martedì 24 maggio 2016

Luigi Natoli e una festa a Palazzo Belmonte (oggi palazzo Riso) ne I mille e un duelli del bel Torralba


 
Il 4 novembre, ricorrendo l’onomastico della principessa, v’era festa nel palazzo Belmonte: la gente che passava, faceva una piccola sosta nella piazza Bologni, per guardare il continuo sopraggiungere di carrozze e di portantine che si fermavano dinanzi al portone, deponevano dame e cavalieri e giravano poi sulla piazza, schierandosi dietro la statua di Carlo V. Era uno spettacolo che trovava sempre curiosi, ai quali appariva ogni volta come nuovo, sebbene le carrozze fossero le stesse, le livree conosciute, i signori, le signore, i medesimi veduti in altre occasioni e ogni pomeriggio alla passeggiata. Ma tutto quel luccichio metallico dei finimenti e delle dorature, tutto quello splendore di sete e di velluti; tutto lo sfolgorio delle gemme erano una allettativa per gli sguardi. Su, nel pianerottolo, i balconi mandavano torrenti di luce, pareva che dentro i saloni ardessero di un vasto incendio: nell’oscurità della notte, la piazza, dove non c’era allora che un fanale a olio sul portone del palazzo Villafranca, si illuminava: Carlo V si staccava nettamente nell’ombra, con le sue carni e le sue vesti verdognole. Anche l’atrio e la bella corte col doppio portico erano sfarzosamente illuminati; come se si fosse voluto gareggiare col sole.
Su, lo spettacolo era cento volte più magnifico: nessun caleidoscopio dà l’immagine di quel continuo rimescolarsi di colori e di luccicori: predominavano il bianco e le tinte pallide degli abiti delle dame che si fondevano col bianco, col rosso, con l’avorio dei colli, dei seni, delle braccia nude; ma su questo chiaro, sul quale la luce uguale delle lampade stendeva una rosea velatura, si staccavano le tinte più calde delle marsine degli uomini e quelle più accese o più cupe delle uniformi. Ma al rimescolio dei colori, che variava col muoversi della folla elegante, si mescolava il luccichio dei galloni e dei ricami d’oro, il balenio di migliaia di iridi, che si moltiplicavano, si scomponevano, tornavano a ricomporsi.
Luigi Natoli - I mille e un duelli del bel Torralba
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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Foto in alto: www.palermoweb.com
 
 

Luigi Natoli e il baciamano della regina Maria Carolina (31/12/1799) ne I mille e un duelli del bel Torralba


C’era una folla straordinaria nel grande salone dei ritratti; dame riccamente vestite, coi capelli incipriati, alti sulla testa in ingegnose e complicate pettinature, luccicanti di gioielli che scintillavano fra le trine, come stelle tra nubi vaporose, cavalieri in gran sussiego con uniformi ricamate in modo inverosimile, o con vestiti civili, non meno ricchi; i ministri del Sacro Consiglio, quelli del Patrimonio, i magistrati della Gran Corte, il Senato: toghe rosse, cappe lunghe e corte, grandi collari alla Spagnuola, parrucche a boccoli, o lisce, col codino legato da un nastro; qualche volto aveva la barbetta corta a mezza guancia, come la portava il re: i più erano interamente rasi. Si distinguevano le uniformi rosse degli ufficiali inglesi, e le cappe violacee dei prelati. Il gran maestro delle cerimonie introduceva via via, secondo l’ordine gerarchico, signori e dame.
La regina stava nel gran salone, che pochi anni dopo il re fece dal pittore Velasquez decorare con le imprese di Ercole: ella sedeva sul trono, sotto un padiglione azzurro sparso di fiordalisi d’oro, circondata dalle sue dame d’onore, che portavano a la spalla il nastro cremisi, fermato da uno spillo d’oro a foggia di giglio sormontato dalla corona; e dei gentiluomini di camera in uniforme. Accanto a lei sedeva la principessa ereditaria Maria Clementina; e più indietro le principesse reali Maria Amalia e Maria Cristina. Dietro le principesse si vedeva, dominatrice, nella consapevolezza della sua perfetta beltà lady Hamilton, e vicino a lei sir John Acton, divenuto primo ministro e arbitro del regno in grazia del favore di Maria Carolina. Era un po’ pallida e grave, tra per la morte del piccolo Alberto, che le era spirato fra le braccia durante la traversata del Vanguardia, tra per le notizie giunte allora da Napoli con altri profughi, che davano il regno come perduto. Porgeva la mano con gesto regale, e trovava da dire qualche parola a ciascuno, un complimento, o un consiglio, o una esortazione, qualche volta un po’ tagliente. Al padre provinciale dei teologi, per esempio, disse:
- Meno letteratura, padre, e più religione, perché è questa quella che manca.
Luigi Natoli - I mille e un duelli del bel Torralba - www.ibuonicuginieditori.it
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giovedì 19 maggio 2016

