martedì 31 marzo 2015

Luigi Natoli: Squarcialupo - Il Booktrailer


Luigi Natoli: Giovan Luca Squarcialupo

Giovan Luca Squarcialupo non va a caccia di favori e di premi e non vende l’opera sua.
 
 
 
Noi siamo stanchi; il malgoverno è giunto al suo estremo limite, oltre il quale non vi è pazienza umana che possa sopportarlo. Tollerarlo ancora è un delitto; bisogna spezzare le catene: bisogna ricordarsi del Vespro, se non vogliamo che questa nostra terra precipiti in un abisso dal quale non potrà più rilevarsi.

Luigi Natoli: Squarcialupo. La chiesa dell'Annunziata

 
La chiesa dell'Annunziata, oggi non più esistente perché bombardata durante la seconda guerra mondiale: cornice della parte centrale del romanzo Squarcialupo di Luigi Natoli.
 
La chiesa dell’Annunziata era stata eretta da pochi anni sulle rovine di un’altra chiesa distrutta nel secolo XIV; e accanto ad altra, dello stesso titolo, appartenente a confrati, che però l’avevano abbandonata, e avevano trasportato il loro archivio, il sagramento, i vasi, tutto insomma nella nuova; che esiste tutt’ora,(*) nella sua graziosa forma originale, accanto all’edifizio del Conservatorio di Musica, dentro il quale si trovano il portico e gli avanzi della chiesa dei confrati. Allora questo portico e la chiesa abbandonata comunicavano con la nuova.
 
(*) Nel 1924
 
 


Luigi Natoli - Squarcialupo dopo 91 anni in libreria.

Squarcialupo: grande romanzo storico siciliano di Luigi Natoli.
Apparve per la prima volta a puntate in appendice al Giornale di Sicilia il 02 febbraio 1924.


Ritorna oggi, dopo novantuno anni, per la prima volta in libro edito da I Buoni Cugini Editori di Ivo Tiberio Ginevra.

 
 

Ebbene, non si può estendere a tutta la Sicilia, e fare del regno una grande Repubblica? Questo è il mio sogno; ma forse voi non ne vedete tutta la bellezza, perchè le vostre idee sono diverse dalle mie, quanto alla forma del governo.


Luigi Natoli - Chi era Giovan Luca Squarcialupo?

Giovan Luca Squarcialupo apparteneva a una di quelle famiglie pisane, che esercitando traffici e tenendo banchi, avevano acquistato ricchezza e nobiltà. Era giovane. Pochi anni innanzi aveva preso moglie; ma dieci mesi dopo era rimasto vedovo. Viveva quasi appartato, badando al banco, e coltivando lo spirito con la lettura. Era stato alunno di un dotto umanista, che gli aveva fatto prendere amore ai grandi scrittori latini; ed egli leggeva con preferenza Livio e Virgilio. Ma leggeva anche certe cronache manoscritte della repubblica di Pisa, e altre del regno normanno e svevo di Sicilia e del Vespro.
 
Abitava nella strada della Loggia dei Pisani, proprio quella che anche oggi conserva l’antico nome. Molte famiglie della “nazione” pisana stavano da quella parte, e nella strada di san Francesco: e gli Squarcialupo venivan da Pisa, e avevano il loro banco nella Loggia. Allora la strada si prolungava, perché la via Marmorea o Cassaro finivano a Sant’Antonio: e dovevan passare cinquant’anni all’incirca, perché fosse prolungato fino alla chiesa di Porto Salvo, tagliando strade, e abbattendo case.
 
Il personaggio.
 
... Disse queste parole con un tono così solenne e profetico, che il vecchio barone lo guardò con maraviglia e ammirazione. Giovan Luca gli sembrò più alto, più grande, con l’aspetto di uno di quei personaggi eroici della storia evocata. Borbottò qualche parola, ma parve rimettersi. Subiva il fascino di quella voce, di quel gesto, di quella passione per la libertà che sfavillava negli occhi del giovane, e lo illuminava di una nuova luce.
 
... Parlava col volto acceso da una fiamma interna, che rendeva calda e appassionata la parola. Tristano, sebbene avesse gran premura di andarsene, ne rimaneva talvolta preso, e lo ammirava: e gli pareva che Giovan Luca si ingrandisse, e si illuminasse di una luce nuova. Non era più quel pensoso, che pareva sdegnoso di parlare, o parlava breve e a sentenze: pareva qualcosa fra l’oratore e il condottiero; un sovvertitore di popolo e un dominatore. Certamente aveva un’idea, che non rivelava ancora, forse era l’idea madre, dalla quale si generavano tutte le sue azioni, anche caute, quasi saggiature; ma che al momento opportuno, si sarebbero svolte in tutta la loro pienezza. Con tutto ciò appariva agli occhi di Tristano come un uomo nuovo.

...All’amore per la donna ho sostituito un altro amore, del quale Lucrezia non può essere gelosa: quello per questa terra nostra. Ed è amore grande e puro anche questo, Tristano. Forse più grande dell’altro, perché domanda sacrifizi, e non dona: e tuttavia rende immortali gli uomini.
 
...Prima di essere innamorato voi eravate cittadino; e la terra che vi diede i natali, la terra che i vostri occhi videro per la prima, deve seder prima nella vostra mente, nel vostro cuore!... Ah! ecco perchè non sappiamo riprendere l’antica indipendenza: ecco perché non sappiamo esser liberi!... Le anime nostre si sono avvilite nell’egoismo, e al bene comune antepongono il proprio tornaconto... Io credevo di aver forgiato il vostro cuore, Tristano: di avervi trasfuso una parte della fiamma che arde nel mio; pensavo che voi sareste stato domani l’eroe della patria: Bruto o Camillo, Giovan da Procida o Alaimo da Lentini... (*) Ahimè! voi preferite rassomigliare all’eroe di cui portate il nome e languire d’amore!... Levatevi su, Tristano Buondelmonti!... La patria prima di tutto!...
 
