbra da asino, grossi zigomi anch’essi animaleschi, coperto il capo da un elmo o da qualcosa che arieggiava l’elmo impennacchiato di fiori di canna, armato di una spada di legno, il quale braveggiava strepitando buffonescamente e facendo sbellicar dalle risa la folla che lo seguiva e le persone affacciate. A un tratto precipitava senza però farsi nulla di male, perché gli altri compari gli tenevano una coperta sotto. E qui nuove risa, nuovi schiamazzi e gettito di pezzetti di carta tagliata minutamente, che dicevano “pittiddi”, forse dal francese “petit”, e chiamati ora coriandoli.
Quella maschera aveva un’origine storica, della quale si era perduto il significato: doveva rappresentare il vecchio Bernardo Cabrera che dava l’assalto allo Steri per impadronirsi della giovane e bella vedova regina Bianca, della quale si era innamorato. Ora si chiamava la mascherata del “Maestro di campo”, come dire del Generale. Si sa che la regina Bianca, sorpresa nella notte dagli armati di Bernardo, fuggì seminuda, e che Bernardo trovando vuoto il letto, si arrabbiò ma poi involtandosi nelle coperte ancora tiepide, esclamò: – “Non importa che la pernice sia fuggita, il nido è ancora caldo”.
Il popolo s’era vendicato, mettendolo in burletta, ma nel corso di un secolo e mezzo la memoria del fatto si era contaminata.
In altro punto, dove era una piazza levavano da terra un castello di legno dipinto a conci, con merli, tra i quali apparivano schierati Mori o Turchi, armati di spade e lance, che, gridando, le agitavano al sole. Contro di loro erano Cristiani. La folla degli spettatori, enorme e fluttuante, aspettava schiamazzando. Era il “gioco del Castello”, che forse rievocava i fasti della conquista normanna, forse la presa di Palermo o d’altra città, verità storica alteratasi romanticamente, o intrecciatasi con altre imprese. Cominciava col mandare gli ambasciatori, seguiva con le varie fasi del combattimento; e finiva con la presa e col trionfo dei Cristiani e con un balletto generale.
Una carrozza saliva pel Cassaro. Chi immagina le carrozze d’allora simili a quelle che si vedevano un trent’anni fa, o come quelle che fanno pompa di sé nel Museo nostro, s’inganna. Erano grandi come queste, a forma di casse aperte ai lati, con sedili. Non avevano molti ornamenti, solo una frangia di seta in cima allo sportello; non vetri, non fanali, non molle; il cocchiere sedeva su una gualdrappa ornata dello stemma della padrona. Dico padrona perché in quel tempo le carrozze, erano adoperate soltanto dalle signore....
Luigi Natoli - Il capitan Terrore
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