Luigi Natoli e Gli schiavi: la copertina della pubblicazione Sonzogno, anno 1935


pag. 387 – Luigi Natoli fra i suoi romanzi aveva una predilezione per Gli schiavi. Aveva ragione. E' un capolavoro.
Il romanzo fu pubblicato dalla casa editrice Sonzogno nell'anno 1935: abbiamo avuto l'onore di riportarlo alla luce per offrire ai nostri lettori e agli amanti di Luigi Natoli un'ottima lettura.
Ambientato in Sicilia durante la seconda guerra servile nel 120 a.C., narra la storia di Elio, uomo libero divenuto schiavo contro la sua volontà. Narra della sua lotta contro i romani, dei suoi amori, delle sue ricerche, del suo peregrinare all’interno di un contesto storico ricostruito alla perfezione come solo Luigi Natoli sapeva fare.
Narra di Atenione, uno schiavo, un uomo, un eroe da cui Spartaco avrebbe dovuto imparare.
Prezzo di copertina € 22,00 – sconto 15% - Spedizione gratuita. Per ulteriori informazioni: ibuonicugini@libero.it

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Nella foto in alto: la copertina della edizione Sonzogno, fornitaci gentilmente dal sig. Vito Cracchiolo, grande lettore e collezionista delle opere di Luigi Natoli.
In basso: la copertina del nostro illustratore Niccolò Pizzorno.



 

mercoledì 18 maggio 2016

Luigi Natoli e Gli ultimi saraceni: La prima puntata sul Giornale di Sicilia il 05 agosto 1911




pag. 719 – Fu pubblicato a puntate in appendice al Giornale di Sicilia nel 1911 e non ebbe mai i natali come libro; pertanto, tolti quei pochi fortunati che riuscirono a leggerlo più di cent’anni fa, nessun altro ha potuto deliziarsi della brillante inventiva di Luigi Natoli. Questa edizione è la copia fedele di quanto pubblicato sul Giornale ed è impreziosita da una ancor più rara ode a Willelmo I composta dall’autore nell’aprile del 1881. Oggi con grande orgoglio restituiamo queste due opere alla collettività con la stessa valenza che hanno gli inediti, per gli amanti del genio palermitano e per giustizia nei confronti del grande Luigi Natoli, scrittore e storiografo per anni dimenticato.
 
 
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Prezzo di copertina € 25,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
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Luigi Natoli e Alla guerra! La prima puntata sul Giornale di Sicilia il 19 ottobre 1914

 
pag. 954 – A distanza di cent’anni esatti, e in occasione del centenario della prima guerra mondiale, rivive oggi questo romanzo di Luigi Natoli. Mai pubblicato in libro, oppure a fascicoli rilegati, apparve per la prima e unica volta in appendice alle pagine del Giornale di Sicilia in 204 puntate dal 19 ottobre 1914.
Luigi Natoli scrive un romanzo dal respiro universale che inaspettatamente non narra della sua amata Sicilia (luogo di ambientazione di tutte le sue opere), ma di una Francia aggredita, mutilata e orgogliosa che respinge l’avanzata tedesca del 1914 con eroismo e spirito di sacrificio, aggrappata ai valori intramontabili della Patria, della Famiglia e dell’Amore.
 