Giovan Luca attendeva a preparare i modi e i mezzi per attuare quel suo vecchio disegno di riscossa per cacciare lo straniero, e istituire un governo democratico, come quello che fece la gloria di Pisa. Era l’idea accarezzata fin da quando cominciò a leggere le pagine di Livio, maturatasi col progredire negli studi umanistici, fattasi assillante in quei rivolgimenti, e allo spettacolo delle violenze e delle ladronerie del vicerè don Ugo. Che quelli non fossero tempi di repubblica, che questa repubblica vagheggiata da lui era un anacronismo, sfuggiva alla esaltazione del suo spirito, che lo illudeva di speranze e di sogni eroici.

(*) Giovanni da Procida e Alaimo da Lentini sono gli eroi del Vespro Siciliano.


Luigi Natoli - Squarcialupo.



 
 
La cospirazione di Giovan Luca Squarcialupo, nata da generosi sentimenti, si svolse con mezzi inadeguati e senza un fine determinato: egli ne fu biasimato, e i suoi persecutori lodati. Ma con questa dello Squarcialupo comincia la serie delle sommosse, delle cospirazioni, delle rivoluzioni contro la Spagna, segno di irrequietezza per la perduta indipendenza. - Luigi Natoli.
 
Nella foto: la via Squarcialupo a Palermo, dove si trovano il Conservatorio Vincenzo Bellini e la Chiesa di Santa Cita. In questa strada vi era la chiesa dell'Annunziata, dove si svolge la parte centrale del romanzo: oggi non più esistente perché bombardata durante la seconda guerra mondiale.
 
 
 
 
 

Luigi Natoli - Il piede del Crocifisso - La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue...


Il Crocifisso della Cattedrale di Palermo, protagonista della leggenda "Il piede del Crocifisso" di Luigi Natoli inserita nel volume "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue..." edito da I Buoni Cugini Editori.

lunedì 30 marzo 2015

Luigi Natoli - La Baronessa di Carini - La famosa impronta della mano sul muro.


La famosa impronta sul muro lasciata dalla mano della baronessa al momento della sua morte.
E' stata disegnata per noi in copertina da Niccolò Pizzorno.



Luigi Natoli - La Baronessa di Carini - Il castello


Il castello La Grua, teatro della tragedia di Carini nel 1563.

Luigi Natoli - La Baronessa di Carini - Un poemetto siciliano del secolo XVI; trattato storico sul Caso di Carini

Il signor Pietro Barcellona di Carini, raccogliendo in un grosso volume di varia materia, le memorie della sua terra natale, e rifacendo secondo la sua fantasia o leggenda o “storia vera” della baronessa di Carini, praticò delle ricerche in quell’archivio  parrocchiale, già frugato dal Salomone-Marino; e trovò nel registro dei morti dall’anno 1559 al 1575, a carte 38, verso, sotto il mese di dicembre, le due noterelle conosciute oramai dagli studiosi, ma che giova riprodurre: 

A di 4 dicembre, VII ind. 1563, fu morta la Baronessa
Laura La Grua. Seppellio a la matri ecl.” 



A scanso di equivoci noto qui, che alla dizione “fu morto, fu morta” non do, come ha fatto qualcuno, il significato toscano di “fu ucciso”. Essa è la traduzione del latino mortus, mortua est, ed equivale a “morì”. È la forma usata in Sicilia, in tutti gli atti di morte e dai cronisti.
 
 
E immediatamente sotto: 

“Eodem, fu morto Ludovico Vernagallu ecc.” 

Eodem, cioè lo stesso giorno.
 
La data è identica a quella del diario del Paruta; ma il nome della donna non è quello dato dall’Auria, né quello del poemetto; invece di “Caterina” essa di chiama “Laura”; e il Vernagallo, morto lo stesso giorno – si noti bene – non è quel Vincenzo che se ne andò in Spagna e di cui favoleggia il poemetto, ma un Ludovico, diverso dal padre di Vincenzo, il marito di Elisabetta La Grua, che già era morto sette anni prima, come afferma il Salomone-Marino.
Nessuna delle figlie di Vincenzo La Grua si chiama Laura, e nessuno dei fratelli di Vincenzo Vernagallo si chiama Ludovico...
(Tratto da "Un poemetto siciliano del secolo XVI di Luigi Natoli" , trattato storico del 1910 pubblicato nel volume "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue". )

domenica 29 marzo 2015

Luigi Natoli: I Santapau de "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue...


I.
 
Il ballo della morte.
 

