venerdì 30 ottobre 2015

Luigi Natoli: Gli Schiavi.


Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: la festa della "catagogia" della dea Venere.




Il culto di Afrodite Ericina, o Venere, crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato. Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento soldati vigilavano alla sua sicurezza.
S’aspettava il ritorno delle colombe sacre ad Afrodite. Ogni anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule prendevano il volo per la Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da una colomba rossa, nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era salutato da canti gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e ciarlavano.
La città era rumoreggiante per la prossima festa. Era detta “catagogia”, come “anagogia” era chiamata la partenza della Dea. Nella “catagogia” si celebrava il ritorno alla sua sede, lasciata per breve tempo, ma che pareva lungo, quasi la Dea volesse abbandonare Erice. In ogni casa erano festoni di mirto e di rose, e ardeva dinanzi ad una piccola immagine di Afrodite il fuoco, dentro un’ara portatile o un tripode. Chi poteva, spingeva al tempio capre o pecore per il sacrificio; portava in canestri le colombe o i frutti che la stagione dava; e per tutto era un affrettarsi di cittadini e di schiavi, un andare e venire, un tramestìo, un cicaleccio da non si dire. E attorno soldati, che raccomandavano l’ordine, senza poterlo ottenere.
Cleone aveva condotto con sé dieci schiavi e cinque ancelle, e aveva ordinato al suo navarca che con un numero di marinai libici si unisse con lui nel pellegrinaggio. I soldati, schierati lungo la via del Tempio, mormoravano parole piccanti alle donne; e alle belle raccomandavano ridendo di rinchiudersi tra le jerodule. E il cammino procedeva tra una fioritura di motti grassi e scurrili e di risate.
Il tempio sorgeva su una sommità isolata, e vi si giungeva mediante un ponte steso fra le due cime, che pareva si contendessero il primato. Era in un recinto di mura, e la porta ne era guardata da parecchi soldati. Dietro di questa si allargava una vasta spianata, ad una estremità della quale sorgeva il tempio. Non era magnifico, e nella costruzione dimostrava il carattere arcaico; scoperto, ma tutto di marmi preziosi e bronzi dorati, oro ed argento a profusione. V’erano candelabri ricchissimi, doni offerti, “ex voto”, stoffe rare, statue e oltre l’ara, sopra un altare, l’immagine della Dea, non quale si vede effigiata dallo scalpello greco, ma di forme arcaiche, rigide, con un volto che incuteva spavento per la sua immobilità ieratica, coperta di vesti e di monili preziosi.
Le jerodule cantavano un inno, e i sacerdoti sacrificavano. Non vittime umane, come quando Erice cadde sotto i Cartaginesi, ma pecore, capre ed altri animali, coronati di rose.
Cleone ed Egle erano da poco arrivati innanzi al tempio, quando s’intese un grido:
- Vengono! Vengono!
Un movimento febbrile commosse la folla: tutti gli occhi mirarono con ansia un gruppo che apparve volando nell’estremo orizzonte, e che s’ingrandiva via via che s’avvicinava. Erano le colombe. Allora da mille e mille bocche si levò un canto di ringraziamento: le jerodule, i sacerdoti, unirono il loro inno; tutto il monte parve animarsi, fumare e cantare; e su quel canto svolazzarono le colombe, si posavano sulle cornici, sulle scannellature, sul frontone del tempio; alcune seguendo la colomba rossa, immagine della Dea, penetrarono nel sacrario spaventate dall’immenso clamore.
Nella foto: lapide a Venere Ericina.

Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: il tempio di Venere Ericina.