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giovedì 12 maggio 2016

Luigi Natoli e le fazioni della città di Messina: I "merli" e i "malvizzi" nel romanzo "I cavalieri della Stella".


I merli e i malvizzi, le due fazioni della città di Messina
 
I merli, fedeli al Vicerè e alla Spagna: Il nome del nero uccello dal forte becco, parve il segno, la bandiera, il mot­to d'ordine della fazione popolare, che, per una di quelle anomalie non rare nel­la storia, era anche la fazione che mina­va le istituzioni patrie, per asservirsi al­l'assolutismo regio. Esser merlo significò essere nemico dell'oligarchia del Senato, parti­giano del governo regio; e pareva titolo d'onore.
I Malvizzi (tordi) fedeli al Senato e alla libertà di Messina: E anche questo nome diventò un sim­bolo, un segno, una bandiera; e malvizzi furono i cittadini dell'ordine senatorio, i nobili, i mercanti, il clero, i frati, parte delle maestranze.
La divisione ebbe così i suoi nomi: la città si spartì tra Merli e Malvizzi, gli uni considerando gli altri come traditori...


 
Luigi Natoli - I cavalieri della Stella
Prezzo di copertina € 26,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.

Luigi Natoli e il processo della fattucchiera Cicca Musco nel romanzo "I cavalieri della Stella"


L'istruttoria del processo contro la “Filanda” scoperse una serie di delitti veri o supposti, compiuti dalla vecchia maliarda. Donne tradite, uomini caduti in pec­cato, madri che videro i figli deformati, attribuirono le loro sventure alle arti del­la fattucchiera, e ne portarono le prove. In una casa fu trovato un uovo trafit­to da un centinaio di spilli tutti intorno; in un'altra un limone. I testimoni interrogati deposero su­gli scongiuri, sulle evocazioni diaboli­che, sui sacrilegi compiuti dalla Filanda; anche la signora Clara Stella, colta da una paura superstiziosa, tremando, con­fessò le pratiche spaventevoli a cui era stata condotta. Nessun dubbio quindi che la vec­chia era in commercio col demonio, e che con le sue arti avesse anche perduto delle anime. I giudici della corte arcive­scovile si convinsero che l'aberrazione amorosa di don Gregorio Fiordimonte per una cortigiana non fosse che il pro­dotto di una fattura diabolica.
La vecchia fu sottoposta alla tortura per rivelare come e quando aveva stretto il suo patto col diavolo: ella dapprima negò; ma i tormenti della corda, tra le strida disperate di dolore, le strapparono anche la confessione di quel segreto fan­tastico patto. Ella confessò ancora di aver commesso tutte le scelleratezze di cui la superstiziosa credulità dei giudici l'accusava: confessò ciò che volevano, battendo i denti, con gli occhi esterrefatti. pur di abbreviare quei sup­plizi.
Fu condannata a morte.
La signora Clara Stella avrebbe do­vuto esser chiusa in una cella delle carce­ri arcivescovili: ma dichiarò di essere in­cinta; un medico confermò; gli scrupoli di perdere un'anima innocente salvaro­no la cortigiana da una reclusione peg­giore della morte: essa fu mandata nel re­clusorio delle ree pentite a S. Maria Mad­dalena, ad  aspettarvi il parto.
La vecchia fattucchiera fu impiccata il 17 di agosto, tra una folla di curiosi che coprì d'urli feroci e di invettive oscene le convulsioni dell'agonia.
 
 
 
Luigi Natoli - I cavalieri della Stella
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Luigi Natoli in "Chi l'uccise?": un giallo ambientato a Palermo nel 1848 - Le torture ai detenuti.