Cavalcava nel cuor della notte, solo, fra le orride gole dei monti e le pianure interminate; attraversava boschi aspri e selvaggi e campi di frumento ancor tenero; e al trotto concitato del suo cavallo fuggiva un cerbiatto, spiccava il volo una upupa, s’appiattava un lepre. Né la paura di incogliere dei malandrini che infestavano le campagne, né la stanchezza, il bisogno di dormire o di rifocillarsi arrestavano il suo viaggio. L’idea che lo tormentava, l’ira e il dolore che gli sconvolgevano l’anima, gli infondevano una lena e un vigore straordinario.
Egli non vedeva nulla intorno a sé; gli alberi, le rocce, le torri sparivano come fantasmi da un lato e l’altro della via; un bisogno solo urgevagli: arrivar presto, improvviso nel castel di Militello, piombar nelle stanze, come un fulmine, e infrangere la vita di coloro che avevano infranta l’anima sua.
Non vedeva che il suo castello, il magnifico signor Antonio Barresi, e nel castello non vedeva che una camera, e in quella camera non vedeva svolgersi che una scena, una orribile scena!... E spronava il cavallo, che sbuffava e nitriva dolorosamente, affranto da quella corsa continua di dodici ore.
Pure, talvolta, il barone Antonio Barresi dubitava.
- Possibile?... ma è possibile? – si chiedeva affannosamente – Come? Quando? Perché? – E ritornava con la mente a ripetersi il fatto che gli era stato svelato da quella lettera infame. Egli era arrivato da un giorno a Palermo dall’Aragona, dove era stato per ambascerie presso il re Giovanni: ed ecco che gli recarono una lettera: da chi era scritta? Dai suoi fratelli, proprio eran essi firmati giù sotto l’accusa formidabile: “don Niccolao, don Luigi”... E se i suoi fratelli mentivano?... Mentire? E per qual ragione? Che cosa potevano aver loro con donna Aldonza? Doveva esser vero... Vero?!... Morte e dannazione!... Oh perché invece di scrivergli quella lettera, essi, i suoi fratelli, non piantarono uno stile nel cuore di quei turpi traditori?
Pure la lettera non recava alcun particolare, alcuna prova... nemmeno un indizio; l’accusa era breve e laconica “mentre voi andate nelle Spagne pel servizio di Sua Maestà, donna Aldonza vi tradisce vergognosamente col segreto”. E col segreto poi! un vassallo, un servo, un miserabile! Oh quale ondata di fango insozzava le sbarre di argento del suo scudo!...
E mentre pensava, mentre tutti questi dubbi gli tumultuavano nell’anima, e ruggivano mille passioni nel suo petto, egli stringeva le redini nel pugno nervoso, ficcava gli sproni nel ventre del suo cavallo, e lo spingeva al galoppo. E il generoso animale, sbuffando, nitrendo, fremeva, spumeggiava e galoppava...
Luigi Natoli

lunedì 16 marzo 2015

Luigi Natoli - Primo capitolo de "La signora di Carini" di Luigi Natoli: l'altro volto della baronessa di Carini secondo gli studi di Luigi Natoli e Giuseppe Pitrè.

Della leggenda di Luigi Natoli "La signora di Carini", apparsa sul Giornale di Sicilia il 31 agosto 1910,  offriamo ai lettori di Luigi Natoli (e del nostro blog) il primo capitolo.
 La leggenda è pubblicata oggi nel volume "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue..." edito da I Buoni Cugini Editori di Ivo Tiberio Ginevra.
 
I.
 