Erice sorgeva in cima ad un monte isolato sopra Drepano, e il tempio famoso era visibile da ogni parte, poiché spuntava oltre la muraglia che lo circondava, eretta o rafforzata dai Romani dopo la conquista della città. Già Afrodite aveva mutato il nome greco in quello latino di Venere; ma i Sicilioti e i Siculi ellenizzati continuavano a chiamarla Afrodite.
Il nome primitivo datole dai naturali dell’isola (giacchè si tratta di una divinità sicana) è ignoto. Narra Virgilio, nel V libro del poema, che Enea, istituendo le feste pel compleanno della morte di Anchise, suo padre, avesse eretto sul monte un tempio alla dea Venere.
Essa fu madre di Erice, figlio di Bute; il quale Erice fu ucciso da Ercole, e sepolto nel monte, che da lui prese il nome. Invenzione più poetica che altro.
Il culto di Afrodite Ericina, o Venere, crebbe con gli anni, e il suo tempio, mèta di pellegrinaggi, era il più ricco del mondo e rivaleggiava con quello di Pafo. Forse a questo valeva molto la presenza delle jerodule, che avevano in custodia il tempio. Le jerodule, tutte giovani e belle, erano ad un tempo sacerdotesse ed esercitavano la sacra prostituzione; il rito era antico, e nessuno sapeva quando fosse cominciato. Non uscivano mai fuor dalle mura che circondavano il tempio, se non quando erano vecchie; avevano case, e vivevano di comune accordo. Diciassette città per ordine dei Romani provvedevano il tempio di quanto occorreva, e duecento soldati vigilavano alla sua sicurezza.
Quando la bireme di Cleone ancorò nel porto di Drepano, s’aspettava il ritorno delle colombe sacre ad Afrodite. Ogni anno miriadi di colombe fra i canti delle jerodule prendevano il volo per la Libia, e dopo nove giorni tornavano. Erano precedute da una colomba rossa, nella quale si intendeva impersonata la Dea. Il ritorno era salutato da canti gioiosi e da riti.
Lungo la strada che dalla pianura saliva per l’erta, una folla d’uomini, di donne, di ragazzi, si recava ad Erice, che sorgeva in disparte del tempio, e più in basso; e dalla acconciatura dei capelli, e dal colore preferito delle vesti si distinguevano fra le altre abitanti di Lilibeo, quelle di Segesta, quelle di Selinunte. Erano liete e ciarlavano.
Era l’alba: il cielo, imbiancatosi all’orizzonte, era sgombro di nuvole: solo qualche lieve sfilacciatura si andava colorando in roseo. Via via che i pellegrini ascendevano il monte, vedevano spiegarsi e allargarsi tutto intorno il bello, grandioso ed orrido paesaggio. Da una parte l’occhio correva a Drepano, simile a una falce caduta in una immensa pozza di calce, per via delle saline che brillavano di bianco; e più lontano, tra il dubbio vapore che saliva dalla terra ridestatasi, si vedeva Lilibeo e la distanza avvolgeva la pianura in una cerula e indistinta nube. Oltre Drepano, oltre Lilibeo,  il mare azzurro, senza confine; e le isole, il capo Egitallo, che già si doravano al sopravvenire dell’aurora. Ma girando il monte, mutava la scena. Altri monti e ancora monti, quali ripidi tagliati a picco sul mare, che qui prendeva una tinta di argento; quali succedentisi l’un dopo l’altro entro terra, come in uno scenario fantastico. S’aprivano seni fra le rocce; ecco le acque putizianese; ecco biancheggiare, tra il sì e il no dei capi, Cetaria ; e più lontana ancora la punta dei monti segestani. Dentro terra, boschi e monti or coperti di verde, ora brulli. E l’una e l’altra visione si alternavano sotto lo sguardo ammiratore dei pellegrini, che il sole, sorgente dalle onde, rivestiva d’oro.
Nella foto: il tempio di Venere Ericina, a Erice.
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Luigi Natoli nel romanzo Gli Schiavi: il tempio d'Iblea.

Il tempio d’Iblea, situato nel punto più alto della piccola città, aveva intorno uno spazio più che sufficiente per contenere le folle, che accorrevano anche dai paesi più lontani. Il tempio era piccolo, con un portico esastilo, senza colonne intorno: e doveva quindi la sua fama più al potere attribuito alla dea, che alla modesta bellezza dell’edificio. Era stato il più frequentato dai Siculi e ad essi il più caro; e così era passato ai Greci. Ai tempi di Cleone (verso il 620 di Roma), la sua fama era decaduta alquanto, ma gli indovini vi godevano ancora credito. Non erano più numerosi come un tempo, che si contavano a centinaia, tutti a servizio del tempio; ma dei pochi che tuttavia esercitavano il servizio religioso, alcuni erano creduti infallibili.
Naturalmente non si consultavano senza doni, più o meno pingui, che andavano ad arricchire il tempio. La immagine di Iblea, vestita alla greca, col bastone in una mano e una piccola anfora nell’altra, era sovraccarica di gioielli, che ornavano anche l’effigie del cane che le saltava addosso. Ma anche i sacerdoti indovini avevano la loro parte.
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giovedì 29 ottobre 2015