(Fa parte del volume: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? - Tre romanzi del Risorgimento italiano di Luigi Natoli)


I due manigoldi lo afferrarono pei polsi, lo buttarono sopra un cavalletto, lo legarono solidamente con corde, che attaccarono una di qua, una di là a due anelli infissi alle pareti, in modo che egli stava con le braccia aperte, come se fosse in croce. Gli imprigionarono le gambe con altre corde a un terzo anello.
Corrado guardava con un oscuro sgomento in cuore, non sapendo a che fine approdassero. Era certo che non lo bastonavano, perché nella sua situazione non si aspettava questa specie di tortura. S’aspettava un supplizio diverso, ma ignorava quale, non vedendo alcuna sorta di strumenti. Guardava, aspettava e tremava. Uno dei manigoldi prese un bicchiere, lo capovolse sull’ombelico nudo di Corrado, e tolto da un piccolo cartoccio uno scarafaggio, lo cacciò sotto il bicchiere. L’insetto cercò di fuggire, ma incontrò l’ostacolo del vetro; si aggirò, e sempre toccò il bicchiere che la guardia teneva fermo. Cominciò una corsa su se stesso dentro il breve spazio che lo conteneva.
Corrado da prima aveva sorriso di quella strana tortura, e al sentire solleticarsi l’ombelico, cominciò a ridere, a scotersi, a dimenarsi. A mano a mano però che l’insetto più annaspava con le zampe, il suo riso diventava amaro, e convulso. Il Commissario lo interrogò:
- Perché avete ucciso il Lo Giglio?
- Non sono stato io – disse Corrado tra le convulsioni che lo sconvolgevano.
Lo scarafaggio era invaso dalla follia; girava e girava sulla nuda carne, tormentato e tormentante. Corrado aveva il volto infiammato, i suoi muscoli balzavano, si ritraevano, si gonfiavano per lo spasimo; il suo riso si era mutato in una smorfia angosciosa, i suoi occhi rossi, infocati, lagrimanti, parevano che schizzassero fuori dall’orbita. Egli non aveva più senso di vivere. Urlava.
Il Commissario diceva con crescente rabbia:
- Figlio di cane, perché hai ucciso il Lo Giglio?
Ma Corrado non poteva dire nulla; faceva con la testa dei segni spasmodici, che il Commissario traduceva a suo modo. Sospese la seduta.
- Domani parlerà; la lezione gli ha giovato. Conducetelo in cella e che non parli con nessuno.
Corrado fu accompagnato per le ascelle.
Egli non poteva camminare; sentiva ancora le zampette dello scarafaggio nelle carni nude, si contorceva, e si voleva buttare per terra. Lo abbandonarono lì, nella celletta, come un fagotto.
Luigi Natoli - Chi l'uccise?
Prezzo di copertina del volume € 24,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita
Volume con illustrazioni interne di Niccolò Pizzorno.

lunedì 9 maggio 2016

Luigi Natoli in un giallo ambientato nel 1848: Chi l'uccise? Fa parte del volume: Braccio di Ferro avventure di un carbonaro, I morti tornano..., Chi l'uccise? Tre romanzi del Risorgimento italiano

Erano sonate allora allora due ore e mezza alla torre di San Nicolò e non c’era un’anima per la via, né un uscio aperto: solitudine e, squallore dappertutto, e nella spazzatura il rufolare e il ringhiare dei cani randagi. La piazza del Carmine, quella di Ballarò, la via dell’Albergheria e quella del Bosco, nel punto dove s’incontrano, prendevano luce da un solo fanale a olio di dubbio rossore, non offrendo la lampadina sospesa in alto sulla porta della Chiesa del Carmine innanzi alla Madonna, che un piccolo occhio rossiccio perduto nell’ombra.
In tanta solitudine s’udì a un tratto risonare il passo d’un uomo e il battere regolare di un bastone, che venivano dalla via Bosco. Quando fu giunto sotto il fanale, si vide colui che camminava. Era un uomo intabarrato e col collo sepolto in una sciarpa. Si fermò un istante, guardò una casa nella via del Bosco, crollò il capo, e borbottò qualche cosa fra sé, e proseguì verso l’Albergheria, ma non aveva percorso pochi passi, che si udì richiamare con voce rapida e concitata:
- Girolamo!
Egli si voltò, ma repentinamente un colpo di pistola tirato quasi a bruciapelo lo mandò per terra senza poter dire Gesù. Il colpo risonò nel silenzio notturno come una cannonata, e si propagò per tutta la contrada; ma nessuno uscì, non si socchiuse nessun balcone; pareva una città abbandonata, deserta. Il cadavere giaceva supino con le braccia spalancate, e un filo di sangue che s’andava allargando gli colava dal petto. Passò qualche minuto; un altro uomo, anche lui intabarrato, si avvicinò al caduto, e, chinatosi, lo spiò in viso e scoperse la ferita...
Luigi Natoli - Chi l'uccise?
Prezzo di copertina del volume comprensivo dei tre romanzi € 24,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.