In silenzio, nell’ombra della sua camera, la fanciulla piangeva. Un dolore disperato le lacerava il cuore. Non avrebbe mai sospettato una perfidia di quel genere, che le squarciava a un tempo la cara e dolce fiducia in coloro che essa amava di più, e il velo che le avvolgeva ancora agli occhi verginali il dolce e indefinito mistero dell’amore. Anzi aveva tolto all’amore quel profumo di ignoto che era la fonte di quell’incantevole malinconia nella quale vagavano i suoi pensieri e i suoi sogni.
Ella aveva veduto!
E i sogni si erano infranti miseramente; e l’orrore, l’angoscia, lo sgomento imprimibile di ciò che aveva veduto, di quello che aveva perduto irreparabilmente, la gittavano singhiozzando col volto affondato sui guanciali.
Oramai in quel castello si sentiva estranea; qualche cosa aveva violentemente troncato tutti i legami che la univano alle persone con le quali coabitava, alle quali aveva fino allora portato un affetto fiducioso, sincero, profondo, devoto.
Tutto era finito! finito!
Egli le appariva un uomo mostruoso; la tenera poesia di cui lo aveva circondato si era dileguata a un tratto. Nessun colpo di vento spazzò così gagliardamente nebbia o fumo, come la orribile visione aveva fatto della sua poesia.
Ora si domandava affannosamente:
- Che fare?
Sì, che cosa doveva fare?
Rimanere e tacere?
Lo sdegno, la dignità offesa, il ribrezzo, le imponevano nel suo cuore:
- No; tu non devi restar più di un’ora in questa casa infame!
Andarsene dunque e rivelare il perché?
La collera, l’odio, la gelosia, la vendetta, le ruggivano:
- No! tu devi restare; rivelare la bruttura che offende te, la tua casa, tuo padre, l’onore del tuo nome, e trarne vendetta!
Ma un’altra voce, rimprovero, ammonimento, preghiera a un tempo, le suggeriva con tono accorato:
- È tua madre, Caterina!... tua madre!
Ah sì! era sua madre! Lo sapeva bene ella e questo appunto inacerbiva la sua piaga e la rendeva folle.
Così trascorse la notte; al mattino, uscì dalla sua camera con gli occhi rossi e gonfii, il volto disfatto, pallido. La vista della madre la fece ancor di più impallidire e quasi quasi venir meno.
- Che cos’hai? – le domandò la madre premurosamente.
A questa domanda e alla voce materna si riscosse, una espressione di fierezza sdegnosa le si dipinse sul volto.
Rispose seccamente:
- Nulla, signora madre.
Disse la parola madre, con una amarezza e con un fremito di orrore.
Verso mezzodì arrivò da Palermo il nobili uomo don Vincenzo La Grua e Talamanca, barone di Carini. Il giorno innanzi era andato per sue faccende alla capitale; ora ritornava nel suo bel castello di Carini, dove soleva passare alcuni mesi dell’anno, con la famiglia.
Il suono dei corni, il cigolìo delle catene che abbassavano il ponte levatoio, lo scalpitio dei cavalli, il frettoloso accorrere della servitù, il propagarsi dell’annuncio: –  “È venuto il padrone” – tutto ciò aveva empito il castello di rumore e di vita.
I figli andarono a baciar la mano al padre, nell’anticamera, dove lo aspettavano. Quando venne la volta di Caterina, don Vincenzo sentì che la mano della figliuola tremava, e che alle sue labbra v’era come il fremito d’un singhiozzo.
Se ne stupì; quando si trovò solo con la moglie, le disse:
- Avete veduto, donna Laura, che viso ha Caterina?
- Sì, le ho domandato se si sentisse male, mi ha risposto di no... Fino a iersera stava buona ed era allegra... Non so che sia...
E aggiunse sorridendo da donna esperta:
- Cose da fanciulla. Qualche ubbìa!...
Non se ne parlò più; ma verso l’Ave Maria la fanciulla pregò il padre di concederle una breve udienza.
Don Vincenzo se ne stupì: che cosa c’era di nuovo? Che cosa era avvenuto durante la sua breve assenza?
- Ebbene, – disse – parla pure...
- Vossignoria mi permette, prima?...
Andò a chiudere la porta; precauzione che accrebbe lo stupore del barone di Carini.
La fanciulla stette un minuto immobile, pallidissima, coi grandi occhi chinati per terra. Don Vincenzo la guardava stupefatto, curioso e pietoso a un tempo.
- Dunque? – domandò con dolcezza incoraggiante – parla? Che cos’hai?
Allora Caterina gli si buttò ai piedi, supplichevole, con le mani giunte:
- Signor padre, son qui per supplicarvi come Gesù, perché mi concediate una grazia...
- Oh! oh! – disse il barone sforzandosi di prender la cosa in ischerzo, ma agitato da una certa ansia – Cose grosse dunque?...
- Vi prego, vi supplico, vi scongiuro per quanto avete di più sacro al mondo, di permettermi che io mi faccia monaca.
Don Vincenzo La Grua balzò sulla sedia, guardò la figliuola, ruppe in una risata:
- Ah! ah! ah!... Cotesta è buffa!... Farti monaca? E Vernagallo, si farà monaco anche lui?
Al nome di Vernagallo, il volto di Caterina si contrasse orribilmente; pure ella si dominò e con voce fioca, ma ferma, disse:
- Se vorrà farsi frate sarà un bene per l’anima sua; ma io vi prego, signor padre, di sottrarmi a queste nozze... Sento una vocazione ineluttabile pel monastero... Mandatemi di nuovo nel monastero, per professarmi...
Il barone la guardava, passando da uno stupore all’altro; certamente il volto ella fanciulla doveva esprimere un’angoscia, una tortura così grande e tremenda, che egli capì doversi trattare di cosa ben grave.
- Ma dunque dici davvero?... Ma come?... perché?... Bisognerebbe che le ragioni siano tali e tante da impormi quasi il dovere di ritirare una parola data. Sai bene che fra noi e i nostri parenti Vernagallo non c’è stato buon sangue, per via d’interessi; e questo matrimonio stabilito da quando tu eri piccolina così, doveva suggellare la pace fra le due famiglie... Che cosa è avvenuto da ieri a oggi?
- Oh no, – disse con torva tristezza la fanciulla – non da ieri... è più lungo assai... L’ho maturata nella mia mente, signor padre, e sento di non esser fatta pel matrimonio... Mi spaventa... ne ho orrore!...
- Bah! Cose da ridere!...
- No, no, signor padre, ve lo giuro... È una cosa orribile... Non mi costringete a questo matrimonio. Ne morrei, ne morirò!...
Il barone aggrottò le sopraciglia, e con parola recisa e dura, rispose:
- Basta. I baroni di Carini non hanno mai ritirata la loro parola. Sono oramai dieci anni che questo matrimonio è deciso, e si farà. Strano! Fino a ieri tu ne eri contenta e lieta; come mai, improvvisamente t’è venuto tanta avversione?
- Non lo so, – balbettò la fanciulla.
- È stato un sogno?
- Sì, sì, un sogno, un orribile sogno!... Ah che visione, signor padre!... Non può dirsi, non posso dirlo; è una cosa troppo forte... ma è così, come le dico: questo matrimonio è la mia morte... Perché vuol farmi morire? Perché non mi salva dalla morte e dalla disperazione? Perché mi vuol far perdere eternamente, corpo ed anima?...
Si esaltava supplicando, con le mani aperte, disperatamente.
Il barone non pareva persuaso: sentiva che sotto quelle parole c’era un mistero: ma quale? Un sospetto gli attraversò la mente. Sebbene il castello fosse sicuro, e i suoi facessero buona guardia, e non era possibile entrarvi, tuttavia il sospetto balenò.
Prese Caterina per la mano, e figgendole gli occhi negli occhi, le domandò scandendo le parole in modo significante:
- Ludovico avrebbe forse compiuto contro di te qualche mancanza...
Caterina trasalì, titubò.
- T’avrebbe offesa? – insistette il padre.
Ella fece forza a sé stessa, e rispose:
- No... non mi ha offesa...
Don Vincenzo sentì che nella risposta della figlia c’era invece una affermazione.
- Proprio?... Lo giuri?...
Caterina si sentiva lacerarsi l’anima. Con voce soffocata disse:
- Lo giuro...
Il barone tacque: guardò la figliola, torbido, chiuso, maturando forse un’idea.
- Sta bene; ne parleremo poi. Va nella tua camera.
La fanciulla si chiuse nella stanza piena del suo dolore, e si abbandonò interamente all’angoscia frenata nel colloquio col padre. Le idee più disparate, i propositi più opposti, la coscienza di aver mentito giurando il falso, il disgusto la collera, la ribellione, tutti questi sentimenti facevano un tumulto tremendo nell’anima sua. Ora si pentiva d’aver taciuto la verità, e si domandava perché. Paura forse? Aveva voluto risparmiare un dolore al padre? aveva voluto sottrarre la madre? Aveva obbedito a un sentimento di pudore? Non lo sapeva! Questo solo sapeva invece, che ella sarebbe stata immolata a quel matrimonio odioso.
“I baroni di Carini non hanno mai ritirato la loro parola...”
E se non ritirandola si facevano complici di un’infamia?...