Luigi Natoli nel romanzo Ferrazzano: il giuoco della smorfia


Il giuoco! L’anno innanzi il vicerè don Marcantonio Colonna principe d’Aliano, aveva pubblicato un bando coi soliti modi, e suon di trombe e di tamburi, col quale proibiva i giuochi di “invito e parata”, fra i quali elencava quelli che erano in uso tra le classi elevate e le infime: “Bassetta, biribisso, primera di qualsivoglia sorte, goffo, stopo con invito, trenta e quaranta, cartetta, banco fallito, regia usanza, o sia truppa, faraone, paris e pinta, passa dieci, sette e otto, scassaquindici, laccio e cavigliola, cacocciolille, o siano tabacchiere, o siano scorze di noce” e altri popolari; ma era stato tempo perso. Il bando proibiva assolutamente a qualsiasi persona, senza differenza di grado, condizione, dignità, nazionalità, privilegio, di tenere “né direttamente né indirettamente, ridotti di giuochi pubblici o sia baratteria di carte, dadi, palle e biribisso”. Proibiva che nessuno doveva giocare e “intervenire anche per vedere giocare”,  fosse in luogo pubblico o privato, “palagi, case, giardini... ecc.”
Li proibiva, e minacciava gravi pene: pei nobili, se uomini cinque anni di relegazione, se donne cinque anni d’esilio; senza contare le multe in soprappiù, e le pene che colpivano i creditori di giuoco e quelli che avevano giocato in parola, e i conduttori di case da giuoco, i quali dovevano pagare al fisco mille ducati, e perdere tavolini, sedie, “e tutti gli strumenti dei giuochi proibiti”, che dovevano essere bruciati innanzi le case in cui si fosse giocato… Ma non ci fu nessun condannato, nessuna casa vide bruciata la più piccola cosa; e la prammatica del vicerè Marcantonio Colonna raggiunse tutte le altre dei suoi predecessori sul gioco nel gran mare delle parole inutili.
Perciò si giocava a primera, a trenta e quaranta e alla bassetta in barba alle disposizioni.
Dunque don Diego e il baronello Spinola, due arrabbiati giocatori, giocavano audacemente forti somme. Il baronello puntava; che questo aveva voluto, dacchè aveva la mano buona; del resto erano in vena di vincere, e dopo un’ora il mucchietto ch’era dinanzi a loro,  diventò un mucchione. Ridendo si alzarono dal giuoco, e passarono nella sala di conversazione. C’erano gli oziosi e in quel momento parlavano di un annunzio, che si leggeva nella gazzetta “Il Nuovo Postiglione”. Era questa una raccolta di notizie da Parigi, da Madrid, da Vienna, ecc.  frammischiate con avvisi di cose cittadine. Il numero, di cui si parlava, conteneva l’annunzio di un libro pubblicato in quei giorni. Non è a credere che si trattasse di una edizione di Dante o di Petrarca o d’un altro classico, ma semplicemente “la Smorfia” o sia “Il vero mezzo per vincere all’estrazione dei lotti, o sia, una nuova lista generale contenente quasi tutte le voci delle cose popolaresche e appartenenti alle Visioni e Sogni, con loro numero, esposto per ordine alfabetico. Opera di Fortunato Indovino, da esso estratta da Vecchi Libretti dell’Anonimo Cabalista, e di Albumazzar da Carpinteri. Accresciuta di 400 voci, ed ora in questa terza edizione se ne aggiunge 582 oltre delle 90 figure esprimenti le arti, il giuoco del Barone... V’è annesso il giuoco romano, e i numeri delle contrade. Tre nuove Cabale d’ignoto autore, le tavole astronumeralgebrate, quali saranno per la cabala di Rutilio Benincasa...”. E chi ne ha più ne metta.

Luigi Natoli nel romanzo Ferrazzano, dove si recita la commedia "l'Amore beffato", con Ferrazzano nella parte di Florindo e Floristella nella parte di Rosaura.