giovedì 5 maggio 2016

Luigi Natoli e la fattucchiera Cicca Musco di Messina nel romanzo I cavalieri della Stella.

Note dell’autore sul personaggio storico:
Cicca Musco, celebre fattucchiera di Messina, ivi impiccata il 17 agosto 1671. Questi particolari son tratti da un processo di stregoneria svoltosi  in Sicilia nel secolo XVII. 
 
La Filanda era conosciuta per tutta Messina: nobili e plebei, ricchi e poveri, fanciulle innamorate e mogli tradite; mariti gelosi chiunque si sentiva agitato, tormentato da un dubbio, o desideroso di scoprire un vero, o di “fare una fattura”. Essa leggeva nell'avvenire, come in un libro; forse e senza forse l'occulto potere le derivava da qualche tremendo patto col diavolo. Ciò si sussurrava con qualche riser­va dagli spiriti più spregiudicati; ma con un profondo convincimento dalla mag­gior parte delle persone, che avevan sem­pre dei fatti da citare.
Cicca Musco era una donna tra i ses­santa e i settant'anni, piccola, magra, rugosa, con le guance spolpate, gli occhi ca­vernosi, i capelli canuti, radi e ispidi. Un aspetto che destava un senso di ribrezzo e di paura.
 
****
 
La maliarda allora trasse da un sacchetto che portava al collo un foglietto di carta logora e bisunta, lo spiegò sulla tavola, e spense due becchi della lucerna. La stanza si ottenebrò; una luce rossiccia e tenue faceva appena scorgere le tre figure di quella scena fantastica; la vecchia appariva più spaventevole, e le poche ciocche illuminate sembravan più irte, e come agitate da un fremito. Ella pronunciava delle parole inintelligibili, fermando gli indici distesi su la carta; su la quale apparivano segni incomprensibili e parole strane. Vi era in alto una croce, cinta d’aureola, e di qua e di là parole Agios, Atanatos, sotto alle quali due circoli, due esagoni e due altri circoli, disposti pel lungo della croce; agli angoli superiori del foglio due triangoli pieni di parole minutissime e incomprensibili; giù sette circoli su due file, una stella esagonale formata di due triangoli equilateri, e un triangolo con gli angoli segati da archi; e dei quadrati suddivisi, pieni di lettere, di numeri, di segni misteriosi.
Con aria ispirata, percorrendo con gli indici i segni e le scritture la vecchia mormorava:
- Iot. Sep. Orat. Nain. He.
Spirito dei tre venti
Quattro elementi
Tutti con me...
 La vecchia si agitava; il suo volto rugoso si allungava e si accorciava mostruosamente; le sue narici si dilatavano, gli occhi scintillavano, e i capelli si attorcevano. Don Gregorio e Clara Stella la guardavano con un terrore superstizioso, seguendone i movimenti, sforzandosi di penetrare nel significato di quei segni, di quelle parole; aspettando quasi, a ogni istante di vedere qualche cosa maravigliosa e terribile.
La maliarda alzò le mani, puntandole verso Clara Stella, che rabbrividì e si sentì bagnar la fronte di un sudore diaccio: con voce imperiosa e solenne esclamò:
- Io ti comando
per la mia potenza
spirito del mondo
dal profondo,
vieni in presenza
dimmi la verità
in nome dell’eterna Trinità.
I cavalieri della Stella di Luigi Natoli - Prezzo di copertina € 26,00 - Sconto € 15% - Spedizione gratuita.
 