venerdì 6 marzo 2015

Luigi Natoli - Caterina La Grua e Laura Lanza: i due volti de "La Baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue..

 
Nota dell'editore: Per dare al lettore una visione completa degli studi di Luigi Natoli sul "caso" della Baronessa di Carini, abbiamo aggiunto: una leggenda dal titolo "La signora di Carini" pubblicata da Luigi Natoli sul Giornale di Sicilia con pseudonimo di "Maurus" il 31 agosto 1910, ispirata alla vicenda secondo gli studi di Giuseppe Pitrè; ed ancora "Un poemetto siciliano del XVI secolo" da un Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III Vol. IX del 1910", dove Luigi Natoli espone da storiografo i fatti storici relativi al caso di Carini e spiega le origini e la composizione del famoso poemetto; alcuni brani del poemetto tratti da "Musa Siciliana" di Luigi Natoli, con note e spiegazioni dello stesso autore, pubblicato dalla Casa Editrice Caddeo - Milano nel 1922.
Nelle foto: la leggenda "La signora di Carini" pubblicata nel Giornale di Sicilia e "Un poemetto siciliano del secolo XVI"
 
 

Luigi Natoli - Indice del volume: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue...


Avvertenza dell’autore
 
 
"Per non turbare la narrazione, e per non schiacciare il lettore sotto il peso di una spaventevole erudizione, ho soppresso in questo libro ogni e qualsiasi nota.
Per coloro però che volessero sapere donde ho tratto la materia di queste novelle storiche o leggendarie che siano, noto qui le fonti alle quali, con maggiore o minore larghezza, secondo lo svolgimento drammatico, ho attinto.
Il Piede del Crocifisso ho desunto in parte da una monografia di Vincenzo Auria (Il vero e originale ritratto di Cristo N.S. in croce – Palermo 1669) e in parte da una tradizione orale.
Le Gesta di Galeazzo, dalla Sicilia Ricercata di Antonino Mongitore (Palermo 1742).
Un Eroe, oltre che dal citato libro del Mongitore, dalle storie del Sabellico (Deca III, libr. 9) del Cepio (Rebus Venetis libro II) del Maurolico (Sicaniarum Rorum, lib. V, VII).
Fuga d’amore, l’Esodo, il Caso di Sciacca ho tratto dalle Storie Siciliane di Isidoro La Lumia (v. I quattro Vicari, gli Ebrei in Sicilia – La Sicilia sotto Carlo V, nei vol. II e III – Palermo 1883).
Per I Santapau, sebbene le ricerche fatte da ch. Signor A. Flandina nell’Archivio e pubblicate nell’Archivio Storico Siciliano (anno III, fascicolo IV, Palermo 1679) modifichino lo svolgimento di quel tragico fatto, ho voluto seguire invece la cronachetta manoscritta, raccolta dal Villabianca nei suoi Opuscoli che si conservano alla Comunale, la quale mi è parsa più poetica.
Nella leggenda della Baronessa di Carini ho seguito lo stupendo poema popolare edito dal dotto S. Salamone Marino (Palermo 1873 – V ediz.) quantunque l’acuta opinione ultimamente espressa dall’illustre G. Pitrè (vedi la nuova edizione dei Canti Popolari Siciliani Palermo C. Clausen edit. 1891) sia degna di considerazione.
 Luigi Natoli"
 
 
Nota dell'editore: Per dare al lettore una visione completa degli studi di Luigi Natoli sul "caso" della Baronessa di Carini, abbiamo aggiunto: una leggenda dal titolo "La signora di Carini" pubblicata da Luigi Natoli sul Giornale di Sicilia con pseudonimo di "Maurus" il 31 agosto 1910, ispirata alla vicenda secondo gli studi di Giuseppe Pitrè; ed ancora "Un poemetto siciliano del XVI secolo" da un Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III Vol. IX del 1910", dove Luigi Natoli espone da storiografo i fatti storici relativi al caso di Carini e spiega le origini e la composizione del famoso poemetto; alcuni brani del poemetto tratti da "Musa Siciliana" di Luigi Natoli, con note e spiegazioni dello stesso autore, pubblicato dalla Casa Editrice Caddeo - Milano nel 1922.
 
Le altre leggende incluse nel volume:
 

Il piede del Crocifisso. 

Fuga d’amore.
Riferimento storico della leggenda.

Un eroe.

L’esodo.
Riferimento storico della leggenda.

I Santapau.
Capitolo I – Il ballo della morte.
Capitolo II – La morte di donna Aldonza.
Capitolo III – La vendetta.
Capitolo IV – Ritorno.

Il caso di Sciacca
Capitolo I – Il riscatto del barone.
Capitolo II – La giornata di Giorgio Comito.
Capitolo III – L’Assalto.
Capitolo IV – L’eccidio.
Riferimento storico dell’opera.