La musica terminò di sonare, lo squillo di un campanello impose il silenzio, una specie d’attore si affacciò da un lato della scena e annunziò il titolo dello spettacolo: era “L’Amore beffato”. Un mormorio ridevole si propagò per la sala, perché il pubblico capì che s’alludeva a una avventura capitata in quei tempi a un signore, e che aveva fatto le spese della città. Si tirò il velario; cominciava lo spettacolo.
La scena rappresentava una bella stanza, con la porta comune in fondo, un armadio a destra, una specie di consolle a sinistra; innanzi, presso l’armadio, un tavolino. Una giovane donna era seduta accanto il tavolino, era l’attrice Floristella che sosteneva la parte di donna Rosaura ricca vedovella. Ella in quel momento si lamentava col “destino crudele”, che la esponeva a subire le ridicole pretese di Geronte, vecchio e gottoso, che per disposizione del morto marito doveva impalmare la sua vedova, se era destinata a passare a seconde nozze. Dopo un soliloquio lacrimoso, pieno di frasi pescate nel frasario sentimentale degli arcadi, viene Florindo, che era Francesco Ferrazzano il cui apparire sulla scena fu accolto da un mormorìo piacevole. S’aspettavano fin dalle prime battute le consuete arguzie, ma stavolta Florindo era serio, il che produsse una certa delusione. Egli diceva:
- Bene mio, che avete? Vi ho forse offesa?
- Ahimè! Se fossi offesa da voi, ne ringrazierei il cielo, perché potrei dissipare appunto quello che mi ferirebbe; ma voi non c’entrate, anzi, se è vero che mi amate, ne siete voi stesso offeso; e non da me.
- Dite dunque, perché siete cotanto afflitta? e perché io ne rimango offeso?
Allora Rosaura narra del vincolo impostole dal morto, e ricordatole dal vecchio Geronte, il quale sarebbe venuto più tardi per ricevere da lei il consenso.
- Ah cuor mio, come farò?
- E per questo voi siete così prostrata? Spianate la fronte, e sollevate lo spirito; non passerà la sera che il signor Geronte ritirerà l’impegno assuntosi.
- Come? Voi mi aprire il cuore alla speranza?
- Più che la speranza, vi dò la certezza.
In questo frattempo si sente rumore; è Geronte che viene. Florindo dice in fretta:
- Su presto, una zimarra e un paio di occhiali e se l’avete, un berretto dottorale. La buon’anima di vostro marito li aveva.
- Ah! in quell’armadio!
Aprono e in un batter d’occhio Florindo si trasforma in un dottore, e dice a Rosaura:
- Sdraiatevi, e fingetevi ammalata di nervi, e secondatemi, senza però tradirvi.
Hanno appena il tempo ella di buttarsi in una seggiola a bracciuoli, egli in piedi innanzi a lei, tenendole il polso, e sussurrandole a voce bassa: – Svenite, – che entra Geronte zoppicando.
Alla vista di Rosaura svenuta grida:
- Che è successo?
Ma Florindo si pose una mano sulla bocca:
- Zitto, per amor del cielo! Non vedete che ha gli accessi furibondi?
A queste parole Rosaura mandò un grido, e si contorce tutta con grande spavento del vecchio Geronte; e Florindo mentre trattiene i polsi della finta ammalata, gli spiega la natura del male che affligge, usando parole scientifiche, che l’altro non capisce.
- La signora è afflitta da una malattia che in scienza si chiama “anafragisma”, la quale consiste nell’ingrossamento del nervo maiuscolo e minuscolo che si appella “callustron”, e serve a distinguere ciò che non c’è. Laonde avviene che le “sistole” e le “diastole” invece di andare unite, si dividono in particelle; che si collocano nel vuoto e formano quella zona che si dice la zona del “cataplus”. Onde avviene che il “difaros”, ossia il “fenuscolo” diffuso per tutto il corpo, diviene eccitabilissimo e produce le convulsioni… Ma che fate voi? trattenete questo braccio!... Dunque, produce le convulsioni e genera la pazzia.
A queste parole Geronte lascia il braccio spaventato, ma Florindo lo rimprovera:
- Ma trattenete il braccio!
- Ma se è pazza?
- Non lo è ancora. Voi siete il nonno di questa signora?
- Oh! che dite mai! nonno! sono il fidanzato…
Al sentir questo l’ammalata mandò altissime grida, e levatasi repentinamente si gitta sopra Geronte con le unghia pronte a graffiarlo.
Il pover’uomo si tirò indietro spaventato, e Florindo freddamente commenta:
- Non vi date pensiero, signor fidanzato, questi sono i primi accenni della incipiente pazzia.