 

mercoledì 4 maggio 2016

Luigi Natoli e le idee di Repubblica di Giovanni Luca Squarcialupo

Giovan Luca attendeva a preparare i modi e i mezzi per attuare quel suo vecchio disegno di riscossa per cacciare lo straniero, e istituire un governo democratico, come quello che fece la gloria di Pisa. Era l’idea accarezzata fin da quando cominciò a leggere le pagine di Livio, maturatasi col progredire negli studi umanistici, fattasi assillante in quei rivolgimenti, e allo spettacolo delle violenze e delle ladronerie del vicerè don Ugo. Che quelli non fossero tempi di repubblica, che questa repubblica vagheggiata da lui era un anacronismo, sfuggiva alla esaltazione del suo spirito, che lo illudeva di speranze e di sogni eroici.
- Ebbene, non si può estendere a tutta la Sicilia, e fare del regno una grande Repubblica? Questo è il mio sogno; ma forse voi non ne vedete tutta la bellezza, perchè le vostre idee sono diverse dalle mie, quanto alla forma del governo.
Parlava col volto acceso da una fiamma interna, che rendeva calda e appassionata la parola. Tristano, sebbene avesse gran premura di andarsene, ne rimaneva talvolta preso, e lo ammirava: e gli pareva che Giovan Luca si ingrandisse, e si illuminasse di una luce nuova. Non era più quel pensoso, che pareva sdegnoso di parlare, o parlava breve e a sentenze: pareva qualcosa fra l’oratore e il condottiero; un sovvertitore di popolo e un dominatore. Certamente aveva un’idea, che non rivelava ancora, forse era l’idea madre, dalla quale si generavano tutte le sue azioni, anche caute, quasi saggiature; ma che al momento opportuno, si sarebbero svolte in tutta la loro pienezza. Con tutto ciò appariva agli occhi di Tristano come un uomo nuovo.
Luigi Natoli - Squarcialupo
Prezzo di copertina € 24,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita 

Luigi Natoli narra un eroe di Messina dimenticato: Antonio Duro - Tratto da "La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue".

(1473) Hassan bey, un rinnegato, pascià della Bosnia, con ventimila cavalli, attraversando fra le rapine e gli incendii con la Croazia e la Carniola, era piombato in Italia, seminando da per tutto, fino a Udine, gli orrori delle carneficine. Diciottomila cristiani giacevano insepolti per le campagne, quindicimila trascinavano fra’ superbi vincitori le dure catene della schiavitù.
E in quel torno quattrocento galee vomitavano su Negroponte trecentomila fanatici, guidati dal Gran Signore Maometto II; e dopo l’eroica e disperata resistenza cadeva la città, e Paolo Erizzo espiava la virtù sua morendo fra inaudite torture. Poco dopo Scutari cadeva anch’essa, e il Loredano, come l’Erizzo, acquistava la gloria del martirio.
A che valevano adunque le ingloriose rappresaglie del magnifico Pietro Mocenigo capitano generale della Serenissima, poiché il Vessillo del Profeta trionfava superbamente anche sui mari? A che il grido doloroso di Sisto IV, che bandiva la crociata? E il lamento disperato dell’Ungheria, ultimo baluardo contro l’invasione musulmana? Maometto II aveva innalzato lo stendardo della guerra santa; e i figli del profeta accorrevano da ogni parte per vincere e diffondere l’Islam, come aveva promesso Allah.
Una sera Pietro Mocenigo stava sulla capitana col sopracomito Coriolano Cippino, col provveditore e alcuni ufficiali: divisavano un ardito colpo di mano per la vegnente notte; quando la sentinella di prua si accorse di un piccolo battello, che sciava silenziosamente tra i fianchi della Capitana e della Padrona. Diede l’allarme e puntò l’arco verso il rematore; questi con un vigoroso colpo di remo si tolse al bersaglio, e sostando, levato il alto il berretto, gridò:
- Viva San Marco!
Tosto si affacciarono al parapetto della Capitana marinari e soldati; il capitan generale con la spada in mano, si fece innanzi:
- Chi grida: Viva San Marco?
- Per la croce di Dio, magnifico Signore, non son né cane, né rinnegato; fuggo anzi la terra degli infedeli... Comandate che levino quegli archi, che certamente nessun onore ne verrebbe ad ammazzare un cristiano; e fatemi piuttosto calare una corda che ho gran voglia di parlarvi...
- Come ti chiami?
- Antonio Duro.
- Di che nazione sei?
- Di Sicilia, della nobilissima città di Messina...
 