La Baronessa di Carini
La Baronessa di Carini.
La Signora di Carini
Un poemetto siciliano del secolo XVI  
Alcuni brani del poemetto tratti da "Musa Siciliana". 

Una corsa.

Il Re della Bocceria.

Sinan Bassà.

Luigi Natoli - Un inedito: La baronessa di Carini e altri racconti con fatti di sangue...


Pagine 310
Cucito in f/r brossura – Disegni in copertina di Niccolò Pizzorno.

A nessun componimento della nostra letteratura popolare è toccata la sorte di avere tanti  e così diligenti illustratori e imitatori, come a quel tragico poemetto, che corre sotto il nome di Baronessa di Carini; al quale l’orrore del fatto, unico forse nella letteratura del popolo, la pietà verso la vittima, il grado e la notorietà dei personaggi e soprattutto la incomparabile bellezza della forma rappresentativa conferirono una meritata celebrità.
Così scriveva Luigi Natoli di questo dramma familiare, ma forse non tutti sanno che oltre alla novella intitolata La baronessa di Carini composta nel 1892 e ispirata al poema popolare di Salamone Marino, ben 18 anni dopo, il fecondo narratore palermitano con lo pseudonimo di Maurus, scrisse una nuova e meravigliosa novella: La signora di Carini, questa volta basandosi  sugli studi del Pitrè, e poi ancora un’attenta analisi con ricostruzione storica del poemetto siciliano del XVI secolo.
Tutto questo riproponiamo oggi nello splendore delle edizioni  originali insieme ad altre leggende e grandi tragedie familiari come, quella dei nobili Barresi e Santapau, e quella altrettanto famosa fra le potenti famiglie dei Perollo e de Luna, che lasciò memoria durevole nella tradizione popolare e passò alla storia come L’orrendo caso di Sciacca.
Tutte le leggende sono fedelmente tratte dal volume “Storie e Leggende” pubblicato da Luigi Natoli nell’anno 1892 con la casa editrice Pedone Lauriel. Per dare un quadro completo sugli studi dell’autore riguardo il tragico caso della Baronessa di Carini, sono stati aggiunti: La signora di Carini, leggenda inedita pubblicata sul  Giornale di Sicilia il 31 agosto 1910 con pseudonimo di Maurus; Un poemetto siciliano del XVI secolo, da un Estratto dagli Atti della Reale Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo serie III Vol. IX del 1910"; alcuni brani del poemetto tratti da "Musa Siciliana" di Luigi Natoli, con note e spiegazioni dello stesso autore, pubblicato dalla Casa Editrice Caddeo - Milano nel 1922.
 
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Luigi Natoli - Fioravante e Rizzeri: booktrailer

giovedì 5 marzo 2015

Luigi Natoli in Fioravante e Rizzeri: l'opera dei pupi.

 


Qualche volta, passando per una stradetta, sopra una porta, vedo pendere un cartellone con dipinti in quadri alcuni episodi di quello che si rappresentava la sera nel teatro delle marionette; e vi leggevo i nomi di Fioravante e di Rizzeri. La storia di Andrea da Barberino si era rifugiata lì: Fioravante e Rizzeri erano tramutati in teste di legno, come tutti gli altri campioni del valore e della fede; ma anche in quelle vesti che destano in noi un sapore di cose nuove. In un quadro v’erano due guerrieri, che abbassavano le armi e un leone fra loro in atto di separarli; in un altro, una folla di popolo e una regina condotta al rogo: i cavalieri erano vestiti con le armature del cinquecento, con un salto di mille e duecento anni. Non importa nulla. Pel popolo abituato a quel teatro e pel puparo, ossia per l’ “oprante” tutte queste differenze sparivano nell’antico, in cui tutto accadeva senza distinzione di tempo, di luoghi, di costumi: ma l’onda di poesia che scaturiva anche da quelle piccole teste di legno era possente e riecheggiava nelle anime semplici degli spettatori.
Ripresero il combattimento, ma questa volta il leone, ruggendo più fieramente del solito, si cacciò in mezzo ai combattenti, e rizzatosi sui piedi posteriori, sicché era più alto di tutti, e fra lo stupore e lo sbigottimento di quanti erano a vedere lo spettacolo, disse a gran voce:

- Fermatevi! Troppo avete combattuto, e troppo io ho taciuto!

Luigi Natoli in Fioravante e Rizzeri: Fioravante, figlio del re di Francia, Fiorello


Io lo lessi giovanotto e ricordo che non potevo, se non difficilmente tralasciare la lettura; lo rilessi ora, e provai il medesimo diletto al racconto delle avventure subite e affrontate da Fioravante e da Rizzeri suo compagno e maestro, primo paladino di Francia e uomo senza macchia e senza paura. Comincia Fioravante con una monelleria, che lo spinge a lasciare il tetto paterno del re Fiorello; e di là si partono le sue avventure. Liberazione di giovanette, uccisione di nemici della fede, perdita di armatura rubatagli da un ladrone, prigioniero del re di Scondia, innamoramento con Drusolina, il suo valore come incognito e via via quello che gli succede da re, le persecuzioni di sua madre Biancadoro, che voleva dargli moglie, le avventure di Drusolina, che sola abbandonata, dà alla luce due gemelli, uno dei quali le viene rubato, e il duello dei due fratelli che non si conoscono, tutto ciò frammezzato di tanti episodi forma il romanzo, che spira un senso di giustizia e solleva gli animi nelle regioni del sogno. I nomi delle contrade non si sa dove trovarli, le distanze di parecchie migliaia di chilometri si percorrono in un tempo irrisorio, gli eserciti sono così innumerevoli da superare il numero degli abitanti delle città che li armano... Che importa? Siamo nelle sfere del sogno, nel quale ci piace navigare. - Luigi Natoli