- Incipiente dite?
- Che cosa è la pazzia? “Idest insania vel dementia vel amentiaetc.” È una perturbazione della mente, la quale si manifesta con atti disordinati; e di solito graffiando e mordendo chi gli sta vicino. Da dove nasce ciò? dal Versiero “quod absit et quoqunque californius exspettoratus” come dice il dotto Almagesto; e in certi casi è necessario raccomandarsi ad un padre di san Basilio o ad un mago o stregone che cacci il Versiero.
Rosaura intanto si dibatte, e minaccia di mordere Geronte, che va indietreggiando, e quistiona Florindo; il quale dopo esserne pregato gli promette di spedirgli uno stregone. E poiché Rosaura accenna a calmarsi, fa per andarsene; ma Geronte salta su e grida che non vuol rimanere solo con Rosaura, e fugge di qua e di là. Florindo ne approfitta e si nasconde rapidamente nell’armadio. Il povero Geronte spaventato della sparizione di Florindo e di trovarsi solo con Rosaura grida; ma in questa l’ammalata cade priva di sensi. Dall’armadio Florindo con voce sepolcrale grida:
- Lascia in pace cotesta donna che mi appartiene!
A queste parole lo spavento di Geronte diventa terrore, la voce continua che non gli dà tregua, se non quando Geronte avrà scritto che rinuncia alle nozze; la qual cosa egli fa, contento di scapparsene. Allora Florindo esce dall’armadio; Rosaura rinviene subito, e tutti e due ridono a crepapelle
Gli applausi fioccarono, e Ferrazzano annunziò che non ai comici dovevano essere rivolti, ma all’autrice della farsa che era l’eccellenza della signora marchesa di Geraci. E qui nuovi e più calorosi evviva e congratulazioni alla nobile dama.
Nota: l'editore precisa che questa commedia, così come tutte le altre recitate nel libro da Ferrazzano, nascono dalla penna dello scrittore Luigi Natoli.
Era questo detto dei Travaglini o più modernamente dal nome del proprietario, di S. Lucia; dove recitavano le compagnie dei comici; e che poi rifatto, abbellito e prevalso il secondo nome, si adattò a teatro d’opera, rivaleggiando con quello più grande dei musici detto di S. Cecilia; finchè ingrandito prese il nome di Carolino; e fu il solo e glorioso teatro d’opera di Palermo, anche quando, mutato il regime, fu intitolato al nome imperituro di Bellini. Allora, nel 1775, era un piccolo teatro che di fuori non annunziava punto che nascondesse una sala da spettacoli. Una tettoia difendeva la porta sulla quale una tabella di legno portava dipinto lo scritto: “Teatro di Travaglini”; un corridoio senza luce, umido, con le pareti grommose, conduceva all’ingresso del teatro, in fondo a un breve spazio. Una sala capace di trecento persone e tre file di palchi; non vi erano poltrone, che allora non si usavano, ma sedie numerate; una grande lumiera pendeva dal soffitto. Di giorno bisognava abituarsi al buio per potersi movere e non inciampare in qualche sedia, ma di sera si illuminava e si vedeva bene la fioritura delle belle vesti e la bianchezza delle carni sull’addobbatura rosso cupo dei palchetti. L’illuminazione era a cera nella lumiera e nei trionfi dei palchetti, ad olio sul palcoscenico. Il quale era più tosto angusto; aveva in giro gli stanzini degli attori, piccoli e malmessi, alcuni, invece di porta, erano difesi da una tendina; gli uomini stavano da una parte in tre stanzini comuni, le donne in due, pochi stanzini erano privilegiati. L’attrezzatura si componeva di tre o quattro scene con le rispettive quinte; le scene erano arrotolate in alto e trattenute da corde che penzolavano da un lato.
In quel tempo vi agiva una compagnia condotta da un siciliano, che godeva grande opinione di buon attore, e recitava nelle parti di padre nobile: si chiamava Domenico Minniti, era nato per così dire in teatro, perché era figlio di comici. I suoi attori erano siciliani, ma il “Tiranno” e la moglie erano napoletani, Antonio Zardo e Giuliana Buzelle, che in arte recitava da Beatrice. Era quasi tutta una famiglia, chè fra loro erano imparentati: padri, madri e figli recitavano o prendevano parte della compagnia come attrezzisti o trovarobe. Ma Floristella no; era una trovatella o per essere più esatti, una figlia dell’arte trovata in un angolo della porta di casa di Ferrazzano una sera al ritorno dal teatro.