 
Maometto II torreggiava tra i cuscini del suo trono; intorno a lui si accalcavano eunuchi e ufficiali, fieri, sitibondi di vendetta, ma pur curiosi e sorpresi. Innanzi al tremendo imperatore, dritto, con le mani legate al dorso, stava il fruttaiolo incendiario.
- Franco – disse Maometto II – chi sei tu?
- Io sono Antonio Duro di Messina...
- Hai tu ricevuto ingiuria dai miei sudditi? Frodarono essi le tue frutta, perché tu abbi posto l’incendio alle navi?
- No!...
- Qual ardire insano ti ha spinto dunque a una sicura morte?
- Io son cristiano e Siciliano, tu infedele e saracino; fra noi non può essere amicizia. Avevo deciso di rovesciar la tua potenza, e liberare la cristianità dalle tue ruberie, a mandarti all’inferno te e i tuoi! Pazienza! L’impresa è andata a vuoto... Sei galere son poca cosa...
Il Gran Signore guardò sbalordito l’audace siciliano; tacevano intorno i valorosi, che si sentivano piccini innanzi a quella grandezza d’animo straordinaria.
- Ma tu andavi contro alla morte!
- Che m’importa? Ma se fossi interamente riuscito, tu non avresti più armata!...
Maometto trasalì; con uno sguardo misurò le fiere conseguenze che la temeraria impresa del Siciliano avrebbe recato. Guardò il giovane, bello, gagliardo, sereno...
 
Il Senato di Venezia onorò la morte del prode, e tenne le promesse fatte al Mocenigo. Il fratello ebbe un assegno, la sorella una dote. Gli storici del tempo consegnarono alla gloria il nome del valoroso.
E lei, signora lettrice, quando alla Villa Giulia si fermerà ad ammirare il marmo che raffigura l’eroico Canaris, pensi che anche la Sicilia, tre secoli e mezzo innanzi, nel 1473, ebbe il suo Canaris; e pensi ancora alle ingiustizie di quella storia che, caduta fra le mani dei rigattieri, facilmente dimentica le glorie paesane.
Luigi Natoli
Nelle foto: il doge di Venezia Pietro Mocenigo e Maometto II
Prezzo di copertina € 21,00 - Sconto 15% - Spedizione gratuita.
 
 
 

martedì 3 maggio 2016

Luigi Natoli e "Il caso di Sciacca": tratto dalla raccolta di storie e leggende "La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue"