“Come era bello Fioravante! Bello, gentile e gagliardo. Aveva trascorso la fanciullezza tra i giuochi e tra i libri; non tanto occupato in questi (perché egli non doveva essere un uomo di chiesa; come destinato a regnare, gli bastava saper leggere) quanto in quelli, che per lo più consistevano nel montare a cavallo, e correre pei vasti poderi assegnatigli nel limite del palazzo.
- Questo fanciullo sarà il buon seme dal quale rampolleranno i Reali di Francia! ...Così fu profetato e così avvenne.
...Diceva che i saraceni si erano buttati addosso a Fioravante e Rizzeri, e che questi prodi menavan le mani. Rizzeri si meravigliava del valore di Fioravante, così giovane e già così abile; ma gli erano fatiche che andavano a male, perché stanchi essi, stavano per finire sotto i colpi dei nemici dei quali pareva che più ne morissero e più ne sopravvivessero. Ma ecco spuntare Tibaldo di Lima.
(Pupo siciliano esposto al museo etnografico Pitrè di Palermo)
 

Luigi Natoli in Fioravante e Rizzeri: Rizzeri, duca di Sansogna.

Don Calcedonio rifaceva questa storia di Fioravante, mentre col sidol ripuliva le armature di Rizzeri, che parevano d’argento, l’elmo specialmente, con la visiera sfolgorante e con le piume del cimiero turchine, che si riflettevano nel terso specchio della collottola. Se ne compiaceva mostrando la marionetta contro il sole.

Rizzeri, il duca di Sansogna, figlio di Giambarone cavaliere romano, era stato proclamato il primo paladino di Francia, e si può dire che da lui fosse governata la Francia, a lui inoltre, prima che messer Salardo, una volta era stata affidata la sorveglianza di Fioravante; si capisce dunque che fosse invocato in quel momento. Ma Rizzeri era lontano in quei giorni.
Luigi Natoli
 
(Nella foto pupo siciliano esposto presso il laboratorio di uno dei più antichi pupari di Palermo, Vincenzo Argento)

 

Luigi Natoli in Fioravante e Rizzeri: il puparo don Calcedonio.

Egli viveva in mezzo a quel popolo di legno e di mantello non solo perché gli dava il pane, ma perchè vi s’era foggiato un mondo morale a sé, gli stessi sentimenti, le stesse abitudini, quasi lo stesso linguaggio. I paladini rivivevano in lui: Orlando, Rinaldo, Carlo Magno, Fioravante, Rizzeri, il marchese Oliveri, Ricciardetto, e via via dicendo, erano per lui creature viventi, e nel cuor suo accoglieva tutto quanto quei paladini avevano di eroico, di generoso, di nobilmente umano. Quando era sul palcoscenico, e reggeva i fili dei pupi, e li faceva movere coi gesti misurati e sempre gli stessi, e parlava con la voce alterata, non era più lui, ma l’eroe che aveva in pugno. I colpi di spada, che percotevano le teste di legno, erano veri; si meravigliava di non vedere il sangue correre, e una volta mise nella marionetta una piccola vescichetta piena di sangue, che a un colpo colava con una realtà illusiva per lui e per il minuscolo pubblico, che montava in visibilio. Ma un personaggio non poteva soffrire: Gano di Maganza. Il traditore! Gli riusciva ripugnante, e metteva ogni sforzo perché apparisse ancora più laido.
 
Luigi Natoli

(Nella foto il pupo Orlando, esposto al museo etnografico Pitrè di Palermo)

Luigi Natoli in Fioravente e Rizzeri: Lillì.


"Angelica! Egli la chiamava ancora “la piccola” ma era cresciuta, toccava i sedici anni e frequentava la scuola normale. La scuola normale? Eh buon Dio! Non aveva potuto farne a meno; un po’ di istruzione si doveva alle fanciulle, e poi ella studiava per fare la maestra elementare. Salirebbe così un gradino più in alto dei suoi genitori. Ma quel Cicciarello don Calcedonio l’aveva sullo stomaco. Che cosa? sposarla? Chi: un barbiere? Lei che era una maestra? Ma non mi fate ridere! Fosse stato un impiegato del Municipio o dello Stato, un impiegato di concetto (ben inteso), “transeat”. E poi Angelica era molto bellina; un po’ piccolina, ma ben fatta; aveva i capelli castani ondulati, che le inquadravano il viso bianco e roseo. Non poteva dire quanta cipria e quanto rossetto ci fossero sotto quella bianchezza e le labbra erano troppo rosse, per avere un colore naturale, ma avevano una linea, parola d’onore, che facevano venire la voglia di morderle come ciliegie. E gli occhi! Che occhi! Non erano neri, non azzurri, non castani; avevano un colore indefinito con delle pagliuzze d’oro, bruni, grandi: ma quando guardavano, Dio! Che sguardi! Ti scendevano in fondo all’anima, te la scombussolavano, non sapevi più in che mondo tu fossi, né cielo, né in paradiso né in inferno, o piuttosto in tutti e due. E lei, assassina! Lo sapeva; e quando rideva gli occhi le ridevano, e tu tremavi, e dicevi di sì, anche quando la ragione ti diceva di no".