mercoledì 28 ottobre 2015

Luigi Natoli nel romanzo Fioravante e Rizzeri: don Calcedonio vende il "pupo" Carlo Magno.


Il giorno dopo don Calcedonio uscì di buonora, e si recò al teatrino. Era commosso come se fosse costretto a strapparsi una costola o meglio il cuore. Guardò tutti i paladini messi in fila, che lo guardavano alla loro volta con gli occhi spalancati; e pareva irresoluto se scegliere l’uno o l’altro. Ne giudicava l’armatura, ne tentava le mosse, ne verificava le vesti. Chi era più bello? Orlando? Rinaldo? Carlo Magno? Fioravante no; quello gli serviva. Chi scegliere? Avevano tutti belle armature di nichel con ricami dorati, e sfolgoravano. Egli ne prese quattro, e li distese sul tavolato, poi su quattro pezzi di carta scrisse quattro numeri, li attorcigliò, li chiuse nel cappello, li scosse e li buttò in terra. Raccattò il più lontano; segnava il numero uno; corrispondeva a Carlo Magno. Trasse un sospiro dal petto: era proprio quello che desiderava. Avvolse il paladino in giornali, se lo cacciò sotto il soprabito e uscì.

Andò al palazzo del duca di Terrabruciata, una duchea di recente formazione, il cui proprietario ricco a milioni aveva fama di essere un raccoglitore di scartoffie, che prendeva per codici antichi, di marmi tolti a vecchie fontane, che prendeva per greci o romani, di lame arrugginite che egli credeva scavate nelle terre sacre dell’antichità. Ma in compenso aveva una buona collezione di bardature, di stoffe, di strumenti, di cose appartenenti al folclore. Gli mancava un paladino per avere una collezione completa o quasi.

Don Calcedonio si presentò al signor duca, e scioltosi il pupo di sotto il soprabito, mostrandolo in tutto il suo splendore, gli disse:

- Le piace?
- Ehm! non c’è male. Quanto?
- Non dico, ma la sola armatura m’è costata circa mille lire.
- Troppo caro!
- Io non ho fatto prezzo; vossignoria è buon giudice, e io vengo a offrire il mio paladino perché so che va in cerca di cose caratteristiche di regione…
- Siete contento di seicento lire?
- Ho detto che faccia vossignoria.
Don Calcedonio uscì dal palazzo con seicento lire e con gli occhi umidi di lagrime.

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Luigi Natoli nel romanzo Fioravante e Rizzeri: don Calcedonio organizza l'opera dei pupi in casa del duca di Terrabruciata


Era un bell’affare quello ideato dal signor duca di Terrabruciata! Non s’imbarazzava don Calcedonio della scelta, potendo egli al modo stesso dare una rappresentazione tratta da Buovo d’Antona come da Orlando o da Bradamante e Ruggero; né si preoccupava di avere chi lo coadiuvasse; né di dover portare qualche altro paladino; ma, piuttosto della lingua che avrebbe dovuto usare. Egli adoperava il linguaggio fabbricato da lui, tra italiano e dialettale, spesso dialetto con desinenze italiane o lingua con desinenze del dialetto; il che formava un cibreo saporitissimo, al quale davano colore le frasi più pittoresche e più volgari del vernacolo anzi del gergo, messe in bocca ai paladini. Ma poteva adoperare lo stesso linguaggio nella sala del duca? Ecco il busillis!
Andò intanto ad avvertire Cosimo, il suo aiutante, che sapeva imitare le voci di donne; e non potendo portare su l'organino in casa d'altri, andò a trovare un vecchio suonatore di violino, perché al modo antico, nascosto nel teatro, accompagnasse col solito mi, do, re, i combattenti. Poi scelse fra i vari cartelloni dipinti quello che diceva: "Orlando combatte con Ferraù di Spagna e lo abbatte".
La sorpresa delle signore e delle signorine vedendo il cartellone, e le risate che accompagnarono le papere infioranti il linguaggio di don Calcedonio, lo spasso che quei combattimenti suscitarono non si dicono; solo diremo che alla fine (lo spettacolo non durò più di mezz’ora) don Calcedonio ricevette dal mastro di casa una busta contenente cinque biglietti da cento lire. Fu un altro spettacolo. Si aspettava che il duca gli regalasse duecento lire: ma cinquecento? Si profuse in ringraziamenti; e per non essere da meno del signor duca, ne regalò alla sua volta, trenta al suonatore e settanta al suo aiutante; il resto lo intascò lui, ma cominciò a pensare a quello che poteva fare con quelle quattrocento lire piovutegli dal cielo.