Caso orrendo che lasciò, come il Vespro, memoria durevole nella tradizione popolare, avvenne per la inimicizia di due famiglie potenti, i Luna e i Perollo, del quale fu teatro Sciacca. Nata nei primi del XV secolo per rivalità di ambite nozze, un primo urto avvenne in Sciacca durante i funerali di Martino e l’odio dei padri si trasmise nei figli, Pietro Perollo e Antonio de Luna, e vi diede nuova fiamma una lite pel possesso di una baronia di S. Bartolomeo vinta dal Luna. Per evitar spargimento di sangue si tentò una pace: ma correndo la Settimana Santa del 1459, durante la processione, il Luna fu assalito e percorso da gente armata; ne nacque una zuffa, e si dice che il Perollo, abbattuto il nemico, andasse a devastarne le case e a saccheggiarle. Il Luna si ritirò a Caltabellotta preparando la vendetta, ma il governo intervenne con minacce ed esilio.
Nel secolo XVI erano a capo delle due famiglie Sigismondo de Luna, conte di Caltabellotta, imparentato coi Salviati e coi Medici, e Giacomo Perollo barone di Pandolfina e portulano di Sciacca, il quale abitava nel castello normanno, ed era in buoni rapporti col vicerè Pignatelli.
Or avvenne che a proposito della liberazione dalla schiavitù del barone di Solanto, tenendosi Sigismondo beffato, l’inimicizia fra i due scoppiò.
Avvenne qualche scontro fra i partigiani dell’uno e dell’altro; e spingendo Sigismondo armamenti, ne fu avvertito il Vicerè, che mandò a Sciacca Girolamo Statella qual capitano d’arme, per fare un’inchiesta e provvedere. Ma Sigismondo racconto gran numero di cavalieri e di armati, assoldata una banda di Albanesi, mosse sopra Sciacca la notte del 18 luglio 1519. Aggredita la casa dello Statella, lo uccisero, e uccisero la moglie; corsero poi ad assalire il castello che cadde il 22 dopo tre giorni di assalti, con grande spargimento di sangue. Giacomo Perollo riparatosi in un granaio, scoperto fu ucciso; il cadavere legato alla coda di un cavallo, trascinato per le vie, tra gli schiamazzi osceni dei vincitori e il pianto delle povere donne di Sciacca. Il castello e le case dei partigiani del Perollo vennero saccheggiate; la città parve un deserto...
Sigismondo cavalcava.
Era la notte del 18 luglio, calda e pensante. La luna splendeva purissima su tutta la campagna di Sciacca; i colli, i boschi, le pianure si distinguevano nettamente nella tenue luce azzurrognola; e giù, il mare aveva un color di acciaio brunito, orlato al lido di un sottile filo d’argento. I cavalli sollevavano nuvole di polvere; pure, nel fosco, tralucevano gli elmi e le corazze.
Sigismondo cavalcava innanzi a tutti; percorrendo le vie stesse dove avea ricevuto oltraggi, gli pareva che i sassi e i rovi ripetessero voci di scherno, onde cupo e silenzioso, stringeva le redini e pungeva i fianchi del cavallo. E il cavallo scoteva la nobile testa, drizzando gli orecchi e sbuffando. Così giunse a un trar d’archibuso delle mura di Sciacca; e si fermò.
La città era immersa nel sonno; su le torri le scolte sonnecchiavano, di là dalle mura si scorgeva il castello normanno, dritto e nero nella notte luminosa; più in là, fuori delle mura, il monastero delle Giummare.
La truppa si era fermata dietro il signor Sigismondo, e guardava anch’essa. Accursio Amato, Ferrante Lucchesi, Erasmo Loria, Calogero Calandrini, Cola Vasco, Gian Pietro Infontanetta, Pietro Giliberto e Cesare Imbrogna gli stavano intorno; in disparte Giorgio Comito, avventuriere albanese, con una banda selvaggia di greci-albanesi raccolti a Mezzoiuso, a Palazzo Adriano, a Contessa: dall’altro lato il signor Muchele Impugiades con una schiera di cavalli, assoldati dal vecchio don Giovanni.
Guardavano tutti la città, e ognuno sentiva nel petto una emozione indefinita e vaga; quel tale turbamento che precede l’accingersi a una impresa. Giorgio Comito però aspirava l’odore delle stragi e delle rapine; e il signor Sigismondo e i suoi compagni sentivano risonare nell’animo l’ora della vendetta.
Allora il conte Sigismondo divise le sue schiere in due: una comandata dal capitano Impugiades andò ad appostarsi al monastero delle Giummare, l’altra con lui scese dai colli fin presso alle mura di Sciacca e attese il giorno....
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