La camera di Lillì era relativamente la più bella. Era solo imbiancata, ma Lillì l’aveva trasformata; tendine alla finestra, il letto di ferro tinto in bianco, il comodino, uno scendiletto da poche lire, un tavolino coi libri in ordine, l’avrebbero fatta scambiare per una camera da studente, se non fosse stato per la toletta che rivelava la donna. Era piena di boccette, di spazzolini, di scatolette di crema, di cipria, di rossetto per le labbra, di ferri per arricciare. Perché Lillì o piuttosto la signorina Lillì (ella si firmava Lilly), da quando aveva toccato i quattordici anni, era divenuta alunna della scuola normale (così allora si chiamava l’istituto magistrale superiore), aveva cominciato a usare i profumi e a darsi l’aria di signorina.
 
La scuola normale! Veramente avrebbe dovuto frequentare la professionale; sarebbe stata più adatta per lei, ma donna Concettina si era incaponita che la figlia dovesse nobilitare la casa. Che sarta! che modista! Una maestra doveva essere. E a furia di sacrifizi, di assottigliare il pane, di rinunciare alle cose più necessarie, aveva pagate le tasse e aveva vestita la figliola in modo da non sfigurare. E a poco a poco l’animo di Angelica s’era trasformato; ella si era fatta chiamare Lillì, sembrandole più signorile che si dovesse allungare le labbra per pronunciare il suo nome; e poi quel nome le appariva quasi di una persona diversa, di una persona “per bene”. Che cosa fosse una persona per bene non sapeva figurarselo, benché frequentasse la scuola normale; le caratteristiche morali le sfuggivano, o meglio credeva che stessero nel formalismo di certe pratiche esteriori. Per questo cominciava a sentirsi un po’ male in quella casa e in quel vicolo; e quando qualche volta un’amica l’accompagnava, ella aveva cura di separarsi da lei prima di arrivare a casa.

 
Dopo essersi guardata ed ammirata, si vestiva continuando ad osservare nello specchio le proprie mosse, studiandole perché non perdessero nulla della loro grazia. Ah, perché lo specchio non era grande abbastanza da potercisi ammirare tutta dal capo alle piante? Ogni tanto si voltava di profilo, studiando la linea del corpo; si torceva in modo da vedersi le spalle e le reni falcate. Ma poi ahimè! si guardava intorno, e la tristezza le allungava il viso. La sua camera non era quella che la sua fantasia le dipingeva nei sogni o che vedeva nei film al cinematografo. Quelle pareti bianche di calce stridevano con le cure, che prodigava al suo corpo; erano squallide; il suo letto di ferro pareva quello di un collegio, con la coperta di cotone.

Ella si profumava abbondantemente ma i suoi profumi non erano davvero di Houbigant o di Coty. Quella camera le era insoffribile, e quel vicolo poi la offendeva.
(Disegno di Niccolò Pizzorno - Quarta di copertina del volume Fioravante e Rizzeri di Luigi Natoli edito I Buoni Cugini Editori)


martedì 3 marzo 2015

Luigi Natoli in Fioravante e Rizzeri: il legame tra don Calcedonio e i suoi pupi.


Quella mattina aveva lucidato l’armatura di Fioravante; elmo, corazza, schienali, bracciali e cosciali di nichel, rabescati d’ottone dorato, risplendevano come argento e oro. Fioravante era disteso su un’altra panca, i tre fili di ferro che gli reggevano il capo e le braccia, congiunti insieme, gli davano una posa da guerriero aspettante; la visiera alzata gli scopriva il viso immobile con gli occhi fissi; la veste, corta al ginocchio, verde, color della speranza, ornata di tre file di passamani d’oro, gli pendeva in pieghe simmetriche; e la spada, la terribile Durlindana, che poi avrebbe ereditato Orlando, gli giaceva al fianco. Oh, era un bel paladino Fioravante. Tutta la mattina don Calcedonio l’aveva occupata con lui. Non conosceva risparmio per i paladini; egli vi spendeva anche più che non potessero le sue forze; alcune armature gli costavano fino a cinquecento lire: quella di Orlando per esempio, tutta dorata, con i gomiti, le spallacce, le ginocchiere che parevano argento, e lo scudo con la croce d’oro, che rifulgeva come un sole. Ma Orlando era il paladino maggiore, e conveniva vestirlo meglio degli altri; la sua veste bianca pareva intessuta di gigli e i ricami parevano una pioggia di botton d’oro. Peccato, che avesse gli occhi storti!

Ma don Calcedonio non pensava a lui. Pur continuando a contare le travi del soffitto, la sua mente era piena di Fioravante e di Mambrino, del quale aveva nella mattinata ripulito l’armatura. Questa era diversa da quella di Fioravante, perché Mambrino era saraceno, e i saraceni, si sa, vanno vestiti diversamente. Hanno l’elmo senza visiera, con un turbante attorcigliato e una specie di chiodo in cima, donde scaturiscono le piume. E hanno le brache corte fino al ginocchio, e la scimitarra.

Veramente i romanzi di cavalleria che egli leggeva, dicevano che i guerrieri saraceni erano vestiti come i cristiani; le stesse armature, come lo stesso linguaggio cavalleresco, gli stessi usi; la differenza era che i cristiani giuravano per Gesù e per la Vergine Maria, i saraceni per Macone, Maometto, Apolline, Belial. Ma don Calcedonio vestiva i cavalieri cristiani come i giostranti del secolo XVI, e i saraceni come i turchi dei secoli posteriori. Era tutt’uno per lui!

Aveva ripulita la corazza di Finaù, figlio del re Balante, che regnava in Scondia; una bell’armatura, tersa e lucente, che faceva abbagliare a mirarla, con un sole raggiante in mezzo, e l’elmo sormontato da una pennacchiera rossa, che ondeggiava al minimo movimento.